“Apparecchio alla morte…”

di Sant’Alfonso Maria de’Liguori dottore della Chiesa

Dedica:

All’Immaculata e sempre Vergine Maria:

Alla piena di grazia, alla Benedetta fra tutti i figli di Adamo:

Alla Colomba, alla Tortorella, alla Diletta di Dio:

Onore del genere umano, Delizia della Santissima Trinità:

Casa d’amore, Esempio d’umiltà, Specchio di tutte le virtù:

Madre del bell’amore, Madre della santa speranza, e Madre di misericordia:

Avvocata de’ miseri, Difesa de’ deboli, Luce de’ ciechi, e Medica degl’infermi:

Ancora di confidenza, Città di rifugio, Porta del Paradiso:

Arca di vita, Iride di pace, Porto di salute:

Stella del mare, e Mare di dolcezza:

Paciera de’ peccatori, Speranza de’ disperati, Aiuto degli abbandonati:

Consolatrice degli afflitti, Conforto de’ moribondi, ed Allegrezza del mondo:

Un affezionato e amante, benché vile ed indegno

Suo Servo
Quest’Opera umilmente consagra.

INTENTO DELL’OPERA NECESSARIO A LEGGERSI

Altri desideravano da me un libro di Considerazioni sulle Massime eterne, per l’anime che desiderano di meglio stabilirsi e d’avanzarsi nella vita spirituale. Altri poi da me chiedeano una Selvetta di materie predicabili nelle Missioni e negli Esercizi spirituali. Io per non moltiplicare libri, fatiche e spese, ho stimato di fare la presente Opera, nel modo come si vede, acciocché possa servire per l’uno e per l’altro fine. Affinché possa giovare a’ secolari per meditare, ho scritte queste Considerazioni divise in tre punti. Ogni punto servirà per una meditazione; e perciò dopo ogni punto vi ho soggiunti gli Affetti e Preghiere.2 E prego i lettori a non prendere tedio, se in queste preghiere leggerà sempre chiedersi le grazie della perseveranza e dell’amore a Dio; poiché queste sono le due grazie a noi più necessarie per conseguire la salute eterna.

La grazia dell’amor divino è quella grazia, dice S. Francesco di Sales,3 che contiene in sé tutte le grazie, perché la virtù della carità verso Dio porta seco tutte l’altre virtù: «Venerunt autem mihi omnia bona pariter cum illa» (Sap. 7. 11). Chi ama Dio, è umile, è casto, è ubbidiente, è mortificato, insomma ha tutte le virtù. «Ama, et fac quod vis», dicea S. Agostino.4 Ama Dio e fa quel che vuoi; sì, perché chi ama Iddio, cercherà di evitare ogni suo disgusto, ed altro non anderá cercando che di compiacerlo in tutto.

L’altra grazia poi della perseveranza è quella, che fa ottener la corona eterna. Dice S. Bernardo5 che ‘l paradiso è promesso a coloro che incominciano

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    la buona vita, ma si dà poi solo a coloro che perseverano: «Inchoantibus praemium6 promittitur, perseveranti autem datur» (S. Bern., Serm. 6 de modo bene viv.). Ma questa perseveranza, come insegnano i SS. Padri, non si dà se non a chi la domanda. Onde scrisse S. Tommaso7 che per entrare in cielo vi bisogna una continua orazione: «Post baptismum autem necessaria est homini iugis oratio, ad hoc quod coelum introeat» (3. p. q. 39. art. 5). E prima lo disse il nostro Salvatore: «Oportet semper orare, et non deficere» (Lucae 18. 1). E questa è la causa per cui molti miseri peccatori, benché perdonati, non persistono poi in grazia di Dio; ricevono il perdono, ma perché poi trascurano di cercare8 a Dio la perseveranza, specialmente in tempo di tentazioni, ritornano a cadere. All’incontro quantunque la grazia della perseveranza sia tutta gratuita, e non possa da noi meritarsi colle opere nostre, nondimeno dice il P. Suarez9 che colla preghiera infallibilmente si ottiene; avendo già prima detto S. Agostino10 che questo dono della perseveranza può meritarsi coll’orazione: «Hoc Dei donum suppliciter emereri potest, id est supplicando impetrari potest» (De dono persev. cap. 6).
    Questa necessità dell’orazione la dimostreremo11 a lungo in un’altra operetta a parte, intitolata, Il gran mezzo della preghiera:12 operetta la
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    quale, quantunque sia breve e perciò di poca spesa, nondimeno mi costa molta fatica, ed io la stimo di sommo utile ad ogni genere di persone; anzi dico asseverantemente,13 che fra tutt’i trattati spirituali non v’è, né può esservi trattato più utile e più necessario di questo della preghiera per ottenere la salute eterna.

Acciocché poi le presenti Considerazioni potessero servire anche per predicare a’ sacerdoti, che han pochi libri, o non han tempo di leggerli, l’ho fornite di testi di Scritture e di passi di SS. Padri, benché brevi, ma spiritosi, quali appunto debbono essere per le prediche. Avvertendo che ogni Considerazione unitamente con tutti i tre punti viene a formare una predica. A tal fine ho procurato di raccogliere da molti autori i sentimenti più vivi, che mi son paruti più atti a muovere; e ne ho posti diversi ed in succinto, acciocché il lettore possa sceglierne quelli che più14 gli gradiscono, e stenderli poi a suo piacere.

Tutto sia a gloria di Dio.15
Viva Gesù nostro amore, e Maria nostra speranza.

CONSIDERAZIONE I – RITRATTO D’UN UOMO DA POCO TEMPO PASSATO ALL’ALTRA VITA

«Pulvis es, et in pulverem reverteris» (Gen. 3. 19).

PUNTO I

Considera che sei terra, ed in terra hai da ritornare. Ha da venire un giorno che hai1 da morire e da trovarti a marcire in una fossa, dove sarai coverto2 da’ vermi. «Operimentum tuum erunt vermes» (Is. 14. 11). A tutti ha da toccare la stessa sorte, a nobili ed a plebei, a principi ed a vassalli. Uscita che sarà l’anima dal corpo con quell’ultima aperta di bocca, l’anima anderà alla sua eternità, e ‘l3 corpo ha da ridursi in polvere. «Auferes spiritum eorum, et in pulverem revertentur» (Ps.103. 29).

Immaginati di veder4 una persona, da cui poco fa sia spirata l’anima. Mira in quel cadavere, che ancora sta sul letto, il capo caduto sul petto: i capelli scarmigliati ed ancor bagnati dal sudor della morte: gli occhi incavati, le guance smunte, la faccia in color di cenere, la lingua e le labbra in color di ferro, il corpo freddo e pesante. Chi lo vede s’impallidisce e trema. Quanti alla vista di un parente o amico defunto hanno mutato vita e lasciato il mondo!

Maggior orrore dà poi il cadavere, quando principia a marcire. Non saranno passate ancora 24 ore ch’è morto quel giovine, e la puzza si fa sentire. Bisogna aprir le finestre e bruciar molto incenso, anzi procurare che presto si mandi alla chiesa, e si metta sotto terra, acciocché non ammorbi tutta la casa. E l’essere stato quel corpo d’un nobile, o5 d’un ricco non servirà che per mandare un fetore più intollerabile. «Gravius foetent divitum corpora», dice un autore.6
Ecco dove è7 arrivato quel superbo, quel disonesto! Prima accolto

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    e desiderato nelle conversazioni, ora diventato l’orrore e l’abbominio di chi lo vede. Ond’è che s’affrettano i parenti a farlo cacciar di casa, e si pagano i facchini, acciocché chiuso in una cassa lo portino a buttarlo in una sepoltura. Prima volava la fama del suo spirito, della sua garbatezza, delle sue belle maniere e delle sue lepidezze; ma tra poco ch’è morto, se ne perde la memoria. «Periit memoria eorum cum sonitu» (Ps. 9. 7).

Al sentir la nuova della sua morte altri dice: Costui si facea8 onore; altri: Ha lasciata bene accomodata la casa; altri se ne rammaricano, perché il defunto recava loro qualche utile; altri se ne rallegrano, perché la sua morte loro giova. Del resto, tra poco tempo da niuno9 più se ne parlerà. E sin dal principio i parenti più stretti non vogliono sentirne più parlare, affinché non si rinnovi loro la passione. Nelle visite di condoglienze10 si parla d’altro; e se taluno esce a parlar del defunto, dice il parente: Per carità non me lo nominate più.

Pensate che siccome voi avete fatto nella morte de’ vostri amici e congiunti, così gli altri faranno di voi. Entrano i vivi a far comparsa nella scena e ad occupare i beni e i posti de’ morti; e de’ morti niente o poco si fa più stima o menzione. Iparenti a principio resteranno afflitti per qualche giorno, ma tra poco si consoleranno con quella porzione di robe, che sarà loro toccata; sicché tra poco più presto si rallegreranno della vostra morte; e in quella medesima stanza, dove voi avrete spirata l’anima, e sarete stato giudicato da Gesu-Cristo,11 si ballerà, si mangerà, si giuocherà e riderà come prima; e l’anima vostra dove allora starà?

Affetti e preghiere
O Gesù mio Redentore, vi ringrazio che non mi avete fatto morire, quando io stava in disgrazia vostra. Da quanti anni io meriterei di star nell’inferno! S’io moriva in quel giorno, in quella notte, che ne sarebbe di me per tutta l’eternità? Signore, ve ne ringrazio. Io accetto la mia morte in soddisfazione de’ miei peccati; e l’accetto secondo il modo che a Voi piacerà di mandarmela; ma giacché mi avete aspettato sinora, aspettatemi un altro poco. «Dimitte me, ut plangam paululum dolorem

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    meum» (Iob. 10. 20). Datemi tempo da piangere l’offese che v’ho12 fatte, prima che mi abbiate a giudicare.

Io non voglio più resistere alle vostre voci. Chi sa, se queste parole che ho lette, sono l’ultima chiamata per me! Confesso che non merito pietà: Voi tante volte mi avete perdonato, ed io ingrato ho ritornato ad offendervi. «Cor contritum, et humiliatum Deus non despicies» (Ps. 50).13 Signore, giacché Voi non sapete disprezzare un cuore, che si umilia e si pente, ecco il traditore che pentito a Voi ricorre. «Ne proiicias me a facie tua».14 Per pietà non mi discacciate. Voi avete detto: «Eum, qui venit ad me, non eiiciam foras» (Io. 6. 37). È vero ch’io v’ho oltraggiato più degli altri, perché più degli altri sono stato da Voi favorito di lumi e di grazie; ma il sangue che avete sparso per me mi dà animo, e mi offerisce il perdono, s’io mi pento. Sì, mio sommo bene, che mi pento con tutta l’anima di avervi15 disprezzato. Perdonatemi, e datemi la grazia di amarvi per l’avvenire. Basta quanto vi ho offeso. La vita, che mi resta, no, Gesù mio, non la voglio più spendere ad offendervi; voglio spenderla solo a piangere sempre i disgusti, che vi ho dati, e ad amarvi con tutto il cuore, o Dio degno d’infinito amore.

O Maria, speranza mia, pregate Gesù per me.

PUNTO II

Ma per meglio vedere quel che sei, cristiano mio, dice S. Gio. Grisostomo:1 «Perge ad sepulcrum, contemplare pulverem, cineres, vermes, et suspira». Mira come quel cadavere prima diventa giallo e poi nero. Dopo si fa vedere su tutto il corpo una lanugine bianca e schifosa. Indi scaturisce un marciume viscoso e puzzolente, che cola per terra. In quella marcia si genera poi una gran turba di vermi, che si nutriscono delle stesse carni. S’aggiungono i topi a far pasto su quel corpo, altri girando da fuori,2 altri entrando nella bocca e nelle viscere. Cadono a pezzi le guance, le labbra e i capelli; le coste son le prime a spolparsi, poi le

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    braccia e le gambe. I vermi dopo aversi consumato3 tutte le carni, si consumano da loro stessi; e finalmente di quel corpo non resta che un fetente scheletro, che col tempo si divide, separandosi l’ossa, e cadendo il capo dal busto. «Redacta quasi in favillam aestivae areae, quae rapta sunt vento» (Dan. 2. 35). Ecco che cosa è l’uomo, è un poco di polvere, che in un’aia è portata dal vento.

Ecco quel cavaliere, ch’era chiamato lo spasso, l’anima della conversazione, dov’è? Entrate nella sua stanza, non v’è più. Se ricercate il suo letto, si è dato ad altri; se le sue vesti, le sue armi, altri già se l’han prese e divise. Se volete vederlo, affacciatevi a quella fossa, dov’è mutato in succidume ed ossa spolpate. Oh Dio quel corpo nutrito con tante delizie, vestito con tanta pompa, corteggiato da tanti servi, a questo si è ridotto? O santi, voi l’intendeste, che per amore di quel Dio che solo amaste in questa terra, sapeste mortificare i vostri corpi, ed ora le vostre ossa son tenute e pregiate come reliquie sacre tra gli ori, e le vostre belle anime godono Dio, aspettando il giorno finale, in cui verranno anche i vostri corpi per esser compagni della gloria, come sono stati della croce in questa vita. Questo è il vero amore al corpo, caricarlo qui di strazi, acciocché in eterno sia felice; e negargli4 quei piaceri, che lo renderanno infelice in eterno.

Affetti e preghiere
Ecco dunque, mio Dio, a che dovrà ridursi anche il mio corpo, per cui tanto vi ho offeso! vermi e marciume. Ma non mi affligge,5 o Signore, anzi mi compiaccio che abbia a così putrefarsi e consumarsi questa mia carne, che mi ha fatto perdere Voi, sommo bene; quello che mi affligge è ch’io per prendermi quei miseri gusti, ho dati tanti disgusti a Voi. Ma non voglio diffidare della vostra misericordia. Voi mi avete aspettato per perdonarmi. «Exspectat Deus, ut misereatur vestri» (Is. 30. 18). E volete perdonarmi, s’io6 mi pento. Sì, che mi pento con tutto il cuore, o bontà infinita, d’avervi disprezzata.7 Vi

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    dirò con S. Caterina da Genova:8 «Gesù mio, non più peccati, non più peccati». Non voglio no più abusarmi della vostra pazienza. Né voglio aspettare, amor mio crocifisso, ad abbracciarvi, quando mi sarete consegnato dal confessore in punto di morte; da ora v’abbraccio, da ora vi raccomando l’anima mia: «In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum».9 L’anima mia è stata per tanti anni al mondo, e non vi ha amato; datemi luce e forza ch’io v’ami in questa vita che mi resta. Non voglio aspettare ad amarvi nell’ora della morte; da ora v’amo, v’abbraccio e vi stringo, e prometto di non lasciarvi più.

O Vergine SS., ligatemi10 con Gesu-Cristo, ed ottenetemi ch’io più non lo perda.

PUNTO III

Fratello mio, in questo ritratto della morte vedi te stesso, e quello che hai1 da diventare. «Memento, quia pulvis es, et in pulverem reverteris».2 Pensa che tra pochi anni, e forse tra mesi3 o giorni diventerai putredine e vermi. Giobbe con questo pensiero si fece santo: «Putredini dixi, pater meus es tu, mater mea et soror mea vermibus» (Iob. 17. 14).

Tutto ha da finire; e se l’anima tua in morte si perderà, tutto sarà perduto per te. «Considera te iam mortuum», dice S. Lorenzo Giustiniani,4 «quem scis de necessitate moriturum» (De Ligno vitae, cap. 4). Se tu fossi già morto, che non desidereresti di aver5 fatto per Dio?6 Ora che sei vivo, pensa che un giorno hai da trovarti morto. Dice S. Bonaventura che il nocchiero per ben governar la nave, si mette alla coda di quella; così l’uomo per menar buona vita, dee7 immaginarsi sempre come stesse in morte. Di là, dice S. Bernardo:8 «Vide prima et erubesce»,9 guarda i peccati della gioventù, ed abbine rossore: «Vide

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    media, et ingemisce», guarda i peccati della virilità, e piangi: «Vide novissima, et contremisce», guarda gli ultimi presenti sconcerti della tua vita, e trema, e presto rimedia.

S. Camillo de Lellis,10 quando si affacciava sulle fosse de’ morti, dicea tra sé: Se questi tornassero a vivere, che non farebbero per la vita eterna? ed io che ho tempo, che fo per l’anima? Ma ciò lo dicea11 questo Santo per umiltà. Ma voi, fratello mio, forse con ragione potete temere d’essere quel fico senza frutto, di cui diceva12 il Signore: «Ecce anni tres sunt, ex quo venio quaerens fructum in ficulnea hac, et non invenio» (Luc. 13. 7). Voi più che da tre anni state nel mondo, che frutto avete dato? Vedete, dice S. Bernardo, che il Signore non solo cerca fiori, ma vuole anche frutti, cioè non solo buoni desideri e propositi, ma vuole anche opere sante. Sappiate dunque avvalervi di questo tempo, che Dio vi dà13 per sua misericordia; non aspettate a desiderare il tempo di far bene, quando non sarà più tempo, e vi sarà detto: «Tempus non erit amplius: Proficiscere»,14 presto, ora è tempo di partire da questo mondo, presto, quel ch’è fatto è fatto.

Affetti e preghiere
Eccomi, Dio mio, io sono quell’albero, che da tanti anni meritava di sentire: «Succide ergo illam, ut quid etiam terram occupat?»15 Sì, perché da tanti anni che sto al mondo, non v’ho dati altri frutti, che di triboli e spine di peccati. Ma Signore, Voi non volete che io16 mi disperi.

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    Voi avete detto a tutti che chi vi cerca, vi trova: «Quaerite, et invenietis».17 Io vi cerco, mio Dio, e voglio la grazia vostra. Di tutte l’offese che v’ho fatte, me ne dispiace con tutto il cuore, vorrei morirne di dolore. Per lo passato v’ho18 fuggito, ma ora stimo più la vostra amicizia che ‘l possedere tutti i regni della terra. Non voglio resistere più alle vostre chiamate. Mi volete tutto per Voi, tutto a Voi mi dono, senza riserba.19 Voi sulla croce vi siete dato tutto a me, io mi do tutto a Voi.

Voi avete detto: «Si quid petieritis me in nomine meo, hoc faciam» (Ioan. 14. 14). Gesù mio, io fidato a20 questa gran promessa, in nome vostro, e per li21 meriti vostri vi cerco la vostra grazia, il vostro amore. Fate che abbondi la grazia, e ‘l vostro santo amore nell’anima mia, dov’è abbondato il peccato. Vi ringrazio che mi date lo spirito di farvi questa preghiera; mentre Voi me l’ispirate, è segno che volete esaudirmi. Esauditemi, Gesù mio, datemi un grande amore verso di Voi, datemi un gran desiderio di darvi gusto e poi la forza d’eseguirlo.

O mia grande Avvocata Maria, esauditemi ancora Voi; pregate Gesù per me.

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CONSIDERAZIONE II – COLLA MORTE FINISCE TUTTO

«Finis venit, venit finis» (Ezech. 2. 7).

PUNTO I

Da’ mondani sono stimati fortunati solamente quei, che godono de’ beni di questo mondo, de’ piaceri, delle ricchezze e delle pompe; ma la morte metterà fine a tutte queste fortune di terra. «Quae est vita vestra? vapor est, ad modicum parens» (Iac. 4. 15). I vapori ch’esalano dalla terra, talvolta alzati in aria, e investiti dalla luce del sole fanno una bella comparsa; ma questa comparsa quanto dura? ad un poco di vento sparisce tutto. Ecco quel grande oggi corteggiato, temuto e quasi adorato; domani che sarà morto, sarà disprezzato, maledetto e calpestato. Colla morte tutto si ha da lasciare. Il fratello di quel gran servo di Dio Tommaso de Kempis1 si pregiava d’aversi fatta una bella casa, ma gli disse un amico che vi era un gran difetto. Quale? egli domandò. Il difetto, quegli rispose, è che vi avete fatta la porta. Come? ripigliò, è difetto la porta? Sì, rispose l’amico, perché un giorno per questa porta dovrete uscirne morto, e così lasciar la casa e tutto.

La morte in somma spoglia l’uomo di tutti i beni di questo mondo. Che spettacolo è vedere cacciar fuori quel principe dal suo palagio per non rientrarvi più, e prendere altri il possesso de’ suoi mobili, de’ suoi danari e di tutti gli altri suoi beni! I servi lo lasciano nella sepoltura coverto2 appena con una veste che basta a coprirgli le carni; non v’è più chi lo stima, né chi l’adula; né si fa più conto de’ suoi comandi lasciati. Saladino,3 che acquistò molti regni nell’Asia, morendo lasciò

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    detto che quando portavasi4 il suo cadavere a seppellirsi, uno gli andasse avanti colla sua camicia appesa ad un’asta, gridando: Questo è tutto quel che si porta Saladino alla sepoltura.

Posto ch’è nella fossa il cadavere di quel principe, se ne cadono le carni, ed ecco che il5 suo scheletro più non si distingue dagli altri. «Contemplare sepulcra», dice S. Basilio,6 «vide num poteris discernere, quis servus, quis dominus fuerit». Diogene7 un giorno facea vedersi da Alessandro Magno tutto affannato in ricercare qualche cosa fra certi teschi di morti. Che cerchi? curioso disse Alessandro. Vado cercando, rispose, il teschio del re Filippo tuo padre, e nol so distinguere; se tu lo puoi trovare, fammelo vedere: «Si tu potes, ostende».

In questa terra gli uomini disugualmente nascono, ma dopo la morte tutti si trovano eguali: «Impares nascimur, pares morimur», dice8 Seneca.9 Ed Orazio10 disse che la morte eguaglia gli scettri alle zappe: «Sceptra ligonibus aequat». In somma quando viene la morte, «finis venit», tutto finisce e tutto si lascia, e di tutte le cose di questo mondo niente si porta alla fossa.

Affetti e preghiere
Signor mio, giacché mi date luce a conoscere che quanto stima il mondo, tutto è fumo e pazzia, datemi forza a staccarmene, prima che

  • 21 –
    me ne stacchi la morte. Infelice che sono stato, quante volte per li miseri piaceri e beni di questa terra, ho offeso e perduto Voi bene infinito! O Gesù mio, o medico celeste, girate gli occhi sulla povera anima mia, guardate le tante piaghe, ch’io stesso mi ho11 fatto co’ miei peccati, ed abbiate pietà di me. «Si vis, potes me mundare».12 Io soche potete e volete sanarmi, ma per sanarmi volete ch’io mi penta dell’ingiurie che vi ho fatte; sì che me ne pento con tutto il cuore; sanatemi dunque, or che potete sanarmi. «Sana animam meam, quia peccavi tibi» (Ps. 40. 5).Io mi sono scordato di Voi, ma Voi non vi siete scordato di me; ed ora mi fate sentire che volete anche scordarvi dell’offese che vi ho fatte, s’io13 le detesto: «Siautem impius egerit poenitentiam, omnium iniquitatum eius non recordabor» (Ez. 18. 21). Ecco io le detesto e14 l’odio sopra ogni male; scordatevi dunque, Redentore15 mio, di quante amarezze v’ho date. Per l’avvenire voglio perdere tutto, anche la vita, prima che la grazia vostra. E che mi servono tutti i16 beni della terra, senza la vostra grazia?

Deh aiutatemi, Voi sapete quanto son debole. L’inferno non lascerà17 di tentarmi; già mi apparecchia18 mille assalti, per rendermi di nuovo suo schiavo. No, Gesù mio, non mi abbandonate. Io voglio essere da oggi avanti schiavo del vostro amore. Voi siete l’unico mio Signore. Voi mi avete creato, Voi redento, Voi siete quegli che sovra19 tutti mi avete amato: Voi siete quegli20 che solo meritate di esser amato, Voi solo io21 voglio amare.

PUNTO II

Filippo II re di Spagna,1 stando vicino a morte, si chiamò il figlio, e buttando la veste regale che lo copriva, gli fe’ vedere il petto roso da’ vermi, e poi gli disse: Principe, vedi come si muore, e come finiscono tutte le grandezze di questo mondo! Ben disse Teodoreto:2 «Nec divitias

  • 22 –
    mors metuit, nec satellites, nec purpuram»; e che così da’ vassalli come da’ principi, «putredo sequitur, et sanies defluit». Sicché ognuno che muore, ancorché principe, niente conduce seco alla sepoltura; tutta la gloria resta sul letto, dove spira. «Cum interierit, non sumet omnia, neque descendet cum eo gloria eius (Ps. 48. 18).»

Narra S. Antonino3 che morto che fu Alessandro Magno, un certo filosofo esclamando disse: «Ecco quegli che ieri4 conculcava la terra, ora dalla terra è oppresso. Ieri tutta la terra non gli bastava, ora gli bastan sette palmi. Ieri conduceva per la terra eserciti, ed ora è condotto5 da pochi facchini sotto terra». Ma meglio sentiamo quel che dice Dio: «Quid superbis, terra et cinis?» (Eccli. 10. 9).Uomo, non vedi che sei polvere e cenere, a che t’insuperbisci? a che spendi i tuoi pensieri e gli anni tuoi per farti grande in questo mondo? Verrà la morte, ed allora finiranno tutte le tue grandezze e tutt’i tuoi disegni: «In illa die peribunt cogitationes eorum» (Ps. 55. 6).6
Oh quanto fu più felice la morte di S. Paolo eremita, il quale7 visse 60 anni chiuso in una grotta, che la morte di Nerone, che visse imperadore in Roma! Quanto più fortunata la morte di S. Felice8 laico cappuccino, che la morte di Errico VIII vivuto tra le grandezze regali, ma nemico di Dio! Ma bisogna riflettere che i Santi per ottenere una tal morte hanno lasciato tutto, le patrie, le delizie, le speranze9 che il mondo loro offeriva, ed hanno abbracciata una vita povera e disprezzata. Si son seppelliti vivi in questa terra, per non esser seppelliti morti nell’inferno.

  • 23 –
    Ma i mondani, come mai vivendo tra’10 peccati, tra’ piaceri terreni, e tra occasioni pericolose possono sperare una felice morte? Dio minaccia a’ peccatori che in morte lo cercheranno e non lo troveranno: «Quaeretis me, et non invenietis» (Ier.13.).11 Dice che allora sarà tempo non di misericordia, ma di vendetta. «Ego retribuam in tempore» (Deuter. 32. 35).

La ragione ci persuade lo stesso, mentre allora un uomo di mondo, in morte si troverà debole di mente, ottenebrato e indurito di cuore per li mali abiti fatti:12 le tentazioni saranno più forti: chi in vita ha soluto quasi sempre cedere e farsi vincere, come resisterà in morte? Vi bisognerebbe allora una grazia divina più potente, che gli mutasse il cuore; ma questa grazia forse Iddio è obbligato a darcela? Forse colui se l’ha meritata colla13 vita sconcertata che ha fatta? E pure si tratta allora della sua fortuna o della sua ruina14 eterna. Com’è possibile che pensando a ciò, chi crede alle verità della fede, non lasci tutto per darsi tutto a Dio, il quale secondo le nostre opere ci giudicherà?15
Affetti e preghiere
Ah Signore, e quante notti io misero ho dormito16 in disgrazia vostra! Oh Dio, e in quale stato miserabile stava allora l’anima mia! era ella odiata da Voi, ed ella voleva l’odio vostro. Era io già condannato all’inferno: solo restava che si eseguisse la sentenza. Ma Voi, mio Dio, non avete lasciato di venirmi appresso e d’invitarmi17 al perdono. Ma chi m’assicura, se mi avete perdonato ancora? Avrò da vivere, Gesù mio, in questo timore, sino che mi giudicate? Ma il dolore che sento d’avervi offeso, il desiderio che ho d’amarvi, ma più la vostra passione, amato mio Redentore, mi fanno sperare di stare in grazia vostra. Mi pento d’avervi offeso, o sommo bene, e vi amo sopra ogni cosa. Risolvo di perdere tutto, prima che perdere la vostra grazia e il18 vostro amore. Voi

  • 24 –
    volete che stia lieto quel cuore che vi cerca. «Laetetur cor quaerentium Dominum» (I Par. 16. 10).

Signore, io detesto tutte le ingiurie19 che v’ho fatte; datemi animo e confidenza, non mi rimproverate più la mia ingratitudine, mentre io stesso la conosco e la detesto. Voi avete detto che non volete la morte del peccatore, ma che si converta e viva: «Nolo mortem impii, sed ut convertatur, et vivat» (Ez. 33. 11). Sì, mio Dio, io lascio tutto e a Voi mi converto: vi cerco, vi voglio, vi amo20 sopra ogni cosa. Datemi il vostro amore, e niente più vi domando.

O Maria, Voi siete la speranza mia, ottenetemi la santa perseveranza.

CONSIDERAZIONE III – BREVITÀ DELLA VITA

«Quae est vita vestra? vapor est ad modicum parens» (Iac. 4. 15).

PUNTO I

Che cosa è la nostra1 vita? è simile ad un vapore, che ad un poco di vento sparisce, e non v’è più. Tutti sanno che han da morire; ma l’inganno di molti si è che si figurano la morte così lontana, come non avesse mai da venire. Ma no, ci avvisa Giobbe, che la vita dell’uomo è breve: «Homo brevi vivens tempore, quasi flos egreditur, et conteritur» (Iob. c. 14).2 Questo stesso comandò il Signore ad Isaia di predicare: «Clama (gli disse), omnis caro foenum… vere foenum est populus, exsiccatum est foenum, et cecidit flos» (Is. c. 40).3 La vita dell’uomo è come la vita d’una pianta di fieno: viene la morte, seccasi il fieno, ed ecco che finisce la vita, e cade il fiore d’ogni grandezza e d’ogni bene mondano.

«Dies mei velociores cursore» (Iob. c. 9).4 La morte ci corre all’incontro più presto d’un cursore, e noi in ogni momento corriamo alla morte. In ogni passo, in ogni respiro alla morte ci accostiamo. «Quod scribo (dice5 S. Girolamo6) de mea vita tollitur». Per questo tempo in cui scrivo, più m’accosto alla morte. «Omnes morimur, et quasi aquae dilabimur in terram, quae non revertuntur» (Reg. 14. 14).7 Vedi là, come corre quel ruscello al mare, e quelle acque che scorrono, non ritornano più indietro; così, fratello mio, passano i tuoi giorni, e ti avvicini alla morte; passano i piaceri, passano gli spassi, passano le pompe, le lodi, le acclamazioni, e che resta? «Et solum mihi superest sepulcrum» (Iob. 17. 1). Sarem buttati in una fossa, ed ivi avremo da restare a marcire spogliati di tutto. In punto di morte la rimembranza

  • 28 –
    di tutti i diletti goduti in vita, di tutti gli onori acquistati non ci serviranno che per8 accrescerci la pena e la sconfidenza di ottenere la salute eterna. Dunque (dirà allora il misero mondano) la mia casa, i miei giardini, quei mobili di buon gusto, quelle pitture, quelle vesti tra poco non saranno più miei? 9 «Et solum mihi superest sepulcrum».

Ah che allora niun bene di questa terra si guarda se non con pena da chi l’ha amato con attacco; e questa pena non gli servirà ad altro che a mettere in maggior pericolo la salute dell’anima; vedendosi colla sperienza che tali persone attaccate al mondo in morte non vogliono sentir parlare d’altro che della loro infermità, di medici che posson chiamarsi e di rimedi che posson giovare: e quando si discorre loro dell’anima, subito si tediano, e vi dicono che li10 lasciate riposare, perché loro duole il capo, e non possono sentir parlare. E se talvolta rispondono, si confondono, né sanno che dirsi. E spesso da’ confessori si dà loro l’assoluzione, non perché si conoscono disposte, ma perché non vi è11 tempo d’aspettare. Così muoiono quei che poco pensano alla morte.

Affetti e preghiere
Ah mio Dio e Signore d’infinita maestà, mi vergogno di comparirvi avanti. Quante volte io vi ho disonorato, posponendo la vostra grazia ad un sordido piacere, ad uno sfogo di rabbia, ad un poco di terra, ad un capriccio, ad un fumo! Adoro e bacio, o mio Redentore, le vostre sante piaghe, ch’io per altro v’ho fatto12 co’ miei peccati, ma da queste medesime io spero il perdono e la salute. Fatemi conoscere, o Gesù mio, il gran torto che vi ho fatto in lasciare Voi fonte d’ogni bene, per abbeverarmi d’acque putride e avvelenate. Che mi trovo di tante offese che vi ho fatte, se non pene, rimorsi di coscienza e meriti per l’inferno? «Pater, non sum dignus vocari filius tuus».13 Padre mio, non mi discacciate.

È vero che io14 non merito più la vostra grazia, che mi renda vostro figlio; ma Voi siete morto per perdonarmi. Voi avete detto: «Convertimini

  • 29 –
    ad me, et convertar ad vos» (Zach. 1. 3). Io lascio tutte le mie soddisfazioni, rinunzio a tutt’i15 gusti, che mi può dare il mondo, e mi converto a voi.

Perdonatemi per lo sangue sparso per me, mentre io16 mi pento con tutto il cuore di tutti gli oltraggi che v’ho fatti. Mi pento e vi17 amo sopra ogni cosa. Io non son degno d’amarvi, ma voi siete degno d’essere amato. Accettatemi ad amarvi; non isdegnate che v’ami quel cuore, che un tempo v’ha disprezzato. Voi apposta18 non mi avete fatto morire, quando io stava in peccato, acciocché io vi amassi;19 sì che vi voglio amare nella vita che mi resta, e non voglio amare altro che Voi. Aiutatemi Voi, datemi la santa perseveranza e il20 vostro santo amore.

Maria rifugio mio, raccomandatemi a Gesu-Cristo.21
PUNTO II

Piangeva il re Ezechia: «Praecisa est velut a texente vita mea, dum adhuc ordirer, succidit me» (Is. c. 38).1 Oh a quanti2 al meglio che stan tessendo la tela, cioè ordinando ed eseguendo i loro disegni mondani, presi con tante misure, viene la morte e taglia tutto. Alla luce di quell’ultima candela svanisce ogni cosa di questo mondo, applausi, divertimenti, pompe e grandezze. Gran segreto della morte! ella ci fa vedere quel che non vedono gli amanti del mondo. Le fortune più invidiate, i posti più grandi, i trionfi più superbi perdono tutto lo splendore, quando si ravvisano dal letto della morte. L’idee di certe false felicità, che noi ci abbiam formate, si cambiano allora in isdegno contro la propria pazzia. L’ombra nera e funesta della3 morte covre4 ed oscura tutte le dignità, anche regali.

Ora le passioni fanno apparire i beni di questa terra altro5 di quel che sono; la morte gli scopre e fa vederli quali in verità sono, fumo, fango, vanità e miseria. Oh Dio! a che servono le ricchezze, i feudi, i regni6

  • 30 –
    in morte, quando altro non tocca che una cassa di legno, ed una semplice veste, che basta a coprir le carni? A che servono gli onori, quando altro non tocca che un funebre accompagnamento ed una pomposa esequie, che niente gioverà all’anima, se l’anima è perduta? A che serve la bellezza del corpo, se altro7 non resta allora che vermi, puzza ed orrore, anche prima di morire, e poi un poco di polvere puzzolente.

«Posuit me quasi in proverbium vulgi, et exemplum suum coram eis» (Iob. c. 17).8 Muore quel ricco, quel ministro, quel capitano, ed allora se ne parlerà da per tutto; ma se mai egli ha vivuto male, diventerà la favola del popolo, «Proverbium vulgi, et exemplum»; e come esempio della vanità del mondo ed anche della divina giustizia servirà per correzione degli altri. Nella sepoltura poi starà egli confuso tra gli altri cadaveri de’ poveri. «Parvus et magnus ibi sunt» (Iob. 3.).9 A che gli è valuta la bella disposizione del corpo, se ora non è che un mucchio di vermi? A che l’autorità avuta, se ora il suo corpo è buttato a marcire in una fossa, e l’anima è stata gittata ad ardere nell’inferno? Oh che miseria il servire di soggetto agli altri per fare queste riflessioni, e non averle fatte in proprio profitto! Persuadiamoci dunque che per rimediare a’ disordini della coscienza, non è tempo proprio il tempo della morte, ma della vita. Affrettiamoci di far ora quel che non potremo allora fare:«Tempus breve est».10 Tutto presto passa e finisce; perciò facciamo che tutto ci serva per acquistarci la vita eterna.

Affetti e preghiere
O Dio dell’anima mia, o bontà infinita, abbiate pietà di me, che tanto v’ho offeso. Sapeva io già che peccando perdeva la vostra grazia, e l’ho voluta perdere. Ditemi che ho da fare per ricuperarla? Se volete ch’io mi penta de’ peccati miei, sì che me ne pento con tutto il cuore; vorrei morirne di dolore. Se volete ch’io speri il perdono da Voi, sì lo spero per li meriti del vostro sangue. Se volete ch’io v’ami sopra ogni cosa, io lascio tutto, rinunzio a tutti i gusti e beni, che può darmi il mondo, e v’amo più d’ogni bene, o mio amabilissimo Salvatore. Se volete poi ch’io vi dimandi grazie, due grazie vi cerco: non permettete ch’io vi offenda11 più: e fate ch’io v’ami; e poi trattatemi come volete.

  • 31 –
    Maria speranza mia, ottenetemi Voi queste due grazie; da Voi le spero.

PUNTO III

Che pazzia dunque, per li miseri e brevi diletti di questa così breve vita, mettersi a rischio di fare una mala morte? e con quella cominciare un’eternità infelice? Oh quanto pesa quell’ultimo momento, quell’ultima aperta di bocca, quell’ultima chiusa di scena! Pesa un’eternità o di tutti i contenti o di tutti i tormenti. Pesa una vita o sempre felice o sempre infelice. Pensiamo che Gesu-Cristo volle morire con una morte sì amara e ignominiosa, per ottenere a noi una buona morte. A questo fine ci dà tante chiamate, ci dona tanti lumi, ci ammonisce con tante minacce, affinché accertiamo1 di finire quell’ultimo momento in grazia di Dio.

Anche un gentile (Antistene) dimandato qual fosse in questo mondo la miglior fortuna? rispose: «Una buona morte».2 E che dirà un cristiano, il quale sa per fede che da quel momento principia l’eternità: sicché in quel momento si afferra una delle due ruote, che seco tira o un eterno godere o un eterno patire. Se in una borsa vi fossero due cartelle, in una delle quali vi stesse scritto l’inferno e nell’altra il paradiso, che avesse a toccarti; qual diligenza non faresti per indovinare a prendere quella del paradiso? Quei miseri che son condannati a giocarsi3 la vita, oh Dio, come tremano in istender la mano a buttare i dadi, dalla cui sorte dipende la lor4 vita o morte!

Quale spavento sarà, quando ti troverai vicino a quell’ultimo momento, quando dirai: Da questo punto, a cui sto vicino, dipende la mia vita o la mia morte eterna! Ora sta, se dovrò essere o beato per sempre o disperato per sempre. Narra S. Bernardino da Siena5 di un certo principe,

  • 32 –
    che morendo tutto atterrito diceva: Ecco ch’io ho tante terre e tanti palagi in questo mondo; ma se muoio in questa notte, non so quale stanza mi avrà da toccare!

Fratello, se credi che si ha da morire e che vi è eternità, e che una volta sola si ha da morire, sicché se allora la sgarri, l’avrai sgarrata per sempre, senza speranza di rimedio, come non ti risolvi di cominciare da questo punto che leggi, a far quanto puoi per assicurarti a fare una buona morte? Tremava6 un S. Andrea d’Avellino,7 dicendo: Chi sa qual sorte mi toccherà nell’altra vita? se mi salverò o dannerò? Tremava8 ancora un S. Luigi Beltrando9 talmente che la notte non potea prendere sonno al pensiero che gli dicea: E chi sa se ti danni? E tu che ti trovi con tanti peccati fatti, non tremi? Presto, rimedia a tempo, risolvi di darti da vero10 a Dio; e comincia almeno da questo tempo una vita, che non ti affligga, ma ti consoli in morte. Datti all’orazione, frequenta i sagramenti,11 lascia le occasioni pericolose; e se bisogna, lascia ancor12 il mondo, assicura la tua salute eterna; e intendi che per assicurare la salute eterna, non vi è sicurtà che basti.

Affetti e preghiere
O caro mio Salvatore, quanto vi sono obbligato! E come mai avete potuto Voi far tante grazie ad un ingrato, ad un traditore, quale io sono stato con Voi? Voi mi creaste, e creandomi già vedevate l’ingiurie, ch’io aveva a farvi. Mi redimeste morendo per me, e già allora vedevate le ingratitudini, che io aveva ad usarvi. Indi io posto già al mondo vi voltai le spalle, e con ciò era morto, era un cane fetente, e Voi colla vostra grazia mi avete restituita la vita. Io era accecato,13 e Voi mi avete illuminato. Io vi avea perduto, e Voi vi avete fatto da me trovare. Era nemico, e Voi mi avete fatto vostro amico.

  • 33 –
    O Dio di misericordia, fatemi conoscer14 le obbligazioni che v’ho, e fatemi piangere l’offese che v’ho fatte. Deh vendicatevi meco con darmi un gran dolore de’ peccati miei; ma non mi castigate con privarmi della vostra grazia e del vostro amore.

O Eterno Padre, io abborrisco15 e detesto sopra ogni male l’ingiurie che v’ho fatte. Abbiate pietà di me per amore di Gesu-Cristo. Guardate il vostro Figlio morto in croce. «Sanguis eius super me»:16 scenda questo sangue divino a lavare l’anima mia. O Re del mio cuore, «adveniat regnum tuum».17 Io son risoluto di discacciare ogni affetto, che non è per Voi. Io v’amo sopra ogni cosa; venite a regnare solamente Voi nell’anima mia; fate ch’io v’ami, e non ami altro che Voi. Io desidero di darvi gusto quanto posso, e di contentarvi appieno nella vita che mi resta. Benedite Voi, o Padre mio, questo mio desiderio, e datemi la grazia di tenermi sempre a Voi unito. Tutti gli affetti miei a Voi li consagro, e da oggi avanti non voglio essere d’altri che di Voi, mio tesoro, mia pace, mia speranza, mio amore, mio tutto: e tutto spero da Voi per li meriti del vostro Figlio.

Regina e Madre mia Maria, aiutatemi colla vostra intercessione: Madre di Dio, pregate per me.

CONSIDERAZIONE IV – CERTEZZA DELLA MORTE

«Statutum est hominibus semel mori» (Hebr. 9. 27).

PUNTO I

È scritta la sentenza della morte per tutti gli uomini: sei uomo, hai da morire. Dice1 S. Agostino:2 «Cetera nostra bona et mala incerta sunt, sola mors certa est». È incerto se quel bambino che nasce, dovrà esser povero o ricco, se ha d’avere buona o cattiva sanità, se avrà da morire giovine o vecchio: tutto è incerto, ma è certo che ha da morire. Ogni nobile, ogni regnante ha da essere reciso dalla morte. E quando giunge la morte, non v’é forza che possa resistere: si resiste al fuoco, all’acqua, al ferro: si resiste alla potenza de’ principi, ma non può resistersi alla morte. «Resistitur ignibus, undis, ferro: resistitur regibus; venit mors, quis ei resistit?» (S. August. In psal. 12).3 Narra il Belluacense4 che un certo re di Francia, giunto in fine della vita disse: «Ecco che io5 con tutta la mia potenza non posso già ottenere che la morte mi aspetti un’ora di più». Quando è venuto il termine della vita, neppure per un momento si differisce. «Constituisti terminos eius, qui praeteriri non poterunt» (Iob. 14. 5).

Abbiate dunque a vivere, lettor mio, tutti gli anni che sperate, ha da venire un giorno, e di quel giorno un’ora, che sarà l’ultima per voi. Per me che ora scrivo, per voi che leggete questo libretto, sta già decretato il giorno e ‘l punto, nel quale né io più scriverò, né voi più leggerete:6

  • 36 –
    «Quis est homo, qui vivit et non videbit mortem?» (Psal. 88. 49).È fatta la condanna: non v’è stato mai uomo sì pazzo, che siasi lusingato di non avere a morire. Ciò ch’è succeduto a’ vostri antenati, ha da succedere anche a voi. Di quanti nel principio del secolo passato viveano nella vostra patria, ecco che niuno n’è vivo. Anche i principi, i monarchi della terra han mutato paese; di loro non vi è altro qui rimasto che un mausoleo di marmo con una bella iscrizione, la quale oggi serve a noi d’insegnamento, che de’ grandi del mondo altro non resta che un poco di polvere chiusa tra le pietre. Dimanda S. Bernardo:7 «Dic mihi, ubi sunt amatores mundi?» e risponde: «Nihil ex eis remansit, nisi cineres et vermes».

Pertanto bisogna che ci procuriamo non quella fortuna che finisce, ma quella che sarà eterna, giacché eterne sono l’anime nostre. A che servirebbe l’esser felice (se mai può darsi vera felicità in un’anima che sta senza Dio), se poi dovreste esser infelice per tutta l’eternità? Vi avete fatta già quella casa con tanta vostra soddisfazione,8 ma pensate che presto dovrete lasciarla e andare a marcire in una fossa. Avete ottenuta quella dignità, che vi rende superiore agli altri; ma verrà la morte, che vi renderà simile a’ villani più vili della terra.

Affetti e preghiere
Ah povero di me,9 che per tanti anni non ho pensato che ad offendervi, o Dio dell’anima mia! Ecco che questi anni già son passati, la morte forse mi è già vicina, e che me ne trovo, se non pene e rimorsi di coscienza? Oh vi avessi sempre servito, Signor mio! Pazzo che sono stato! sono stato su questa terra a vivere già per tanti anni, ed invece di acquistarmi meriti per l’altra vita, mi son caricato di debiti colla divina giustizia.

Caro mio Redentore, datemi luce e forza di aggiustare al presente i conti. La morte forse poco da me sta lontana. Voglio apparecchiarmi per quel gran punto decisivo della mia felicità o infelicità eterna. Vi ringrazio d’avermi aspettato sinora.10 E giacché mi date tempo di rimediare

  • 37 –
    al mal fatto, eccomi, mio Dio, ditemi che ho da fare per Voi. Volete che io11 mi dolga dell’offese che vi ho fatte; io me ne dolgo, me ne dispiace con tutta l’anima. Volete ch’io spenda questi anni o giorni che mi restano in amarvi;12 sì che voglio farlo. Oh Dio, per lo passato anche più volte ho risoluto di farlo, ma le mie promesse son diventate poi tradimenti! No, Gesù mio, non voglio esser più ingrato a tante grazie che mi avete fatte. Se almeno ora non muto vita, come potrò in morte sperar perdono e paradiso? Ecco ora risolvo fermamente di mettermi a servirvi da vero.13 Ma Voi datemi forza, non mi abbandonate. Ma Voi non mi avete abbandonato, quando io vi offendeva; dunque spero maggiormente il vostro aiuto or che propongo di lasciar tutto per compiacervi.

Accettatemi dunque ad amarvi, o Dio degno d’infinito amore. Accettate il traditore che ora pentito s’abbraccia a’ piedi vostri, e v’ama e vi cerca pietà. V’amo, o Gesù mio, v’amo con tutto il cuore, v’amo più di me stesso. Eccomi son vostro. Disponete di me e di tutte le mie cose come vi piace; datemi la perseveranza nell’obbedirvi, datemi il vostro amore, e poi fate di me quel che volete.

Maria, Madre, speranza, rifugio mio, a Voi mi raccomando, a Voi consegno l’anima mia; pregate Gesù per me.

PUNTO II

«Statutum est».1 È certo dunque che tutti siamo condannati a morte. Tutti nasciamo, dice S. Cipriano,2 col capestro alla gola; e quanti passi diamo, tanto ci avviciniamo alla morte. Fratello mio, siccome voi siete stato scritto un giorno nel libro del battesimo, così avrete un giorno da essere scritto nel libro de’ morti. Siccome voi nominate ora i vostri antenati, la buona memoria di mio padre, di mio zio, di mio fratello; così i posteri avran da dire anche di voi. Siccome avete più volte udito sonare a morto degli altri, così gli altri avran da sentire3 sonare di voi.

  • 38 –
    Ma che direste voi, se vedeste un condannato a morte che andasse al patibolo burlando, ridendo, girando gli occhi e pensando a commedie, festini e spassi? e voi ora camminate già alla morte, ed a che pensate? Guardate là in quella fossa quei vostri amici e parenti, per cui già si è eseguita la giustizia. Che spavento dà a’ condannati il vedere sulla forca i compagni già appesi e morti! Guardate dunque quei cadaveri, ognun de’ quali vi dice: «Mihi heri, et tibi hodie» (Eccli. 38. 23). Lo stesso vi dicono ancora i ritratti de’ vostri parenti defunti, i loro libri di memoria, le case, i letti, le vesti da loro lasciate.

Qual pazzia maggior4 è dunque sapere che si ha da morire, e che dopo la morte ci ha da toccare o un’eternità di gaudi o un’eternità di pene; pensare che da quel punto dipende l’essere o eternamente felice o eternamente infelice, e poi non pensare ad aggiustare i conti e prendere tutti i mezzi per fare una buona morte?Noi compatiamo coloro che muoiono di subito, e non si trovano apparecchiati alla morte: e noi perché poi non procuriamo di stare apparecchiati, potendo anche a noi accadere lo stesso? Ma o presto o tardi, o con avviso o improvvisamente, o ci pensiamo o non ci pensiamo, abbiamo da morire; ed in ogni ora, in ogni momento ci accostiamo alla nostra forca, che sarà appunto quell’ultima infermità, che ci ha da cacciare dal mondo.

In ogni secolo le case, le piazze e le città si riempiono di gente nuova, ed i primi son portati a chiudersi ne’ sepolcri. Siccome per coloro son finiti i giorni della vita, così verrà il tempo, in cui né io,5 né voi, né alcuno di quanti al presente viviamo, viveremo più su questa terra. «Dies formabuntur, et nemo in eis» (Salm. 138. 16).6 Saremo allora tutti nell’eternità, la quale sarà per noi un eterno giorno di delizie o un’eterna notte di tormenti. Non ci è via di mezzo; è certo, è di fede che l’una o l’altra sorte ci ha da toccare.

Affetti e preghiere
Amato mio Redentore, non avrei ardire di comparirvi avanti, se non vi rimirassi7 appeso a questa croce, lacerato, schernito e morto per me. È stata grande la mia ingratitudine, ma è più grande la vostra misericordia. Sono stati grandi i miei peccati, ma sono più grandi i vostri

  • 39 –
    meriti. Le vostre piaghe, il vostro sangue, la vostra morte sono la speranza mia. Io meritava l’inferno dal punto del primo mio8 peccato: appresso io tante volte ho ritornato ad offendervi, e Voi non solo mi avete conservato in vita, ma con tanta pietà e con tanto amore mi avete chiamato al perdono, e mi avete offerta la pace. Come posso ora temere che mi discacciate da Voi, ora che v’amo ed altro non desidero che la grazia vostra?

Sì v’amo con tutto il cuore, o caro mio Signore; ed altro non desidero che amarvi. V’amo e mi pento di avervi disprezzato, non tanto per l’inferno che mi ho meritato, quanto per avere offeso Voi, mio Dio, che mi avete tanto amato. Via su, Gesù mio, aprite a me il seno della vostra bontà; aggiungete misericordie a misericordie. Fate ch’io non vi sia più ingrato; e mutatemi in tutto il cuore. Fate che ‘l mio cuore, che un tempo niente ha stimato il vostro amore e l’ha cambiato per miseri gusti di questa terra, ora sia tutto vostro, ed arda in continue fiamme per Voi.

Io spero di venire in paradiso per sempre ad amarvi; ivi non può toccarmi luogo fra gl’innocenti, mi toccherà stare tra’ penitenti, ma tra questi io voglio amarvi più degl’innocenti. Per gloria della vostra misericordia veda il paradiso ardere in un grande amore un peccatore, che vi ha tanto offeso. Io risolvo da oggi avanti di esser tutto vostro, e di non pensare ad altro che ad amarvi. Assistetemi Voi colla vostra luce e colla vostra grazia, che mi dia forza ad eseguire questo mio desiderio, che Voi stesso mi date per vostra bontà.

O Maria, Voi siete la Madre della perseveranza, impetratemi l’esser fedele in questa mia promessa.

PUNTO III

La morte è certa. Ma oh Dio che ciò lo sanno già i cristiani, lo credono, lo vedono; e come poi tanti vivono talmente scordati della morte, come non avessero mai a morire! Se non vi fosse dopo questa vita né inferno né paradiso, potrebbero pensarci meno di quel che ora ci pensano? E perciò fanno la mala vita che fanno.

  • 40 –
    Fratello mio, se volete viver bene, procurate di vivere in questi giorni che vi restano, a vista della morte. «O mors, bonum est iudicium tuum» (Eccli. 41. 3). Oh come bene giudica le cose e dirige le sue azioni, chi le giudica e dirige a vista della morte! La memoria della morte fa perdere l’affetto a tutte le cose di questa terra. «Consideretur vitae terminus, et non erit in hoc mundo quid ametur», dice S. Lorenzo Giustiniani (de Ligno vitae, cap. 4).1 «Omne quod in mundo est, concupiscentia carnis est, concupiscentia oculorum, et superbia vitae» (I Io. 2. 16). Tutti i beni del mondo si riducono a’ piaceri di senso, a robe e ad onori; ma ben disprezza tutto, chi pensa che tra poco ha da ridursi in cenere e ad esser posto sotto terra per pascolo di vermi.

Ed in fatti a vista della morte i Santi han disprezzati tutti i beni di questa terra. Perciò S. Carlo Borromeo2 si tenea nel tavolino un teschio di morto,3 per mirarlo continuamente. Il cardinal Baronio4 sull’anello teneasi scritto: «Memento mori». Il Ven. P. Giovenale Ancina vescovo di Saluzzo5 tenea scritto sopra un altro teschio di morto il motto: «Come tu sei, fui pur io: e com’io sono, sarai pur tu». Un altro santo Eremita6 dimandato in morte, perché stesse con tanta allegrezza, rispose: Io ho tenuto spesso avanti gli occhi la morte, e perciò ora ch’è giunta, non vedo cosa nuova.

Che pazzia sarebbe d’un viandante, se viaggiando pensasse a farsi grande in quel paese per dove passa, e non si curasse di ridursi poi a vivere miseramente in quello dove ha da stare in tutta la sua vita? E non è pazzo chi pensa a farsi felice in questo mondo, dove ha da stare pochi giorni, e si mette a rischio di farsi infelice nell’altro, dove avrà

  • 41 –
    da vivere in eterno? Chi tiene una cosa aliena in prestito, poco ci pone affetto pensando che tra poco l’ha da restituire: i beni di questa terra tutti ci sono dati in prestito; è sciocchezza metterci affetto, dovendoli tra poco lasciare. La morte ci ha da spogliare di tutto. Tutti gli acquisti, e fortune di questo mondo vanno a terminare ad un’aperta di bocca, ad un funerale e ad una scesa in una fossa. La casa da voi fabbricata tra poco dovrete cederla ad altri; il sepolcro sarà l’abitazione del vostro corpo sin al giorno del giudizio, e di là dovrà poi passare al paradiso7 o all’inferno, dove già prima sarà andata l’anima.

Affetti e preghiere
Dunque in morte tutto sarà finito per me? Altro allora non mi troverò, o mio Dio, che quel poco che ho fatto per vostro amore. E che aspetto? aspetto che venga la morte e mi trovi così misero ed infangato di colpe come al presente sono? Se ora dovessi morire, morirei molto inquieto e troppo scontento della vita fatta. No, Gesù mio, non voglio morire così scontento. Vi ringrazio che mi date tempo di piangere i miei peccati e d’amarvi. Voglio cominciare da questo punto.

Mi pento sopra ogni male di avervi offeso, o sommo bene, e v’amo più d’ogni cosa, più della vita mia. Tutto a Voi mi dono; Gesù mio, da ora v’abbraccio, vi stringo al mio cuore; e da ora vi consegno tutta l’anima mia. «In manus tuas commendo spiritum meum».8 Non voglio aspettare a darvela, quando le sarà intimata (con quel «Proficiscere») la partenza da questo mondo. Non voglio aspettare a pregarvi allora che mi salviate! «Iesus, sis mihi Iesus».9 Salvatore mio, ora salvatemi con perdonarmi, e donarmi la grazia del vostro santo amore. Chi sa, se questa considerazione, che oggi ho letta, è l’ultima chiamata che Voi mi fate, e l’ultima misericordia che mi usate. Stendete su la mano,

  • 42 –
    amor mio, e cacciatemi dal fango della mia tiepidezza.10 Datemi fervore; fate che v’ubbidisca con grande amore in tutto quello che da me cercate. Eterno Padre, per amore di Gesu-Cristo11 datemi la santa perseveranza e la grazia d’amarvi, e amarvi assai in questa vita che mi resta.

O Maria Madre di misericordia, per l’amore che portate al vostro Gesù, ottenetemi queste due grazie, perseveranza e amore.

CONSIDERAZIONE V – INCERTEZZA DELL’ORA DELLA MORTE

«Estote parati, quia qua hora non putatis, Filius hominis veniet»

PUNTO I

È certo che tutti abbiamo da morire, ma è incerto il quando. «Nihil certius morte (dice l’Idiota),1 hora autem mortis nihil incertius». Fratello mio, già sta determinato l’anno, il mese, il giorno, l’ora e ‘l momento, nel quale io e voi abbiam da lasciar questa terra ed entrare nell’eternità; ma questo tempo a noi è ignoto. Il Signore,2 acciocché noi ci troviamo sempre apparecchiati, ora ci dice che la morte verrà come un ladro di notte e di nascosto: «Sicut fur in nocte, ita veniet» (I Thess. 5.2): ora ci dice che stiamo vigilanti, perché quando meno ce l’immaginiamo, verrà Egli a giudicarci: «Qua hora non putatis, Filius hominis veniet».3 Dice S. Gregorio che Dio per nostro bene ci nasconde l’ora della morte, acciocché ci troviamo sempre apparecchiati: «De morte incerti sumus, ut ad mortem semper parati inveniamur». Giacché dunque la morte in ogni tempo, ed in ogni luogo può toglierci la vita, se vogliamo morir bene e salvarci, bisogna (dice S. Bernardo)4 che in ogni tempo ed in ogni luogo la stiamo aspettando: «Mors ubique te exspectat; tu ubique eam exspectabis».

  • 44 –
    Ognuno sa che ha da morire,5 ma il male è che molti ravvisano la morte in tanta lontananza che la perdono di vista. Anche i vecchi più decrepiti e le persone più infermicce pure si lusingano di avere a vivere per tre o quattro altri anni di più. Ma all’incontro, io dico, quanti ne sappiamo noi anche a’ giorni nostri morti di subito! chi sedendo, chi camminando, chi dormendo nel suo letto! È certo che niun di costoro credea di avere a morir così improvvisamente ed in quel giorno ch’è morto. Dico in oltre di6 quanti in quest’anno son passati all’altra vita, morendo nel loro letto, niuno s’immaginava di dovere in quest’anno finire i suoi giorni. Poche sono le morti, che non riescono improvvise.

Dunque, cristiano mio, quando il demonio vi tenta a peccare con dirvi che domani poi vi confesserete, rispondetegli: E che so io, se oggi è l’ultimo giorno di mia vita? se quest’ora, questo momento, in cui voltassi le spalle a Dio, fosse l’ultimo per me, sicché per me poi non vi fosse più tempo di rimediare, che ne sarebbe di me in eterno? A quanti poveri peccatori è succeduto che nello stesso punto che cibavansi di qualch’esca avvelenata, sono stati colti dalla morte e mandati all’inferno? «Sicut pisces capiuntur hamo, sic capiuntur homines in tempore malo».(Eccli. 9. 12). Il tempo malo è propriamente quello, in cui attualmente il peccatore offende Dio. Dice il demonio che questa disgrazia non vi succederà; ma voi dovete dire: E se mi succede, che ne sarà7 di me per tutta l’eternità?

Affetti e preghiere
Signore, il luogo, dove a quest’ora dovrei stare, non dovrebbe esser questo, in cui al presente mi trovo, ma l’inferno, che tante volte m’ho meritato co’ miei peccati: «Infernus domus mea est».8 Ma mi avvisa S. Pietro: «Deus patienter agit propter vos, nolens aliquos perire, sed omnes ad poenitentiam reverti» (2 Petr. 3. 6).Dunque Voi avete avuta tanta pazienza con me e mi avete aspettato, perché non volete vedermi perduto, ma volete ch’io ritorni a penitenza. Sì, mio Dio, a Voi ritorno, mi butto a’ piedi vostri e vi domando pietà. «Miserere mei Deus, secundum

  • 45 –
    magnam misericordiam tuam».9 Signore, per perdonare a me, vi bisogna una misericordia grande e straordinaria, perché io vi ho offeso colla luce. Altri peccatori anche vi hanno offeso, ma non hanno avuta la luce, che Voi avete data a me. Voi con tutto ciò anche mi comandate ch’io mi penta de’ miei peccati, e speri da Voi il perdono. Sì, mio caro Redentore, mi pento con tutto il cuore di avervi offeso, e spero il perdono per li meriti10 della vostra passione. Voi, Gesù mio, essendo innocente avete voluto morire da reo su d’una croce e spargere tutto il sangue per lavare i peccati miei. «O sanguis innocentis, lava culpas poenitentis».11
    O Padre Eterno, perdonatemi per amore di Gesu-Cristo, udite le sue preghiere, or ch’Egli vi sta pregando per me, facendo il mio avvocato. Ma non mi basta il perdono, o Dio degno d’infinito amore, io voglio ancora la grazia d’amarvi. V’amo, o sommo bene, e v’offerisco da oggi avanti il mio corpo, l’anima mia, la mia volontà, la mia libertà. Voglio da oggi avanti evitare non solo i vostri disgusti gravi, ma anche i leggieri. Voglio fuggire tutte le male occasioni. «Ne nos inducas in tentationem». Liberatemi Voi per amore di Gesu-Cristo da quelle occasioni, in cui vi avessi da offendere. «Sed libera nos a malo».12 Liberatemi dal peccato, e poi castigatemi13 come volete. Accetto tutte le infermità, i dolori, le perdite che vorrete mandarmi; mi basta che non perda la vostra grazia e ‘l vostro amore. «Petite, et accipietis».14 Voi mi promettete di dare quanto v’è richiesto: «Petite et accipietis». Io queste due grazie vi cerco, la santa perseveranza e la grazia d’amarvi.

O Maria Madre di misericordia, pregate per me, in Voi confido.

PUNTO II

Il Signore non ci vuol vedere perduti, e perciò non lascia d’avvertirci1 a mutar vita colla minaccia del castigo.2 «Nisi conversi fueritis, gladium

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    suum vibrabit ” (Ps. 7. 13). Mirate (dice in altro luogo) quanti, perché non l’han voluta finire, quando meno se l’immaginavano, e vivean3 in pace sicuri di aver a vivere per molti anni, repentinamente è giunta loro la morte: «Cum dixerint pax, et securitas, tunc repentinus eis superveniet interitus» (Prov. 29. 1).4 In un altro5 luogo dice: «Nisi poenitentiam egeritis, omnes similiter peribitis».6 Perché tanti avvisi del castigo, prima di mandarcelo? se non perché Egli vuole che noi ci emendiamo, e così evitiamo la mala morte. Chi dice, guardati, non ha voglia di ucciderti, dice S. Agostino:7 «Non vult ferire, qui clamat tibi: Observa».

È necessario dunque apparecchiare i conti, prima che arrivi8 il giorno de’ conti. Cristiano mio, se prima di notte in questo giorno doveste morire, e avesse da9 decidersi la causa della vostra vita eterna, che dite, vi trovereste i conti apparecchiati? o pure quanto paghereste per ottener da Dio un altro anno, un mese, almeno un altro giorno di tempo? E perché ora che Dio già vi dà questo tempo, non aggiustate la coscienza? Forse non può essere che questo giorno sia l’ultimo per voi? «Non tardes converti ad Dominum, et non differas de die in diem; subito enim veniet ira illius, et in tempore vindictae disperdet te» (Eccli. 5. 9).Per salvarti, fratello mio, bisogna lasciare il peccato; se dunque hai da lasciarlo una volta, perché non lo lasci ora? «Si aliquando, cur non modo?».10 (S. August.). Aspetti forse che giunga la morte? ma il tempo della morte non è tempo di perdono, ma di vendetta. «In tempore vindictae disperdet te» (Eccli. loc. cit.).

Se alcuno vi dee una gran somma, voi presto vi cautelate con farvi fare l’obbligo11 scritto, dicendo: Chi sa che può succedere? E perché non

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    usate poi la stessa cautela per l’anima vostra, che importa assai più di quella somma?perché non dite lo stesso: Chi sa che può succedere? Se perdete quella somma, non perdete12 tutto; e benché perdendo quella perdessivo13 tutto il vostro patrimonio, pure vi resterebbe la speranza di riacquistarlo; ma se in morte perdete l’anima, allora veramente avrete perduto tutto, e non vi sarà più per voi speranza di ricuperarlo. Voi siete così diligente in notare le memorie de’ beni che possedete, per timore che non si perdano, se mai v’accadesse una morte improvvisa; e se per caso vi accade questa morte improvvisa, e vi trovate in disgrazia di Dio, che sarà dell’anima vostra per tutta l’eternità?

Affetti e preghiere
Ah mio Redentore, Voi avete sparso14 tutto il sangue, avete data la vita per salvare l’anima mia, ed io tante volte l’ho perduta colla speranza della vostra misericordia. Dunque io tante volte mi son servito della vostra bontà, perché? per più offendervi? Per questo stesso io meritava che Voi subito mi faceste morire, e mi mandaste all’inferno. In somma ho fatto a gara con Voi: Voi ad usarmi pietà, io ad offendervi. Voi a venirmi appresso, io a fuggire da Voi. Voi a darmi tempo per rimediare al mal fatto, ed io a servirmene per aggiungere ingiurie ad ingiurie. Signore, fatemi conoscere il gran torto che vi ho fatto e l’obbligo che mi resta d’amarvi.

Ah Gesù mio, com’io poteva esser così caro a Voi, che tanto mi siete venuto appresso, quando io vi discacciava? Come avete potuto far tante grazie a chi vi ha dato tanti disgusti? Da tutto ciò vedo quanto Voi desiderate di non vedermi perduto. Mi pento con tutto il cuore di avervi offeso, o bontà infinita. Deh ricevete quest’ingrata pecorella, che pentita ritorna a’ vostri piedi: ricevetela, e stringetela sulle vostre spalle, acciocché non fugga più da Voi. No, che non voglio più da Voi fuggire; vi voglio amare, voglio essere vostro; e purché io15 mi veda vostro, mi contento d’ogni pena. E qual pena maggiore mi può succedere che vivere senza la grazia vostra, diviso da Voi che siete il mio Dio, che mi

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    avete creato, e siete morto per me? O peccati maledetti, che avete fatto? mi avete fatto disgustare il mio Salvatore, che mi ha tanto amato.

Ah Gesù mio, come siete morto per me, così dovrei morire16 io per Voi; Voi per amore, io per dolore di avervi disprezzato. Accetto la morte, come e quando vi piace; ma finora io non v’ho amato, o troppo poco v’ho amato; non voglio morire così. Deh concedetemi un altro poco di vita, acciocch’io v’ami prima di morire; perciò mutatemi il cuore, feritelo, infiammatelo del vostro santo amore: fatelo per quell’affetto di carità, che vi ha fatto morire per me. Io v’amo con tutta l’anima mia. L’anima mia si è innamorata di Voi. Non permettete ch’ella più vi perda. Datemi la santa perseveranza, datemi il vostro amore.

Maria SS. rifugio e Madre mia, fate l’avvocata per me.

PUNTO III

«Estote parati».1 Non dice il Signore che ci apparecchiamo, quando ci arriva la morte, ma che ci troviamo apparecchiati. Quando viene la morte, allora in quella tempesta e confusione sarà quasi impossibile aggiustare una coscienza imbrogliata. Così dice la ragione. Così minaccia Dio, dicendo che allora Egli non verrà a perdonare, ma a vendicarsi del disprezzo fatto delle sue grazie. «Mihi vindicta, et ego retribuam in tempore». (Rom. 12. 19). Giusto castigo, dice S. Agostino,2 sarà questo per colui che potendo non ha voluto salvarsi, di non potere quando vorrà: «Iusta poena est, ut qui recta facere cum posset noluit, amittat posse cum velit» (Lib. 3 de lib. arb.). Ma dirà alcuno: Chi sa, può essere ancora3 che allora mi converta, e mi salvi. Ma vi gittereste voi in un pozzo con dire: Chi sa, può essere che gittandomi resto vivo e non muoio?4 Oh Dio, che cosa è questa? Come il peccato accieca la mente, che fa perdere anche la ragione! Gli uomini, quando si tratta del corpo, parlano da savi; quando poi si tratta d’anima, parlano da pazzi.

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    Fratello mio, chi sa se questo punto che leggete, è l’ultimo avviso che Dio vi manda? Presto apparecchiamoci alla morte, acciocché non ci colga improvvisamente. Dice S. Agostino5 che ‘l Signore ci nasconde l’ultimo giorno di nostra vita, affinché in tutt’i giorni stiamo apparecchiati a morire: «Latet ultimus dies, ut observentur omnes dies» (Hom. 13). Ci avvisa S. Paolo che bisogna attendere a salvarci non solo temendo, ma anche tremando: «Cum metu et tremore vestram salutem operamini». (Philipp. 2. 12). Narra S. Antonino6 che un certo re della Sicilia per far intendere ad un privato il timore, col quale egli sedea nel trono, lo fece sedere a mensa con una spada pendente da un picciolo filo sulla testa, sicché quegli stando così, appena poté prendere qualche poco di cibo. Tutti noi stiamo collo stesso pericolo, mentre in ogni momento può caderci sopra la spada della morte, da cui dipende la nostra salute eterna.

Si tratta di eternità. «Si ceciderit lignum ad austrum, aut ad aquilonem, in quocunque loco ceciderit, ibi erit» (Eccl. XI. 3). Se venendo la morte ci troviamo7 in grazia di Dio, oh che allegrezza sarà dell’anima, potendo allora dire: Ho assicurato tutto, non posso perdere più Dio, sarò felice per sempre. Ma se la morte troverà l’anima in peccato, qual

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    disperazione sarà il dire: «Ergo erravimus».8 Dunque ho errato ed al mio errore non ci sarà rimedio per tutta l’eternità? Questo timore fece dire al Ven. P. M. Avila, apostolo delle Spagne,9 quando gli fu portata la nuova della morte: «Oh avessi un altro poco di tempo, per apparecchiarmi a morire!» Questo facea dire all’Abbate Agatone,10 con tutto che moriva dopo tanti anni di penitenza: «Che ne sarà di me! I giudizi di Dio chi li sa!» S. Arsenio anche tremava in morte, e dimandato da’ discepoli, perché così temesse: «Figli, rispose, questo timore non mi è nuovo; io l’ho avuto sempre in tutta la mia vita». Sopra tutti tremava11 il santo Giobbe, dicendo: «Quid faciam, cum surrexerit ad iudicandum Deus? et cum quaesierit, quid respondebo illi?»12
    Affetti e preghiere
    Ah mio Dio, e dove io ho avuto mai uno che mi ha amato più di Voi? ed io chi mai ho disprezzato ed ingiuriato più che Voi? O sangue, o piaghe di Gesù, voi siete la speranza mia. Eterno Padre, non guardate i miei peccati, guardate le piaghe di Gesu-Cristo, guardate il vostro Figlio diletto, che muore di dolore per me e vi domanda che mi perdoniate. Mi pento, o mio Creatore, di avervi offeso, me ne dispiace più d’ogni male. Voi mi avete creato, acciocché io13 vi amassi, ed io son vivuto, come se mi aveste creato per offendervi. Per amore di Gesu-Cristo perdonatemi e datemi la grazia d’amarvi.

Io prima resisteva alla vostra volontà: ora non voglio più resistere, voglio fare quanto mi comandate. Voi mi comandate ch’io detesti gli

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    oltraggi, che vi ho fatti: ecco li detesto con tutto il cuore. Mi comandate ch’io risolva di non offendervi più; ecco risolvo di perdere prima mille volte la vita che la grazia vostra. Mi comandate ch’io v’ami con tutto il mio cuore; sì, con tutto il mio cuore io v’amo, e non voglio amare altro che Voi: Voi avete da essere da ogg’innanzi l’unico mio amato e l’unico amor mio. A Voi domando e da Voi spero14 la santa perseveranza. Per amore di Gesu-Cristo fate ch’io vi sia fedele, e ch’io sempre vi dica con S. Bonaventura:15 «Unus est dilectus meus, unus amicus16 meus». No, non voglio che la vita mia mi serva più a darvi disgusto; voglio che mi serva solo per piangere i disgusti, che vi ho dati, e per amarvi.

Maria Madre mia, Voi pregate per tutti coloro che a Voi si raccomandano, pregate ancora Gesù per me.

CONSIDERAZIONE VI – MORTE DEL PECCATORE

«Angustia superveniente, pacem requirent, et non erit; conturbatio super conturbationem veniet» (Ezech. 7. 25).1
PUNTO I

Al presente i peccatori discacciano la memoria e ‘l pensiero della morte, e così cercano di trovar pace (benché non la trovino mai) nel vivere che fanno in peccato; ma quando si troveranno nell’angustie2 della morte, prossimi ad entrare nell’eternità: «Angustia superveniente, pacem requirent, et non erit»; allora non possono sfuggire il tormento della loro mala coscienza; cercheranno la pace, ma che pace può trovare un’anima, ritrovandosi aggravata di colpe, che come tante vipere la mordono? che pace, pensando di dover comparire tra pochi momenti avanti di Gesu-Cristo giudice, del quale sino ad allora ha disprezzata la legge e l’amicizia? «Conturbatio super conturbationem veniet». La nuova già ricevuta della morte, il pensiero di doversi licenziare da tutte le cose del mondo, i rimorsi della coscienza, il tempo perduto, il tempo che manca, il rigore del divino giudizio, l’eternità infelice che si aspetta a’ peccatori: tutte queste cose componeranno una tempesta orrenda, che confonderà la mente ed accrescerà la diffidenza; e così confuso e sconfidato il moribondo passerà all’altra vita.

Abramo con gran merito sperò in Dio contro la speranza umana, credendo alla divina promessa: «Contra spem in spem credidit» (Rom. 4. 18). Ma i peccatori con gran demerito e falsamente3 per loro ruina sperano, non solo contro la speranza, ma ancora contro la fede, mentre disprezzano anche le minacce, che Dio fa agli ostinati. Temono essi la mala morte, ma non temono di fare una mala vita. Ma chi gli assicura di non morire di subito con un fulmine, con una goccia, con un butto di sangue? ed ancorché avessero tempo in morte da convertirsi, chi gli assicura che da vero4 si convertiranno? S. Agostino5 ebbe da combattere

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    dodici anni per superare i suoi mali abiti;6 come potrà un moribondo, che sempre è stato colla coscienza imbrattata, in mezzo a i dolori, agli stordimenti della testa e nella confusione della morte fare facilmente una vera conversione? Dico «vera», perché allora non basta il dire e promettere; ma bisogna dire e promettere col cuore. Oh Dio, e da quale spavento resterà preso e confuso allora il misero7 infermo, ch’è stato di coscienza trascurata, in vedersi oppresso da’ peccati e da’ timori del giudizio, dell’inferno e dell’eternità! In quale confusione lo metteranno questi pensieri, quando si troverà svanito di testa, oscurato di mente e assalito da’ dolori della morte già vicina! Si confesserà, prometterà, piangerà, cercherà pietà a Dio, ma senza sapere quel che si faccia; ed in questa tempesta di agitazioni, di rimorsi, d’affanni e di spaventi passerà all’altra vita. «Turbabuntur populi, et pertransibunt» (Iob. 34. 20).

Ben dice un autore8 che le preghiere, i pianti e le promesse del peccator moribondo sono appunto come i pianti e le promesse di taluno, che si vede assalito dal suo nemico, il quale gli tiene posto il pugnale alla gola per torgli allora la vita. Misero chi si mette a letto in disgrazia di Dio, e di là se ne passa all’eternità!

Affetti e preghiere
O piaghe di Gesù, voi siete la speranza mia. Io dispererei del perdono9 de’ miei peccati e della mia salute eterna, se non rimirassi voi fonti10 di pietà e di grazia, per mezzo di cui un Dio ha sparso tutto il suo sangue, per lavare l’anima mia da tante colpe commesse. Vi adoro dunque, o sante piaghe, ed in voi confido. Detesto mille volte e maledico quei piaceri indegni, per li quali ho disgustato il mio Redentore, e miseramente ho perduta la sua amicizia. Guardando dunque voi, sollevo le mie speranze, e verso voi rivolgo gli affetti miei.

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    Caro mio Gesù, Voi meritate che tutti gli uomini v’amino, e v’amino con tutto il loro cuore; ma io vi ho tanto offeso ed ho disprezzato il vostro amore, e Voi ciò non ostante mi avete così sopportato, e con tanta pietà mi avete invitato al perdono. Ah mio Salvatore, non permettete ch’io più vi offenda, e mi danni. Oh Dio! che pena mi sarebbe nell’inferno la vista del vostro sangue e di tante misericordie che mi avete usate! Io v’amo e voglio sempre amarvi. Datemi Voi la santa perseveranza. Staccate il mio cuore da ogni amore che non è per Voi, e stabilite in me un vero desiderio e risoluzione di amare da oggi avanti solamente Voi, mio sommo bene.

O Maria Madre mia, tiratemi a Dio, e fatemi essere tutto suo, prima ch’io muoia.

PUNTO II

Non una, ma più e molte saranno le angustie del povero peccator moribondo. Da una parte lo tormenteranno i demoni. In morte questi orrendi nemici mettono tutta la forza per far perdere quell’anima, che sta per uscire di1 questa vita, intendendo2 che poco tempo lor resta da guadagnarla, e che se la perdono allora, l’avran perduta per sempre. «Descendit diabolus ad vos habens iram magnam, sciens quod modicum tempus habet» (Apoc. 12. 12). E non uno sarà il demonio, che allora tenterà, ma innumerabili che assisteranno al moribondo per farlo perdere. «Replebuntur domus eorum draconibus» (Is. 13. 21). Uno gli dirà: Non temere che sanerai. Un altro dirà: E come? tu per tanti anni sei stato sordo alle voci di Dio, ed ora esso vorrà usarti pietà? Un altro: Come ora puoi rimediare a quelli danni fatti? a quelle fame tolte? Un altro: Non vedi che le tue confessioni sono state tutte nulle, senza vero dolore, senza proposito? come puoi ora più rifarle?

Dall’altra parte si vedrà il moribondo circondato da’ suoi peccati. «Virum iniustum mala capient in interitu» (Ps. 139. 12). Questi peccati come tanti satelliti, dice S. Bernardo,3 lo terranno afferrato e gli diranno: «Opera tua sumus, non te deseremus». Noi siamo tuoi parti, non vogliamo lasciarti; ti accompagneremo all’altra vita, e teco ci presenteremo all’eterno giudice. Vorrà allora il moribondo sbrigarsi da tali

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    nemici, ma per isbrigarsene bisognerebbe odiarli, bisognerebbe convertirsi di cuore a Dio; ma la mente è ottenebrata, e ‘l cuore è indurito. «Cor durum habebit male in novissimo: et qui amat periculum, peribit in illo» (Eccli. 3. 27).

Dice S. Bernardo4 che il cuore, ch’è stato ostinato nel male in vita, farà i suoi sforzi per uscire dallo stato di dannazione, ma non giungerà a liberarsene, ed oppresso dalla sua malizia nel medesimo stato finirà la vita. Egli avendo sino ad allora amato il peccato, ha insieme amato il pericolo della sua dannazione; giustamente perciò permetterà il Signore che allora perisca in quel pericolo, nel quale ha voluto vivere sino alla morte. Dice S. Agostino che chi è lasciato dal peccato, prima ch’egli lo lasci, in morte difficilmente lo detesterà come dee; perché allora quel che farà, lo farà a forza: «Qui prius a peccato relinquitur, quam ipse relinquat, non libere, sed quasi ex necessitate condemnat».

Misero dunque quel peccatore ch’è duro, e resiste alle divine chiamate! «Cor eius indurabitur quasi lapis, et stringetur quasi malleatoris incus» (Iob. 41. 15). Egli l’ingrato in vece di rendersi ed ammollirsi alle voci di Dio, si è indurito come più s’indurisce l’incudine a’ colpi del martello. In pena di ciò tal5 ancora si ritroverà in morte, benché si ritrovi in punto di passare all’eternità. «Cor durum habebit male in novissimo». I peccatori, dice il Signore, mi han voltate le spalle per amore delle creature: «Verterunt ad me tergum, et non faciem, et in tempore afflictionis suae dicent: Surge, et libera nos. Ubi sunt dii tui, quos fecisti tibi? surgant, et liberent te» (Ier. 2. 27). I miseri in morte ricorreranno a Dio, e Dio loro dirà: Ora a me ricorrete? chiamate le creature che vi aiutino; giacché quelle sono state i vostri dei. Dirà così il Signore, perché essi ricorreranno, ma senz’animo vero di convertirsi. Dice S. Girolamo6 tener egli quasi per certo ed averlo appreso coll’esperienza che non farà mai buon fine, chi ha fatta mala vita sino alla fine: «Hoc teneo, hoc multiplici experientia didici, quod ei non bonus est finis, cui mala semper vita fuit» (In epist. Eusebii ad Dam.).

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    Affetti e preghiere
    Caro mio Salvatore, aiutatemi, non mi abbandonate, io vedo l’anima mia tutta impiagata da’ peccati; le passioni mi fanno violenza, i mali abiti7 mi opprimono; mi butto a’ piedi vostri; abbiate pietà di me e liberatemi da tanti mali.«In te, Domine, speravi, non confundar in aeternum».8 Non permettete che si perda un’anima, che confida in Voi. «Ne tradas bestiis animam confitentem tibi».9 Io mi pento d’avervi offeso, o bontà infinita; ho fatto male, lo confesso: voglio emendarmi ad ogni costo; ma se Voi non mi soccorrete colla vostra grazia, io son perduto. Ricevete, o Gesù mio, questo ribelle, che vi ha tanto oltraggiato. Pensate che vi ho costato il sangue e la vita. Per li meriti dunque della vostra passione e morte ricevetemi tra le vostre braccia, e datemi la santa perseveranza. Io era già perduto, Voi mi avete chiamato; ecco io non voglio più resistere, a Voi mi consagro; ligatemi10 al vostro amore, e non permettete ch’io vi perda più, con perdere di nuovo la vostra grazia; Gesù mio, non lo permettete.

Regina Mia Maria, non lo permettete; impetratemi prima la morte e mille morti ch’io abbia11 da perdere di nuovo la grazia del vostro Figlio.

PUNTO III

Gran cosa! Dio non fa altro che minacciare una mala morte a’ peccatori: «Tunc invocabunt me, et non exaudiam» (Prov. 1. 18). «Nunquid Deus exaudiet clamorem eius, cum venerit super eum angustia» (Iob. 27. 9). «In interitu vestro ridebo, et subsannabo» (Prov. 1. 26). («Ridere Dei est nolle misereri», S. Gregor.).1 «Mea est ultio, et ego retribuam eis in tempore, ut labatur pes eorum» (Deuter. 32. 35). Ed in tanti altri luoghi minaccia lo stesso; ed i peccatori vivono in pace, sicuri come Dio avesse certamente promesso loro in morte il perdono

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    e ‘l paradiso. È vero che in qualunque ora si converte il peccatore, Dio ha promesso di perdonarlo; ma non ha detto che il peccatore in morte si convertirà; anzi più volte si è protestato che chi vive in peccato, in peccato morirà: «In peccato vestro moriemini» (Io. 8. 21). «Moriemini in peccatis vestris» (ibid.24). Ha detto che chi lo cercherà in morte, non lo troverà: «Quaeretis me, et non invenietis (Io. 7. 34). Dunque bisogna cercare Dio, quando si può trovare: «Quaerite Dominum, dum inveniri potest» (Is. 55. 6). Sì, perché vi sarà un tempo che non potrà più2 trovarsi. Poveri peccatori! poveri ciechi, che si riducono a convertirsi all’ora della morte, in cui non sarà più tempo di convertirsi! Dice l’Oleastro:3 «Impii nusquam didicerunt benefacere, nisi cum non est tempus benefaciendi». Dio vuol salvi tutti, ma castiga gli ostinati.

Se mai alcun miserabile ritrovandosi in peccato, fosse colto dalla goccia, e stesse destituto di sensi, qual compassione farebbe a tutti il vederlo morire senza sagramenti4 e senza segno di penitenza? qual contento poi avrebbe ognuno, se costui ritornasse in sé e cercasse l’assoluzione, e facesse atti di pentimento? Ma non è pazzo poi chi avendo tempo di far ciò, siegue a stare in peccato? o pure torna a peccare e si mette in pericolo che lo colga la morte, nel tempo della quale forse lo farà, e forse no? Spaventa il veder morire alcuno all’improvviso, e poi tanti volontariamente si mettono al pericolo di morire così, e morire in peccato!

«Pondus et statera iudicia Domini sunt» (Prov. 16. 21). Noi non teniamo conto delle grazie, che ci fa il Signore; ma ben ne tiene conto il Signore e le misura; e quando le vede disprezzate sino a certi termini, lascia il peccatore nel suo peccato, e così lo fa morire. Misero chi si riduce a far penitenza in morte. «Poenitentia, quae ab infirmo petitur, infirma est», dice S. Agostino (Serm. 57. de Temp.5 ). S. Geronimo6 dice che di centomila peccatori che si riducono sino alla morte a stare in peccato, appena uno in morte si salverà: «Vix de centum millibus, quorum mala vita fuit, meretur in morte a Deo indulgentiam unus»

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    (S. Hier. in Epist. Euseb. de morte eiusd.). Dice S. Vincenzo Ferrerio7 (Serm. I. de Nativ. Virg.) che sarebbe più miracolo che uno di questi tali si salvasse, che far risorgere un morto. «Maius miraculum est, quod male viventes faciant bonum finem, quam suscitare mortuos». Che dolore, che pentimento vuol concepirsi in morte da chi sino ad allora ha amato il peccato?

Narra il Bellarmino8 ch’essendo egli andato ad assistere ad un certo moribondo ed avendolo esortato a fare un atto di contrizione, quegli rispose che non sapea ciò che si fosse contrizione. Bellarmino procurò di spiegarcelo, ma l’infermo disse: «Padre, io non v’intendo, io non son capace di queste cose». E così se ne morì. «Signa damnationis suae satis aperte relinquens», come il Bellarmino lasciò scritto. Giusto castigo, dice S. Agostino,9 sarà del peccatore, che si dimentichi di sé in morte, chi in vita si è scordato di Dio: «Aequissime percutitur peccator, ut moriens obliviscatur sui qui vivens oblitus est Dei «(Serm. 10. de Sanct.).

«Nolite errare (intanto ci avverte l’Apostolo), Deus non irridetur: quae enim seminaverit homo, haec et metet; qui seminat in carne sua, de carne et metet corruptionem» (Galat. 6.7) Sarebbe un burlare Dio vivere disprezzando le sue leggi, e poi raccoglierne premio e gloria eterna; ma «Deus non irridetur». Quel che si semina in questa vita, si raccoglie nell’altra. A chi semina piaceri vietati di carne, altro non tocca che corruzione, miseria e morte eterna.

Cristiano mio, quel che si dice per gli altri, si dice anche per voi. Ditemi se vi trovaste già in punto di morte, disperato da’ medici, destituto di sentimenti e ridotto già in agonia, quanto preghereste Dio che vi concedesse un altro mese, un’altra settimana di tempo allora, per aggiustare i conti della vostra coscienza? E Dio già vi dà questo tempo. Ringraziatelo e presto rimediate al mal fatto, e prendete tutti i mezzi per ritrovarvi in istato di grazia, quando verrà la morte, perché allora non sarà più tempo di rimediare.

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    Affetti e preghiere

Ah mio Dio, e chi avrebbe avuta tanta pazienza con me, quanta ne avete10 avuta Voi? Se la vostra bontà non fosse infinita, io diffiderei del perdono. Ma tratto con un Dio, ch’è morto per perdonarmi e per salvarmi. Voi mi comandate ch’io speri, ed io voglio sperare. Se i peccati miei mi spaventano e mi condannano, mi danno animo i vostri meriti e le vostre promesse. Voi avete promessa la vita della vostra grazia a chi ritorna a Voi: «Revertimini, et vivite (Ezech. 18. 32)». Avete promesso di abbracciare chi a Voi si volta: «Convertimini ad me, et convertar ad vos» (Zach.1. 3). Avete detto che non sapete disprezzare chi s’umilia e si pente: «Cor contritum, et humiliatum, Deus, non despicies» (Ps. 50).11
Eccomi, Signore, io a Voi ritorno, a Voi mi volgo, mi confesso degno di mille inferni e mi pento d’avervi offeso: io vi prometto fermamente di non volervi più offendere e di volervi sempre amare. Deh non permettete che io12 viva più ingrato a tanta bontà.

Eterno Padre, per li meriti dell’ubbidienza di Gesu-Cristo, che morì per ubbidirvi, fate ch’io ubbidisca a’ vostri voleri sino alla morte. V’amo, o sommo bene, e per l’amore che vi porto, voglio ubbidirvi in tutto. Datemi la santa perseveranza, datemi il vostro amore e niente più Vi domando.

Maria Madre mia, intercedete per me.

CONSIDERAZIONE VII – SENTIMENTI D’UN MORIBONDO TRASCURATO, CHE POCO HA PENSATO ALLA MORTE

«Dispone domui tuae, quia morieris, et non vives» (Isa. 38.1).

PUNTO I

Figuratevi di trovarvi presente ad un infermo, a cui non restano che poche ore di vita. Povero infermo, mirate come sta oppresso da’ dolori, dagli svenimenti, suffogazioni di petto, mancanza di respiro, sudor freddo, colla testa svanita a tal segno che poco sente, poco capisce e poco può parlare. Tra le sue miserie la maggiore è quella ch’egli già sta vicino a morire,1 ed in vece di pensare all’anima e ad apparecchiar i conti per l’eternità, non pensa che a’ medici, a’ rimedi, per liberarsi dall’infermità e da’ dolori che lo vanno uccidendo. «Nihil aliud quam de se cogitare sufficiunt», dice S. Lorenzo Giustiniani,2 parlando di tali moribondi. Almeno i parenti, gli amici l’avvertissero dello stato pericoloso in cui si trova; no, non v’ha fra tutt’i suoi parenti ed amici chi abbia l’animo di dargli la nuova della morte e di avvisargli che prenda i Sagramenti; ognuno ricusa di dircelo per non dargli disgusto.

(O mio Dio, da ora io vi ringrazio che in morte mi farete assistere da’ miei cari Fratelli della mia Congregazione,3 i quali non avranno altro interesse allora che della mia eterna salute, e tutti mi aiuteranno a ben morire).

Ma frattanto, benché non si dà l’avviso della morte, nulladimeno l’infermo vedendo la famiglia in rivolta, i collegi de’ medici che si replicano, i rimedi moltiplicati, spessi e violenti4 che si adoprano; il povero moribondo sta in confusione e spavento tra gli assalti de’ timori, de’ rimorsi e delle diffidenze, dicendo tra sé: Oimé chi sa, se già è arrivata la fine degli anni miei? Or quale sarà poi il sentimento dell’infermo, quando già riceve la nuova della sua morte? «Dispone domui tuae,

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    quia morieris, et non vives».5 Che pena avrà in sentirsi dire: Signor tale, la vostra infermità è mortale, bisogna che prendiate i Sagramenti, vi uniate con Dio e vi andiate licenziando dal mondo. Licenziando dal mondo? Come? si ha da licenziar da tutto? da quella casa, da quella villa, da quei parenti, amici, conversazioni, giuochi, spassi? Sì, da tutto. Già è venuto il notaio e scrive questa licenziata: «Lascio, lascio». E con sé che si porta? non altro che un misero straccio, che tra poco dovrà infracidarsi insieme con lui dentro la fossa.

Oh che malinconia e turbamento apporterà al moribondo allora il veder6 le lagrime de’ domestici e ‘l silenzio degli amici, che in sua presenza tacciono e non hanno animo di parlare! Ma le maggiori pene saran per lui i rimorsi della coscienza, che in quella tempesta si faran più sentire, per la vita disordinata fatta sino ad allora, dopo tante chiamate e lumi divini, dopo tanti avvisi de’ padri spirituali, e dopo tante risoluzioni fatte, ma o non eseguite mai, o appresso trascurate. Dirà egli allora: Oh povero me, ho avuto tanti lumi da Dio, tanto tempo da aggiustare la mia coscienza, e non l’ho fatto; ed ecco che ora già sono arrivato alla morte! Che mi costava il fuggir quell’occasione, lo staccarmi da quell’amicizia, il confessarmi ogni settimana? E benché avesse avuta a costarmi assai, io dovea far tutto per salvarmi l’anima, che importava tutto. Oh se avessi posta in esecuzione quella buona risoluzione da me fatta; se avessi seguitato, come allora cominciai, ora quanto me ne troverei7 contento? ma non l’ho fatto, ed ora non v’è più tempo di farlo. I sentimenti di tali moribondi, che sono stati in vita trascurati di coscienza, son simili a quelli de’ dannati, che nell’inferno anche si dolgono de’ loro peccati, come causa della loro pena,8 ma senza frutto e senza rimedio.

Affetti e preghiere
Signore, se in questo punto mi fosse portata la nuova della mia prossima morte, ecco i sentimenti di dolore, che mi toccherebbero. Vi ringrazio che mi date questa luce, e mi date tempo da ravvedermi. No, mio Dio, non voglio fuggire più da Voi. Basta quanto mi siete

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    venuto appresso. Giustamente debbo ora temere che se ora a Voi non mi rendo e resisto, Voi mi abbandoniate.

Voi mi avete dato il cuore per amarvi, ed io l’ho così male impiegato; ho amate le creature, e non ho amato Voi, mio Creatore e Redentore, che avete data la vita per me! In vece d’amarvi, quante volte vi ho offeso, vi ho disprezzato, vi ho voltate le spalle! Sapeva io già che con quel peccato io vi dava un gran disgusto, e pure l’ho fatto. Gesù mio, me ne pento, me ne dispiace con tutto il cuore; io voglio mutar vita. Io rinunzio a tutt’i gusti del mondo, per amare e dar gusto a Voi, Dio dell’anima mia. Voi mi avete dimostrato gran segni del vostro amore, vorrei anche io9 prima di morire dimostrarvi qualche segno dell’amor mio.

Da ora accetto tutte l’infermità, le croci, i disprezzi e i disgusti, che avrò dagli uomini; datemi forza di soffrirli con pace, ch’io voglio sopportarli tutti per amor vostro. V’amo bontà infinita, v’amo sopra ogni bene. Datemi Voi più amore, e datemi la santa perseveranza.

Maria speranza mia, pregate Gesù per me.

PUNTO II

Oh come in punto di morte si fan conoscere le verità della fede, ma per maggior tormento di quel moribondo, ch’è vivuto male; e specialmente s’era persona consagrata a Dio, sì che abbia ella avuto più comodo di servirlo, più tempo, più esempi e più1 ispirazioni. Oh Dio che pena avrà in pensare e dire: Io ho ammoniti gli altri, e poi ho fatto peggio di loro! Ho lasciato il mondo, e poi son vivuto attaccato ai diletti, alle vanità ed agli amori del mondo! Qual rimorso le sarà il pensare che coi lumi, ch’ella ha ricevuti da Dio, si sarebbe fatto santo anche un pagano! Qual pena avrà in ricordarsi di aver disprezzate in altri le pratiche di pietà, come debolezze di spirito, e di aver lodato2 certe massime di mondo, di stima propria, o d’amor proprio, cioè di non farsi mettere il piede avanti, di non farsi patire, e di prendersi tutti gli spassi che si presentano!

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    «Desiderium peccatorum peribit” (Ps. 111. 10). In morte quanto sarà desiderato quel tempo, che ora si perde! Narra S. Gregorio3 ne’ suoi Dialoghi che vi fu un certo Crisanzio, uomo ricco, ma di mali costumi, il quale4 ridotto in morte gridava contro i demonii, che visibilmente gli apparvero per prenderselo: «Datemi tempo, datemi tempo sino a domani». E quelli rispondevano: O pazzo, ora cerchi tempo? tu ne hai avuto tanto e l’hai perduto, e l’hai speso a peccare; ed ora cerchi tempo? Ora non ci è più tempo. Il misero seguiva a gridare ed a cercare aiuto. Si ritrovava ivi un suo figlio monaco, chiamato Massimo, e ‘l moribondo al figlio diceva: «Figlio mio, aiutami; Massimo5 mio, aiutami». E frattanto colla faccia fatta di fuoco si sbalzava furiosamente dall’una e dall’altra parte del letto, e così agitandosi e gridando da disperato spirò infelicemente l’anima.

Oimé che questi pazzi amano in vita la loro pazzia, ma in morte poi aprono gli occhi e confessano di essere6 stati pazzi, ma allora ciò non serve che ad accrescere la diffidenza di rimediare al mal fatto; e morendo così, lasciano molta incertezza della loro salute.

Fratello mio, or che leggete questo punto, penso che voi anche dite: Così è. Ma se così è, sarebbe assai più grande la vostra pazzia e disgrazia, se conoscendo già queste verità in vita, non vi rimediaste a tempo. Questo stesso, che avete letto, sarebbe una spada di dolore per voi in morte.

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    Via su dunque, giacché siete a tempo di evitare una morte così spaventosa, rimediate presto; non aspettate quel tempo, che non sarà più tempo opportuno a rimediare. Non aspettate né l’altro mese, né l’altra settimana. Chi sa, se questa luce, che ora Dio vi dà per sua misericordia, sia l’ultima luce e l’ultima chiamata per voi. È sciocchezza il non voler pensare alla morte, la quale è certa, e da cui dipende l’eternità; ma è maggiore sciocchezza il pensarvi e non apparecchiarsi alla morte. Fate ora quelle riflessioni e risoluzioni che fareste allora: ora con frutto, allora senza frutto: ora con confidenza di salvarvi, allora con gran diffidenza della vostra salute. Licenziandosi un gentiluomo7 dalla corte8 di Carlo V per vivere solamente a Dio, gli domandò l’imperatore perché lasciava la corte? Rispose: È necessario per salvarsi che tra la vita disordinata e la morte v’interceda qualche spazio di penitenza.

Affetti e preghiere
No, mio Dio, non voglio abusarmi più della vostra misericordia. Vi ringrazio della luce che ora mi date, e vi prometto di mutar vita. Vedo già che Voi non mi potete sopportare più. E che voglio aspettare che Voi proprio mi mandiate all’inferno? o mi abbandoniate ad una vita perduta, che mi sarebbe maggior castigo che la stessa morte? Ecco mi butto a’ piedi vostri, ricevetemi in vostra grazia. Io non lo merito; ma Voi avete detto: «Impietas impii non nocebit ei, in quacunque die conversus fuerit” (Ez. 33. 12).

  • 66 –
    Se dunque per lo passato, Gesù mio, ho offesa la vostra bontà infinita, ora me ne pento con tutto il cuore, e spero da Voi il perdono. Vi dirò con S. Anselmo:9 Deh non permettete che si perda l’anima mia per li suoi peccati, giacché Voi l’avete redenta col vostro sangue. Non guardate la mia ingratitudine, ma guardate l’amore che vi ha fatto morire per me. Se io ho perduta la vostra grazia, Voi non avete perduta la potenza di restituirmela. Abbiate dunque pietà di me, o caro mio Redentore. Perdonatemi e datemi la grazia d’amarvi; mentre da oggi avanti vi prometto di non volere amare altri che Voi. Voi tra tante creature possibili avete eletto me per amarvi, io eleggo Voi, sommo bene, per amarvi sopra ogni altro bene. Voi mi andate avanti colla vostra croce, io non voglio lasciare di seguitarvi con quella croce, che Voi mi darete a portare. Abbraccio quanto da Voi mi verrà di mortificazioni e di pene. Basta che non mi private10 della vostra grazia, e son contento.

Maria speranza mia, impetratemi da Dio la perseveranza e la grazia di amarlo; e niente più vi domando.

PUNTO III

Al moribondo che in vita è stato trascurato circa il bene dell’anima sua, tutte le cose che gli si presenteranno, gli saranno spine: spina la memoria degli spassi presi, de’ puntigli superati e delle pompe fatte: spine gli amici che verranno a visitarlo con ogni cosa che gli ricorderanno: spine i padri spirituali, che a vicenda gli assisteranno: spine i Sagramenti1 che dovrà prendere della confessione, della comunione ed estrema unzione: spina gli diventerà anche il Crocifisso, che gli sarà posto accanto, leggendo in quella immagine la mala corrispondenza usata all’amore di un Dio morto per salvarlo.

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    Oh pazzo che sono stato, dirà allora il povero infermo! Poteva farmi santo con tanti lumi e comodità che Dio m’ha date; potea fare una vita felice in grazia di Dio, ed ora che mi trovo in tanti2 anni che ho avuti, se non tormenti, diffidenze, timori, rimorsi di coscienza e conti da rendere a Dio? e difficilmente mi salverò. E quando ciò lo dirà? quando già sta per finire l’olio alla lampa,3 e chiudersi per lui la scena di questo mondo, ed egli si trova già a vista delle due eternità, felice ed infelice; e già s’accosta a quell’ultima aperta di bocca, da cui dipende l’esser beato o disperato per sempre, mentre Dio sarà Dio. Quanto egli pagherebbe allora per avere un altro anno o mese o almeno un’altra settimana di tempo, colla testa sana; perché stando allora con quello stordimento di capo,4 affanno di petto e mancanza di respiro, non può far niente, non può riflettere, non può attuar la mente a far un atto buono: si ritrova come chiuso in una fossa oscura di confusione, dove non concepisce altro che una gran rovina che gli sovrasta, a cui si vede inabile di rimediare. Onde vorrebbe tempo, ma gli sarà detto: «Proficiscere»; presto, aggiusta i conti fra questo breve spazio, come meglio puoi, e parti; non lo sai che la morte non aspetta, né porta rispetto ad alcuno?

Oh che spavento gli sarà allora il pensare e dire: Stamattina5 son vivo, stasera facilmente sarò morto! oggi sto in questa camera, domani starò in una fossa! e l’anima mia dove starà? Che spavento, quando vedrà apparecchiarsi la candela! quando vedrà comparire il sudor freddo della morte! quando udirà ordinarsi a’ parenti che si partano dalla stanza e non v’entrino più! quando comincerà6 a perder la vista, oscurandosi gli occhi! Che spavento finalmente, quando già s’allumerà la candela, perché la morte è già vicina! O candela, candela, quante verità che allora scoprirai! o come farai allora vedere le cose differenti da quelle che ora compariscono! come farai conoscere che tutt’i beni di questo mondo son vanità, pazzie ed inganni! Ma che servirà intendere queste verità, quand’è finito il tempo di potervi rimediare?

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    Affetti e preghiere
    Ah mio Dio, Voi non volete la mia morte, ma desiderate ch’io mi converta e viva. Vi ringrazio che mi avete aspettato sino a questo tempo; e vi ringrazio della luce che ora mi date. Conosco l’error che ho fatto in posponere7 la vostra amicizia a’ beni così vili e miserabili, per cui v’ho disprezzato. Me ne pento e addoloro con tutt’il cuore, per avervi fatto un torto così grande. Deh non lasciate in questa vita che mi resta, di assistermi colla vostra luce e grazia a conoscere ed operare quel che debbo fare per emendare la mia vita. Che mi servirà il conoscere queste verità, quando mi sarà tolto il tempo di potervi rimediare? «Ne tradas bestiis animas confitentes tibi».8
    Quando il demonio mi tenterà ad offendervi di nuovo, deh vi prego, Gesù mio, per li meriti della vostra passione a stender la mano, e liberatemi dal cader9 in peccato e restar di nuovo fatto schiavo de’ nemici. Fate ch’io allora sempre ricorra a Voi, e non lasci di raccomandarmi, sintanto che dura la tentazione. Il sangue vostro è la speranza mia; e la bontà vostra è l’amore mio. V’amo, mio Dio degno d’infinito amore, fate ch’io sempre v’ami. Fatemi conoscere da quali cose io debbo staccarmi per esser tutto vostro, ch’io voglio farlo; ma Voi datemi la forza d’eseguirlo.

O Regina del cielo, o Madre di Dio, pregate per me peccatore; fate che nelle tentazioni non lasci mai di ricorrere a Gesù ed a Voi, che liberate colla vostra intercessione dal cadere ognuno che a Voi ricorre.

CONSIDERAZIONE VIII – MORTE DE’ GIUSTI

«Pretiosa in conspectu Domini mors sanctorum eius» (Ps. 115. 15).

PUNTO I

La morte mirata secondo il senso spaventa, e si fa temere; ma secondo la fede consola, e si fa desiderare. Ella comparisce terribile a’ peccatori, ma si dimostra amabile e preziosa a’ Santi: «Pretiosa, dice S. Bernardo,1 tanquam finis laborum, victoriae consummatio, vitae ianua» (Trans. Malach.). «Finis laborum», sì, la morte è termine delle fatiche e de’ travagli. «Homo natus de muliere, brevi vivens tempore, repletur multis miseriis» (Iob. 14. 1). Ecco qual’è la nostra vita, è breve ed è tutta piena di miserie, d’infermità, di timori e di passioni. I mondani che desiderano lunga vita, che altro cercano (dice Seneca2 ) che un più lungo tormento? «Tanquam vita petitur supplicii mora» (Ep. 101).

Che cosa è il seguitare a vivere, se non il seguitare a patire? dice S. Agostino:3 «Quid est diu vivere, nisi diu torqueri?» (Serm. 17. de Verbo Dom.). Sì, perché (secondo ci avverte S. Ambrogio4 ) la vita presente non ci è data per riposare, ma per faticare e colle fatiche meritarci la vita eterna: «Haec vita homini non ad quietem data est, sed ad laborem» (Ser. 43). Onde ben dice Tertulliano5 che quando Dio ad alcuno gli abbrevia la vita, gli abbrevia il tormento: «Longum Deus adimit tormentum, cum vitam concedit brevem». Quindi è che sebbene la morte è data all’uomo in pena del peccato, non però son tante

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    le miserie di questa vita, che la morte (come dice S. Ambrogio6 ) par che siaci data per sollievo, non per castigo: «Ut mors remedium videatur esse, non poena». Dio chiama beati quei che muoiono nella sua grazia, perché finiscono le fatiche e vanno al riposo. «Beati mortui qui in Domino moriuntur… Amodo iam dicit Spiritus, ut requiescant a laboribus suis» (Apoc. 14. 13).

I tormenti che in morte affliggono i peccatori, non affliggono i Santi. «Iustorum animae in manu Dei sunt, non tanget illos tormentum mortis» (Sap. 3. 1). I Santi, questi non già si accorano con quel «Proficiscere», che tanto spaventa i mondani. I Santi non si affliggono in dover lasciare i beni di questa terra, poiché ne han tenuto staccato il cuore. «Deus cordis mei»7 (sempre essi così sono andati dicendo), «et pars mea, Deus, in aeternum». Beati voi, scrisse l’Apostolo a’ suoi discepoli, ch’erano stati per Gesu-Cristo spogliati de’ loro beni: «Rapinam bonorum vestrorum cum gaudio suscepistis, cognoscentes vos meliorem et manentem substantiam» (Hebr. cap. 10).8 Non si affliggono in lasciare gli onori, poiché più presto gli hanno9 abbominati e tenuti (quali sono) per fumo e vanità; solo hanno stimato l’onore di amare e d’essere amati da Dio. Non si affliggono in lasciare i parenti, perché costoro solo in Dio l’hanno10 amati; morendo gli lasciano raccomandati a quel Padre Celeste, che l’ama11 più di loro; e sperando di salvarsi, pensano che meglio dal paradiso, che da questa terra potranno aiutargli.12 In somma quel che sempre han detto in vita: «Deus meus, et omnia»,13 con maggior consolazione e tenerezza lo van replicando in morte.

Chi muore poi14 amando Dio, non s’inquieta già per li dolori che porta seco la morte; ma più presto si compiace di loro, pensando che

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    già finisce la vita, e non gli resta più tempo di patire per Dio e di offerirgli altri segni del suo amore, onde con affetto e pace gli offerisce quelle ultime reliquie della sua vita; e si consola in unire il sacrificio della sua morte col sacrificio,15 che Gesu-Cristo offerì per lui un giorno sulla croce all’Eterno suo Padre. E così felicemente muore dicendo: «In pace in idipsum dormiam, et requiescam».16 Oh che pace è il morire abbandonato, e riposando nelle braccia di Gesu-Cristo, che ci ha amati sino alla morte, ed ha voluto far egli una morte amara, per ottenere a noi una morte dolce e consolata!

Affetti e preghiere
O amato mio Gesù, che per ottenere a me una morte soave, avete voluto fare una morte sì acerba sul Calvario, quando sarà ch’io vi vedrò? La prima volta che mi toccherà a vedervi, io vi vedrò da mio giudice in quello stesso luogo dove spirerò. Che vi dirò io allora? Che mi direte Voi? Io non voglio aspettare a pensarvi allora, voglio ora premeditarlo. Io vi dirò così:17 Caro mio Redentore, Voi dunque siete quegli,18 che siete morto per me? Io un tempo v’ho offeso e vi sono stato ingrato, e non meritava perdono; ma poi aiutato dalla vostra grazia mi sono ravveduto, e nel resto della vita mia ho pianti i miei peccati, e Voi mi avete perdonato;19 perdonatemi di nuovo, ora che sto a’ piedi vostri, e datemi Voi stesso un’assoluzione generale delle mie colpe. Io non meritava d’amarvi più, per aver disprezzato il vostro amore; ma Voi per vostra misericordia vi avete tirato il mio cuore, che se non v’ha amato secondo il vostro merito, almeno v’ha amato sopra ogni cosa, lasciando tutto per dar gusto a Voi. Ora che mi dite? Vedo che ‘l paradiso e ‘l possedervi nel vostro regno è un bene troppo grande per me; ma io non mi fido20 di viver lontano da Voi, maggiormente ora che m’avete fatta conoscere la vostra amabile e bella faccia. Vi cerco dunque il paradiso, non per più godere, ma per meglio amarvi. Mandatemi al purgatorio per quanto vi piace. No, neppure io21 voglio venire in quella patria di purità e vedermi tra quell’anime pure così sordido di macchie, come sono al presente. Mandatemi a purgarmi,

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    ma non mi discacciate per sempre dalla vostra faccia; basta che un giorno poi, quando vi piace, mi chiamate22 al paradiso a cantare in eterno le vostre misericordie. Per ora via su, amato mio giudice, alzate la mano e beneditemi; e ditemi ch’io son vostro, e che Voi siete e sarete sempre mio. Io sempre vi amerò, Voi sempre mi amerete.23 Ecco ora vado lontano da Voi, vado al fuoco; ma vado contento, perché vo ad amarvi, mio Redentore, mio Dio, mio tutto. Vo contento sì, ma sappiate che in questo tempo, in cui starò lungi da Voi, sappiate che questa sarà la maggiore delle mie pene, lo star da Voi lontano. Vo, Signore, a contare i momenti della vostra chiamata. Abbiate pietà di un’anima,24 che v’ama con tutta se stessa, e sospira di vedervi per meglio amarvi.

Così spero, Gesù mio, di dirvi allora. Pertanto vi prego di darmi la grazia di vivere in modo, che possa dirvi allora quel che ora ho pensato. Datemi la santa perseveranza, datemi il vostro amore.

E soccorretemi Voi, o Madre di Dio, Maria, pregate Gesù per me.

PUNTO II

«Absterget Deus omnem lacrimam ab oculis eorum, et mors ultra non erit» (Apoc. 21. 4). Asciugherà dunque in morte il Signore dagli occhi de’ suoi servi le lagrime, che hanno sparse1 in questa vita, vivendo in pene, in timori, pericoli e combattimenti coll’inferno. Ciò sarà quel che più consolerà un’anima, che ha amato Dio, in udir la nuova della morte, il pensare che presto sarà liberata da tanti pericoli, che vi sono in questa vita di offender Dio, da tante angustie di coscienza e da tante tentazioni del demonio. La vita presente è una continua guerra coll’inferno, nella quale siamo in continuo rischio di perdere l’anima e Dio. Dice S. Ambrogio2 che in questa terra «inter laqueos ambulamus»: camminiamo sempre tra’ lacci de’ nemici, che c’insidiano la vita della grazia. Questo pericolo era quello, che facea dire a S. Pietro d’Alcantara,3

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    mentre stava morendo: Fratello, scostati (era quello un Religioso, che in aiutarlo lo toccava); scostati, perché ancora sto in vita, e sono in rischio di dannarmi. Questo pericolo ancora facea consolare S. Teresa,4 ogni volta che sentiva sonar5 l’orologio, rallegrandosi che fosse passata un’altr’ora di combattimento; poiché diceva: In ogni momento di vita io posso peccare, e perdere Dio. Ond’è che i Santi alla nuova della morte tutti si consolano, pensando che presto finiscono le battaglie e i pericoli, e stan vicini ad assicurarsi della felice sorte di non poter più perdere Dio.

Si narra nelle vite de’ Padri6 che un Padre vecchio, morendo nella Scizia, mentre gli altri piangevano, esso ridea; domandato, perché ridesse? rispose: E voi perché piangete, vedendo ch’io vado al riposo? «Ex labore ad requiem vado, et vos ploratis?» Parimente S. Caterina da Siena7 morendo disse: Consolatevi meco, che lascio questa terra di pene, e vado al luogo della pace. Se taluno abitasse (dice S. Cipriano8 )

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    in una casa, dove le mura son cadenti, e ‘l pavimento e i tetti tremano, sicché tutto minaccia ruina, quanto dovrebbe costui desiderare di poterne uscire? In questa vita tutto minaccia ruina all’anima, il mondo, l’inferno, le passioni, i sensi ribelli: tutti ci tirano al peccato ed alla morte eterna. «Quis me liberabit (esclamava l’Apostolo) de corpore mortis huius?» (Rom. 7. 24). Oh che allegrezza sentirà l’anima nel sentirsi dire: «Veni de Libano, sponsa mea, veni de cubilibus leonum» (Cant. 4. 8). Vieni, sposa, esci dal luogo de’ pianti, e da’ covili de’ leoni, che cercano di divorarti, e farti perdere la divina grazia. Onde S. Paolo, desiderando la morte, dicea che Gesu-Cristo era l’unica sua vita; e perciò stimava egli il suo morire il maggior guadagno che potesse fare, in acquistar colla morte quella vita, che non ha più fine: «Mihi vivere Christus est, et mori lucrum» (Philipp. 1. 21).

È un gran favore che Dio fa ad un’anima, quand’ella sta in grazia, il torla dalla terra, dove può mutarsi e perdere la di lui amicizia: «Raptus est, ne malitia mutaret intellectum eius» (Sap. 4. 11). Felice in questa vita è chi vive unito con Dio; ma siccome il navigante non può chiamarsi sicuro, se non quando è già arrivato al porto ed è uscito dalla tempesta: così non può chiamarsi appieno felice un’anima, se non quando esce di vita in grazia di Dio. «Lauda navigantis felicitatem, sed cum pervenit ad portum», dice S. Ambrogio.9 Or se ha allegrezza il navigante, allorché dopo tanti pericoli sta prossimo ad afferrare il porto; quando più si rallegrerà colui, che sta vicino ad assicurarsi della salute eterna?

In oltre, in questa vita non si può vivere senza colpe almeno leggiere. «Septies enim cadet iustus» (Prov. 24. 16). Chi esce di vita finisce di dar disgusto a Dio. «Quid est mors (dicea S. Ambrogio10 ) nisi sepultura vitiorum?» (De Bono mort. cap. 4). Ciò ancora è quel che fa molto desiderar la morte agli amanti di Dio. Con ciò tutto si consolava morendo il Ven. P. Vincenzo Caraffa,11 mentre diceva:12 Terminando la vita,

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    io termino d’offendere Dio. E ‘l nominato S. Ambrogio13 dicea: «Quid vitam istam desideramus, in qua quanto diutius quis fuerit, tanto maiore oneratur sarcina peccatorum?» Chi muore in grazia di Dio, si mette in istato di non potere, né saper più offenderlo. «Mortuus nescit peccare», dicea lo stesso Santo.14 Perciò il Signore loda più i morti, che qualunque uomo, che vive, ancorché santo: «Laudavi magis mortuos, quam viventes» (Eccl. 4. 2).Un certo uomo15 da bene16 ordinò che nella sua morte chi gliene avesse portato l’avviso, gli avesse detto: Consolati, perché giunto è il tempo che non offenderai più Dio.

Affetti e preghiere
«In manus tuas commendo spiritum meum; redemisti me, Domine Deus veritatis».17 Ah mio dolce Redentore, che sarebbe di me, se mi aveste fatto morire, quando io stava lontano da Voi? Starei già nell’inferno, dove non vi potrei più amare. Vi ringrazio di non avermi abbandonato e di avermi fatte tante grazie, per guadagnarvi il mio cuore. Mi pento di avervi offeso. V’amo sopra ogni cosa. Deh vi prego, fatemi sempre più conoscere il male che ho fatto in disprezzarvi, e l’amore che merita la vostra bontà infinita. V’amo, e desidero presto

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    di morire (se a Voi così piace) per liberarmi dal pericolo di tornare a perdere la vostra grazia, e per assicurarmi di amarvi in eterno. Deh per questi anni che mi restano di vita, amato mio Gesù, datemi forza di fare qualche cosa per Voi, prima che venga la morte. Datemi fortezza contro le tentazioni e le passioni, specialmente contro la passione che per lo passato più mi ha tirato a disgustarvi. Datemi pazienza nelle infermità e nell’ingiurie che riceverò dagli uomini. Io ora per amor vostro perdono ognuno18 che mi ha fatto qualche disprezzo, e vi prego a fargli quelle grazie che desidera. Datemi forza di esser più diligente ad evitare anche le colpe veniali, circa le quali conosco d’esser trascurato. Mio Salvatore, aiutatemi, io spero tutto ne’ meriti vostri; e tutto confido nella vostra intercessione, o Madre e speranza mia Maria.

PUNTO III

La morte non solo è fine de’ travagli, ma ancora è porta della vita. «Finis laborum, vitae ianua», come dice S. Bernardo.1 Necessariamente dee passare per questa porta, chi vuol entrare a veder Dio. «Ecce porta Domini, iusti intrabunt in eam» (Ps. 117. 20). S. Girolamo2 pregava la morte, e le diceva: «Aperi mihi, soror mea». Morte, sorella mia, se tu non mi apri3 la porta, io non posso andare a godere il mio Signore. S. Carlo Borromeo,4 vedendo un quadro in sua casa, dove stava dipinto uno scheletro di morto colla falce in mano; chiamò il pittore e gli ordinò che cancellasse quella falce e vi dipingesse una chiave d’oro, volendo con ciò sempre più accendersi al desiderio della morte, perché la morte è quella che ci ha d’aprire5 il paradiso a vedere Dio.

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    Dice S. Gio. Grisostomo6 se ‘l re avesse apparecchiata ad alcuno l’abitazione nella sua reggia, ma al presente lo tenesse ad abitare in una mandra, quanto dovrebbe colui desiderar di uscir dalla mandra, per passare alla reggia? In questa vita l’anima stando nel corpo, sta come in un carcere, per di là uscire ed andare alla reggia del cielo; perciò pregava Davide: «Educ de custodia animam meam» (Ps. 141. 8). E ‘l santo vecchio Simeone, quando ebbe tra le braccia Gesù Bambino, non seppe altra grazia cercargli che la morte, per esser liberato dal carcere della presente vita: «Nunc dimittis servum tuum, Domine».7 Dice S. Ambrogio:7a «Quasi necessitate teneretur, dimitti petit». La stessa grazia desiderò l’Apostolo, quando disse: «Cupio dissolvi, et esse cum Christo» (Philip. 1).8
    Quale allegrezza ebbe il coppiere di Faraone,9 quando intese da Giuseppe che tra breve doveva uscire dalla prigione e ritornare al suo posto! Ed un’anima che ama Dio, non si rallegrerà in sentire che tra breve dee essere scarcerata da questa terra, ed andare a godere Dio? «Dum sumus in corpore, peregrinamur a Domino» (2. Cor. 5. 6). Mentre siamo uniti col corpo, siamo lontani dalla vista di Dio, come in terra aliena, e fuori della nostra patria; e perciò dice S. Brunone10 che la nostra morte non dee chiamarsi morte ma vita: «Mors dicenda non est, sed vitae principium». Quindi la morte de’ Santi si nomina il lor natale; sì perché nella loro morte nascono a quella vita beata, che non avrà
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    più fine. «Non est iustis mors, sed translatio»,11 S. Attanagio.12 A’ giusti la morte non è altro, che un passaggio alla vita eterna. O morte amabile, dicea S. Agostino,13 e chi sarà colui che non ti desidera, giacché tu sei il termine de’ travagli, il fine della fatica e ‘l principio del riposo eterno? «O mors desiderabilis, malorum finis, laboris clausula, quietis principium!» Pertanto con ansia pregava il Santo:14 «Eia moriar, Domine, ut Te videam».

Ben dee temere la morte, dice S. Cipriano,15 il peccatore, che dalla sua morte temporale ha da passare alla morte eterna: «Mori timeat, qui ad secundam mortem de hac morte transibit». Ma non già chi stando in grazia di Dio, dalla morte spera di passare alla vita. Nella Vita di S. Giovanni Limosinario16 si narra che un cert’uomo ricco raccomandò al Santo l’unico figlio che aveva, e gli diè molte limosine, affinché gli ottenesse da Dio lunga vita; ma il figlio poco tempo dopo se ne morì. Lagnandosi poi il padre della morte del figlio, Dio gli mandò un Angelo che gli disse: Tu hai cercata lunga vita al tuo figlio, sappi che questa eternamente egli già gode in cielo. Questa è la grazia, che ci ottenne Gesu-Cristo, come ci fu promesso per Osea: «Ero mors tua, o mors» (Os. 13. 41). Gesù morendo per noi fe’ che la nostra morte diventasse vita. S. Pionio Martire, mentr’era portato al patibolo, fu dimandato da coloro che lo conducevano, come potesse andare così allegro17 alla morte? Rispose il Santo: «Erratis, non ad mortem, sed ad vitam contendo» (Ap. Euseb. l.4. c. 14).18 Così ancora fu rincorato il giovinetto S. Sinforiano19

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    dalla sua madre, mentre stava prossimo al martirio: «Nate, tibi vita non eripitur, sed mutatur in melius».

Affetti e preghiere
Oh Dio dell’anima mia, io vi ho disonorato per lo passato, voltandovi le spalle; ma vi ha onorato il vostro Figlio, sagrificandovi la vita sulla croce; per l’onore dunque che vi ha dato il vostro diletto Figlio, perdonatemi il disonore che v’ho fatt’io. Mi pento, o sommo bene, d’avervi offeso, e vi prometto da oggi avanti di non amare altro che Voi. La mia salvezza da Voi la spero. Quanto al presente ho di bene, tutto è grazia vostra, tutto da Voi lo riconosco. «Gratia Dei sum id quod sum».20 Se per lo passato v’ho disonorato, spero d’onorarvi in eterno con benedire la vostra misericordia. Io mi sento un gran desiderio di amarvi; questo Voi me lo date, ve ne ringrazio, amor mio. Seguite, seguite ad aiutarmi, come avete cominciato, ch’io spero da ogg’innanzi d’esser vostro e tutto vostro. Rinunzio a tutt’i piaceri del mondo. E che maggior piacere posso aver io, che dar gusto a Voi, mio Signore così amabile, e che mi avete tanto amato? Amore solamente vi cerco, o mio Dio, amore, amore; e spero di cercarvi sempre amore, amore; finché21 morendo nel vostro amore, io giunga al regno dell’amore, dove senza più domandarlo sarò pieno d’amore, senza mai cessare un momento di amarvi ivi in eterno, e con tutte le mie forze.

Maria Madre mia, Voi che tanto amate il vostro Dio, e tanto desiderate di vederlo amato, fate che io22 l’ami assai in questa vita, acciocché io l’ami assai nell’altra per sempre.

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CONSIDERAZIONE IX – PACE D’UN GIUSTO CHE MUORE

«Iustorum animae in manu Dei sunt, non tanget illos tormentum malitiae; visi sunt oculis insipientium mori; illi autem sunt in pace» (Sap. 3. 3).1
PUNTO I

«Iustorum animae in manu Dei sunt».2 Se Dio tiene strette nelle sue mani l’anime de’ giusti, chi mai potrà strapparle dalle sue mani? È vero che l’inferno non lascia di tentare e d’insultare anche i Santi nella loro morte, ma Dio non lascia di assisterli e di accrescere gli aiuti a’ servi suoi fedeli, dove cresce il loro pericolo: «Ibi plus auxilii, ubi plus periculi; quia Deus adiutor est in opportunitatibus»,3 dice S. Ambrogio (ad Ios. c. 5).4 Quando il servo d’Eliseo vide la città circondata da’ nemici, restò atterrito; ma il Santo gli fece animo dicendo: «Noli timere, plures enim nobiscum sunt, quam cum illis» (4. Reg. 6. 16). E poi gli fe’ vedere un esercito d’Angeli mandati da Dio in difesa. Verrà sì bene il demonio a tentare, ma verrà anche l’Angelo Custode a confortare il moribondo: verranno i SS. Avvocati: verrà S. Michele, ch’è destinato da Dio a difendere i servi fedeli nell’ultimo contrasto coll’inferno; verrà la divina Madre a discacciare i nemici, con ponere5 il suo divoto sotto il suo manto: verrà sopra tutti Gesu-Cristo a custodire dalle tentazioni quella sua pecorella innocente, o penitente, per cui salvare ha data la vita: Egli le darà la confidenza e la forza, che in tal combattimento le bisognano, ond’ella tutta coraggio dirà: «Dominus factus est adiutor meus» (Ps. 29. 11). «Dominus illuminatio mea, et salus mea, quem timebo? «(Psal. 26. 1). Preme più a Dio, dice Origene,6 la nostra salvezza, che non preme al demonio la nostra perdizione;

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    perché assai più ci ama Dio, che non ci odia il demonio: «Maior illi cura est, ut nos ad salutem pertrahat, quam diabolo, ut nos ad damnationem impellat» (Hom. 20. in lib. Num.).

Dio è fedele, dice l’Apostolo, non permette che noi siamo tentati oltre le nostre forze: «Fidelis Deus non patietur vos tentari supra id quod potestis» (1. Cor 10. 13). Ma direte: Molti Santi son morti con gran timore della loro salute. Rispondo: pochi sono gli esempi, che si leggono di questi tali, che han menata buona vita e poi son morti con questo timore. Dice il Belluacense7 che il Signore ciò lo permette in alcuni, per purgarli in morte di qualche loro difetto: «Iusti quandoque dure moriendo purgantur in hoc mundo» Del resto di quasi tutt’i Servi di Dio leggesi che son morti col riso in bocca. A tutti dà timore in morte il divino giudizio, ma dove i peccatori dal timore passano alla disperazione, i Santi dal timore passano alla confidenza. Temea S. Bernardo stando infermo,8 come narra S. Antonino,9 ed era tentato di diffidenza; ma pensando a i meriti di Gesu-Cristo, discacciava ogni timore dicendo: «Vulnera tua, merita mea». Temea S. Ilarione,10 ma lieto poi

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    disse: «Egredere, anima mea, quid times? Septuaginta prope annis servisti Christo, et mortem times?» E voleva dire: Anima mia, che temi, avendo servito ad un Dio, ch’è fedele, e non sa abbandonare chi gli è stato fedele in vita? Il P. Giuseppe Scamacca della Compagnia di Gesù,11 dimandato se moriva con confidenza, rispose: E che ho servito a Maometto, ch’io abbia ora a dubitare della bontà del mio Dio, che non mi voglia salvare?

Se mai in morte ci tormenterà il pensiero di aver offeso Dio in qualche tempo, sappiamo che il Signore si è protestato di scordarsi de’ peccati de’ penitenti: «Si impius egerit poenitentiam, omnium iniquitatum eius non recordabor» (Ezech. 18).12 Ma, dirà taluno, come possiamo star sicuri che Dio ci abbia perdonati? Ciò dimanda anche S. Basilio:13 «Quomodo certo persuasus esse quis potest, quod Deus ei peccata dimiserit?» E risponde: «Nimirum si dicat: iniquitatem odio habui, et abominatus sum» (In Reg. inter. 12). Chi odia il peccato, può star sicuro che Dio l’ha già perdonato. Il cuore dell’uomo non può star senz’amare: o ama le creature o ama Dio; se non ama le creature, dunque ama Dio.14 E ama Dio, chi osserva i precetti: «Qui habet praecepta mea, et servat ea, ille est qui diligit me» (Io. cap. 14).15 Chi muore dunque nell’osservanza de’ precetti, muore amando Dio; e chi ama Dio, non teme: «Caritas mittit foras timorem» (1. Io. 4. 18).16

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    Affetti e preghiere
    Ah Gesù mio, quando sarà quel giorno ch’io vi possa dire: Mio Dio, non vi posso perdere più? Quando sarà che vi vedrò da faccia a faccia, e starò sicuro d’amarvi con tutte le mie forze per tutta l’eternità? Ah mio sommo bene, unico amor mio, sino che vivo, sempre avrò da stare in pericolo di offendervi e di perdere la bella grazia vostra! Vi è stato un tempo infelice, nel quale io non v’amava e disprezzava il vostro amore, ora me ne pento con tutta l’anima, e spero che già mi abbiate perdonato; ed ora vi amo con tutto il mio cuore, e desidero di far quanto posso per amarvi e darvi gusto. Ma sto ancora nel pericolo di negarvi il mio amore e di ritornare a voltarvi le spalle. Ah Gesù mio, mia vita, mio tesoro, non lo permettete. Se mai avesse a succedermi questa somma disgrazia, fatemi in questo punto morire colla morte più dura che volete; io me ne contento, e ve ne prego. Padre Eterno, per amore di Gesu-Cristo non mi abbandonate a questa gran ruina. Castigatemi come volete; io lo merito e l’accetto; ma liberatemi dal castigo di vedermi privo della vostra grazia e del vostro amore. Gesù mio, raccomandatemi al vostro Padre.

Maria Madre mia, raccomandatemi al vostro Figlio, ottenetemi la perseveranza nella sua amicizia e la grazia d’amarlo, e che poi ne faccia di me quello che vuole.

PUNTO II

«Iustorum animae in manu Dei sunt, non tanget illos tormentum malitiae, visi sunt oculis insipientium mori… illi autem sunt in pace» (Sap. 3. 3).1 Sembra agli occhi degli stolti che i Servi di Dio muoiano afflitti e contro voglia, come muoiono i mondani; ma no, che Dio sa ben consolare i figli suoi nella loro morte; ed anche tra i dolori della morte fa loro sentire certe grandi dolcezze, come saggi del paradiso che tra poco vuol loro dare. Siccome quei che muoiono in peccato, cominciano sin da sopra quel letto a sentire certi saggi d’inferno, di rimorsi, di spaventi e di disperazione; così all’incontro i Santi cogli

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    atti d’amore che allora fanno più spesso verso Dio, col desiderio e colla speranza che tengono di presto goderlo, già prima di morire cominciano a sentire quella pace, che pienamente poi goderanno in cielo. La morte a’ Santi non è castigo, ma premio: «Cum dederit dilectis suis somnum, ecce hereditas Domini» (Psalm. 126. 2).2 La morte di chi ama Dio, non si chiama morte, ma sonno, sicché ben egli potrà dire: «In pace in idipsum dormiam, et requiescam» (Ps. 4. 9).

Il P. Suarez3 morì con tanta pace, che morendo giunse a dire: «Non putabam tam dulce esse mori»: non potea mai immaginarmi, che la morte mi dovesse riuscire4 così soave. Il Cardinal Baronio5 ammonito dal medico a non pensar tanto alla morte, rispose: e perché che forse io la temo? io non la temo, ma l’amo. Il Cardinal Ruffense, come narra il Santero,6 quando andò a morir per la fede, procurò di porsi le migliori vesti che avea, dicendo che andava alle nozze. Quando fu poi a vista del patibolo, buttò il suo bastoncello, e disse: «Ite, pedes, parum a paradiso distamus» via su piedi miei, presto camminate, poco ci è lontano il paradiso. E prima di morire intonò il «Te Deum», in ringraziamento a Dio, che lo facea morire martire per la santa fede; e così tutto allegro pose la testa sotto la mannaia. S. Francesco d’Assisi7 cantava

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    morendo, ed invitava gli altri al canto. Padre, gli disse Fra Elia, morendo bisogna piangere, non cantare. Ma io non posso (rispose il Santo) fare a meno di cantare, vedendo che tra breve ho d’andare a godere Dio. Una religiosa teresiana, morendo giovinetta, e stando l’altre monache a piangere d’intorno, loro disse: Oh Dio perché piangere? io vado a ritrovare Gesu-Cristo mio; rallegratevi meco, se m’amate (Dising. Parol. I. § VI).8
    Narra il P. Granata9 che un certo cacciatore trovò un Solitario lebbroso, che stava morendo, e cantava. Come, disse quegli, stando così puoi cantare? Rispose il romito: Fratello, tra me e Dio non si frappone
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    che il muro di questo mio corpo; ora io vedo caderlo a pezzi, e che si sfabbrica la carcere, e vado a vedere Dio; e perciò mi consolo, e canto. Questo desiderio di veder Dio facea dire a S. Ignazio Martire10 che se le fiere non fossero venute a torgli la vita, egli le avrebbe irritate a divorarlo: «Ego vim faciam, ut devorer». S. Caterina da Genova11 non potea soffrire che taluni tenessero12 la morte per disgrazia, e diceva: O morte amata, quanto sei malveduta! e perché non vieni a me, che giorno e notte ti chiamo? (Vita cap. 7). E S. Teresa13 desiderava tanto la morte che stimava sua morte il non morire; e con tal sentimento compose quella sua celebre canzone: «Muoio, perché non muoio». Tale riesce la morte a’ Santi.

Affetti e preghiere
Ah mio sommo bene, mio Dio, se per lo passato io non vi ho amato, ora tutto mi converto a Voi. Mi licenzio da tutte le creature, ed eleggo di amare solamente Voi, mio amabilissimo Signore. Ditemi che volete da me, ch’io voglio farlo. Basta quanto v’ho offeso. Questa vita che mi resta, tutta la voglio spendere in darvi gusto. Datemi Voi forza, affinché io compensi col mio amore l’ingratitudine che finora v’ho usata. Io meritava da tanti anni ardere nel fuoco dell’inferno, e Voi tanto mi siete venuto appresso, che già mi avete tirato a Voi; fate ora che io arda nel fuoco del vostro santo amore. V’amo, bontà infinita. Voi volete esser solo ad essere amato da me, e n’avete14 ragione, perché Voi mi avete più di tutti amato, e Voi solo meritate di essere amato; ed io Voi solo voglio amare; voglio far quanto posso per darvi gusto. Fatene di me quel che vi piace. Mi basta ch’io v’ami, e Voi mi amiate.

Maria Madre mia, aiutatemi Voi, pregate Gesù per me.

PUNTO III

E come mai può temere la morte chi spera dopo la morte d’esser coronato re del paradiso? «Non vereamur occidi» (dicea S. Cipriano),1 «quos constat quando occidimur coronari». Come può temere di morire chi sa che morendo in grazia, il suo corpo diventerà immortale? «Oportet mortale hoc induere immortalitatem» (1. Cor. 15. 53).Chi ama Dio e desidera di vederlo, stima pena la vita e gaudio la morte. «Patienter vivit, delectabiliter moritur», dice S. Agostino.2 E S. Tommaso da Villanova3 dice che la morte, se trova l’uomo dormendo, ella viene come ladro, lo spoglia, l’uccide4 e lo butta nel pozzo dell’inferno; ma se lo trova vigilante, ella come ambasciatore5 di Dio lo saluta e gli dice: Il Signore ti aspetta alle nozze, vieni ch’io ti condurrò al regno beato, che desideri: «Te Dominus ad nuptias vocat, veni, ducam te quo desideras».

Oh con quanta allegrezza sta aspettando la morte chi si ritrova in grazia di Dio, sperando di veder presto Gesu-Cristo, e di sentirsi dire: «Euge serve bone et fidelis, quia in pauca fuisti fidelis super multa te constituam» (Math. 25. 21).Oh come allora consoleranno le penitenze le orazioni, il distacco da’ beni terreni e tutto ciò che si è fatto per Dio! «Dicite iusto, quoniam bene, quoniam fructum adinventionum suarum comedet» (Is. 3. 10). Allora chi ha amato Dio, gusterà il frutto di tutte

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    le sue opere sante. Perciò il P. Ippolito Durazzo della Compagnia di Gesù,6 quando moriva un religioso suo amico con segni di salvezza, non piangeva, ma tutto si rallegrava. Ma quale assurdo sarebbe, dicea S. Gio. Grisostomo,7 credere un paradiso eterno e poi compatire chi ci va? «Fateri coelum, et eos, qui hinc eo commearunt, luctu prosequi?» (Io. Chrys. ad Viduam). Qual consolazione specialmente sarà allora ricordarsi degli ossequi fatti alla Madre di Dio, di quei rosari, di quelle visite, di quei digiuni nel sabato, di aver frequentata la di lei Congregazione! «Virgo fidelis», si chiama Maria; oh com’Ella è fedele in consolare in morte i suoi fedeli servi! Un certo divoto della S. Vergine disse morendo al P. Binetti:8 «Padre, non potete credere la consolazione, che apporta in morte il pensiero di aver servito alla Madonna! Oh padre mio, se sapeste qual contento io sento, per aver servito a questa Madre mia! io non so spiegarlo». Qual gaudio poi apporterà a chi ha amato Gesu-Cristo, e che spesso l’ha visitato nel SS. Sagramento, e spesso l’ha ricevuto nella santa Comunione, il vedersi entrare nella stanza il suo Signore col SS. Viatico, che viene ad accompagnarlo nel passaggio dell’altra vita!9 O felice chi potrà allora dirgli con S. Filippo Neri:10 «Ecco l’amor mio, ecco il mio amore; datemi il mio amore!»

Ma chi sa (dirà qualcuno) qual sorte mi toccherà? chi sa, se infine farò una mala morte? Ma a te, che parli così, io domando: Che cosa

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    mala rende11 la morte? solo il peccato; solo dunque il peccato dobbiam temere, non già la morte. «Liquet (dice S. Ambrogio)12 acerbitatem non mortis esse, sed culpae; non ad mortem metus referendus, sed ad vitam» (De Bono mort. cap. 8). Vuoi dunque non temere la morte? vivi bene. «Timenti Deum bene erit in extremis».13
    Il P. La-Colombier14 tenea per moralmente impossibile che faccia una mala morte, chi è stato fedele a Dio nella vita. E prima lo disse S. Agostino:15 «Non potest male mori, qui bene vixerit». Chi sta apparecchiato a morire, non teme qualunque morte, benché improvvisa. «Iustus quacunque morte praeoccupatus fuerit, in refrigerio erit» (Sap. 7. 7). E giacché non possiamo andare a godere Dio, se non per mezzo della morte, ci esorta S. Gio. Grisostomo:16 «Offeramus Deo, quod tenemur reddere». Ed intendiamo che chi offerisce a Dio la sua morte, fa un atto d’amore il più perfetto che può fare verso Dio; poiché abbracciando di buona voglia quella morte che piace a Dio, ed in quel tempo e modo che vuole Dio, egli si rende simile a’ santi Martiri. Chi ama Dio, bisogna che desideri e sospiri la morte; perché la morte ci unisce eternamente con Dio, e ci libera dal pericolo di perderlo. È segno di poco amore a Dio il non aver desiderio di andar presto a vederlo, con assicurarsi di non poterlo più perdere. Frattanto in questa vita amiamolo quanto più possiamo. A questo solo dee servirci la vita, per crescere nell’amore; la
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    misura del nostro amore, con cui ci troverà la morte, sarà la misura dell’amar che faremo Dio nella beata eternità.

Affetti e preghiere
Ligatemi17 Gesù mio, con Voi, sì ch’io non possa dividermi più da Voi. Fatemi tutto vostro prima che io muoia, acciocché io vi miri placato, o mio Redentore, nella prima volta che vi vedrò. Voi mi avete cercato, quando io vi fuggiva, deh non mi discacciate ora ch’io vi cerco. Perdonatemi quanti disgusti v’ho dati. Da ogg’innanzi non voglio pensare che a servirvi ed amarvi. Voi troppo mi avete obbligato: non avete ricusato di dare il sangue e la vita per amor mio. Vorrei pertanto tutto consumarmi per Voi, o Gesù mio, che vi siete tutto consumato per me. O Dio dell’anima mia, io voglio amarvi assai in questa vita, per amarvi assai nell’altra. Eterno Padre, deh Voi tiratevi tutto il mio cuore, distaccatelo dagli affetti terreni, e feritelo,18 infiammatelo tutto del vostro santo amore. Esauditemi per li meriti di Gesu-Cristo. Datemi la santa perseveranza, e datemi la grazia, ch’io sempre ve la domandi.

Maria Madre mia, aiutatemi ed ottenetemi questa grazia di cercare19 sempre al vostro Figlio la santa perseveranza.

CONSIDERAZIONE X – MEZZI PER APPARECCHIARSI ALLA MORTE

«Memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis» (Eccli. 7. 40).

PUNTO I

Tutti confessano che si ha da morire, e morire una sola volta; e che non vi è cosa di maggiore1 conseguenza di questa, poiché dal punto della morte dipende l’esser beato, o disperato per sempre. Tutti sanno poi che dal viver bene o male dipende il fare una buona o mala morte. E poi come va che dalla maggior parte de’ cristiani si vive, come non si avesse mai a morire, o come poco importasse il morir bene o male? Si vive male, perché non si pensa alla morte: «Memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis».2 Bisogna persuaderci che ‘l tempo della morte non è proprio per aggiustare i conti, affin di assicurare il gran negozio dell’eterna salute. I prudenti del mondo negli affari di terra prendono a tempo opportuno tutte le misure per ottenere quel guadagno, quel posto, quel matrimonio; per la sanità del corpo non differiscono punto i rimedi necessari. Che diresti di taluno, che dovesse andare a qualche duello o concorso di cattedra, se volesse attendere ad istruirsi, quando è già arrivato il tempo? Non sarebbe pazzo quel capitano, che in tempo dell’assedio si riserbasse a far la provvisione de’ viveri e dell’armi? Non pazzo quel nocchiero, che trascurasse a provvedersi d’ancore e di gomene sino al tempo della tempesta? Tale appunto è quel cristiano, che si riduce ad aggiustar la coscienza, quando è arrivata la morte. «Cum interitus quasi tempestas ingruerit… tunc invocabunt me, et non exaudiam; comedent fructus vitae suae» (Prov. 1. 27).3 Il tempo della morte è tempo di tempesta, di confusione; allora i peccatori chiamano Dio in aiuto, ma per solo timore dell’inferno, a cui si vedon vicini, senza vera conversione, e perciò Dio non gli esaudisce.4 E perciò anche giustamente non assaggeranno allora, che i soli frutti della loro mala vita. «Quae seminaverit homo, haec et metet».5 Eh che non basta allora prendere i sagramenti; bisogna morire

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    odiando il peccato e amando Dio sopra ogni cosa; ma come odierà i piaceri illeciti, chi sino ad allora li avrà6 amati? come amerà Dio allora sopra ogni cosa, chi sino a quel punto avrà amate le creature più di Dio?

Il Signore chiama7 stolte quelle vergini8 (perché tali erano) che voleano apparecchiar le lampane,9 quando già veniva lo sposo. Tutti temono la morte subitanea, perché allora non vi è tempo di aggiustare i conti. Tutti confessano che i Santi sono stati i veri savi, perché si sono preparati alla morte, prima che giungesse la morte. E noi che facciamo? vogliamo aspettare ad apparecchiarci a morir bene, quando la morte sarà già vicina? Bisogna dunque fare al presente quel che vorremo10 aver fatto in morte. Oh che pena dà allora la memoria del tempo malamente speso! tempo dato da Dio per meritare, ma tempo ch’è passato e non11 torna più. Che affanno darà allora il sentirsi dire: «Iam non poteris amplius villicare».12 Non ci è più tempo di far penitenza, di frequentar sagramenti, di sentir prediche, di visitare Gesu-Cristo nelle chiese, di fare orazione; quel ch’è fatto, è fatto. Vi bisognerebbe allora una mente più sana, un tempo più quieto per far la confessione, come va fatta, per risolvere diversi punti di scrupoli gravi, e così quietar la coscienza; ma «tempus non erit amplius».13
Affetti e preghiere
Ah mio Dio, s’io moriva in quelle notti che sapete, dove al presente starei? Viringrazio di avermi aspettato, e vi ringrazio per tutti quelli momenti, in cui avrei avuto a star nell’inferno da quel primo momento, in cui vi offesi. Deh datemi luce, e fatemi conoscere il gran torto che vi ho fatto in perdere volontariamente la grazia vostra, che Voi mi avete meritata col sagrificarvi per me su d’una croce. Deh Gesù mio, perdonatemi, mentr’io14 mi pento con tutto il cuore sopra ogni male di avere disprezzato Voi, bontà infinita. Io spero che già mi abbiate perdonato. Deh aiutatemi, o mio Salvatore, acciocché io non vi perda più. Ah mio Signore, s’io tornassi ad offendervi dopo

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    tanti lumi e tante grazie da Voi ricevute, non meriterei un inferno a posta per me? Deh non lo permettete per li meriti di quel sangue, che avete sparso per amor mio. Datemi la santa perseveranza, datemi il vostro amore. V’amo, o sommo bene, e non voglio più lasciare d’amarvi sino alla morte. Dio mio, abbiate pietà di me per amore di Gesu-Cristo.

Abbiate ancora pietà di me, o speranza mia Maria; raccomandatemi a Dio; le vostre raccomandazioni non hanno ripulsa appresso quel Signore, che tanto v’ama.15
PUNTO II

Presto dunque, fratello mio, giacché è certo che avete da morire, mettetevi a’ piedi del Crocifisso, ringraziatelo del tempo, che vi dà per sua misericordia di poter aggiustare la vostra coscienza; e poi date una rivista a tutti gli sconcerti della vita passata, specialmente a quelli della gioventù. Date un’occhiata a i divini precetti, esaminate gl’impieghi1 esercitati, le conversazioni, che avete frequentate, e notatevi in iscritto le vostre mancanze, e fatevi una confession generale di tutta la vostra vita, se non l’avete fatta ancora. Oh quanto giova la confessione generale per mettere in buon sistema la vita d’un cristiano! Pensate che son conti per l’eternità, e perciò fateli come ora stessivo2 in punto di dovergli rendere a Gesu-Cristo giudice. Discacciate dal cuore ogni affetto malvagio, ogni rancore: toglietevi ora ogni scrupolo di roba d’altri, di fama tolta, di scandali dati, e risolvete di fuggir quelle occasioni, in cui potete perdere Dio. Pensate che quel che ora vi pare difficile, in punto di morte vi parerà impossibile.

Ciò che importa, risolvete di mettere in pratica i mezzi per conservarvi in grazia di Dio. I mezzi sono la Messa ogni giorno, la meditazione delle verità eterne, la frequenza della confessione e Comunione almeno ogn’otto giorni, la visita ogni giorno al SS. Sagramento e alla divina Madre, la congregazione, la lezione spirituale, l’esame di coscienza ogni sera, qualche divozione speciale a Maria SS. con fare3

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    il digiuno nel sabato; e sopra tutto proponete di spesso raccomandarvi a Dio ed alla B. Vergine con invocare spesso, e specialmente in tempo di tentazioni, i nomi sagrosanti4 di Gesù e di Maria. Questi sono i mezzi, che possono ottenervi una buona morte e la salute eterna.

Il far ciò sarà un gran segno per voi della vostra predestinazione. Ed in quanto poi al passato, confidate al sangue5 di Gesu-Cristo, il quale vi dona ora questi lumi, perché vi vuol salvo, e confidate all’intercessione6 di Maria che questi lumi v’impetra. Con tal registro di vita e confidenza in Gesù e Maria, oh come Dio aiuta, e che forza acquista l’anima! Presto dunque, lettor mio, datevi tutto a Dio che vi chiama; e cominciate a goder quella pace, di cui sinora per vostra colpa siete stato privo. E quale pace maggiore può sentire un’anima che ‘l poter dire in porsi a letto la sera: Se stanotte viene la morte, spero di morire in grazia di Dio! Quale consolazione è l’udire lo strepito de’ tuoni, vedere tremar la terra e star aspettando con rassegnazione la morte, se Dio così dispone!

Affetti e preghiere
Ah Signor mio, quanto vi ringrazio della luce, che mi date. Io v’ho lasciato tante volte, vi ho voltato7 le spalle; ma Voi non mi avete abbandonato; se mi aveste abbandonato, io sarei restato cieco, quale ho voluto essere per lo passato: sarei ostinato nel mio peccato, e non avrei né volontà di lasciarlo, né volontà d’amarvi. Ora mi sento un gran dolore di avervi offeso, un gran desiderio di stare in grazia vostra: sento un abborrimento a quei gusti maledetti, che mi hanno fatto perdere la vostra amicizia: tutte son grazie, che da Voi mi vengono, e mi fanno sperare che Voi volete perdonarmi e salvarmi. Giacché dunque Voi con tanti peccati miei non mi avete abbandonato e mi volete salvo; ecco Signore, io tutto a Voi mi dono, mi pento sopra ogni male d’avervi offeso, e propongo di perdere prima mille volte la vita, che la grazia vostra. V’amo, mio sommo bene: v’amo, Gesù mio morto per me: e spero al8 sangue vostro, che non permetterete ch’io abbia a separarmi più da voi. No, Gesù mio, non vi voglio perdere. Vi voglio amar sempre in vita, vi voglio amare in morte, vi voglio amare per

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    tutta l’eternità. Conservatemi Voi dunque sempre e accrescetemi l’amore verso di Voi; ve lo cerco9 per li vostri meriti.

Maria speranza mia, pregate Gesù per me.

PUNTO III

In oltre, bisogna procurare di ritrovarci in ogni ora quali desideriamo di ritrovarci in morte. «Beati mortui, qui in Domino moriuntur» (Apoc. 14).1 Dice S. Ambrogio2 che quelli muoiono bene, che al tempo della morte si trovano già morti al mondo, cioè distaccati da quei beni, da cui la morte allora a forza avrà da separarci. Sicché bisogna che da ora accettiamo lo spoglio delle robe, la separazione da’ parenti e da tutte le cose di questa terra. Se ciò non lo facciamo volontariamente in vita, l’avremo a fare necessariamente in morte, ma allora con estremo dolore e con pericolo della salute eterna. E con ciò avverte S. Agostino3 che giova molto per morir quieto l’aggiustare in vita gl’interessi temporali, facendo da ora la disposizione de’ beni che si han da lasciare, acciocché in morte la persona s’occupi solo a stringersi con Dio. Allora è bene discorrere solamente di Dio e del paradiso. Son troppo preziosi quegli ultimi momenti, per non dissiparli in pensieri di terra. In morte si compisce la corona degli eletti, poiché allora si fa forse la migliore raccolta di meriti in abbracciare quei dolori e quella morte con rassegnazione ed amore.

Ma non potrà avere questi buoni sentimenti in morte, chi non gli ha esercitati in vita. A tal fine alcuni divoti con molto loro profitto

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    praticano di rinnovare in ogni mese la Protesta della morte cogli atti cristiani, dopo essersi confessati e comunicati figurandosi di trovarsi già moribondi vicini ad uscire di vita. («Nel nostro libretto della Visita al SS. Sagramento, vi è questa Protesta4 cogli atti, che può leggersi in poco tempo, perché è breve»). Ciò che non si fa in vita, è molto difficile farlo in morte. La gran serva di Dio suor Catarina di S. Alberto Teresiana5 morendo sospirava e dicea: Sorelle, io non sospiro per timor della morte, perché da 25 anni la sto aspettando, sospiro in vedere tanti ingannati, che menano la vita in peccato e si riducono a far pace con Dio in morte, quand’io appena posso pronunziare Gesù.

Esaminate dunque, fratello mio, se ora tenete attaccato il cuore a qualche cosa di terra, a quella persona, a quell’onore, a quella casa, a quei danari, a quella conversazione, a quegli spassi; pensate che non siete eterno. L’avete da lasciare un giorno, e forse presto; e perché volete starvi attaccato,6 con porvi a rischio di fare una morte inquieta? Offerite da ora tutto a Dio, pronto a privarvene, quando a Lui piace. Se volete morir rassegnato, bisogna che da ora vi rassegniate in tutti gli accidenti contrari, che vi possono accadere, e vi spogliate degli affetti alle cose della terra. Mettetevi innanzi il punto della morte e disprezzerete tutto. «Facile contemnit omnia (dice S. Geronimo)7 qui semper se cogitat moriturum».8
Se non avete eletto ancora lo stato di vostra vita, eleggetevi quello stato che vorreste aver eletto, quando sarete in morte, e che vi farà fare una morte più contenta. Se poi già l’avete eletto, fate quel che vorreste aver fatto allora nel vostro stato. Fate come ogni giorno fosse l’ultimo di vostra vita, ed ogni azione l’ultima che fate, l’ultima orazione, l’ultima confessione, l’ultima comunione. Immaginatevi come in ogni ora vi trovaste moribondo, steso in un letto, e vi sentiste intimare quel «Proficiscere de hoc mundo». Questo pensiero oh quanto vi gioverà per ben camminare e distaccarvi dal mondo: «Beatus ille

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    servus, quem, cum venerit Dominus eius, inveniet sic facientem» (Matth. 24. 46). Chi aspetta la morte ad ogni ora, ancorché morisse all’improvviso, non lascerà9 di morir bene.

Affetti e preghiere
Ogni cristiano dee star preparato a dire in quel punto, in cui gli sarà data la nuova della morte, così: Dunque mio Dio, poche ore mi restano? voglio in queste amarvi quanto posso nella presente vita, per più amarvi nell’altra. Poco mi resta da offerirvi, vi offerisco questi dolori e ‘l sagrificio della mia vita, in unione del sagrificio che vi fece per me Gesu-Cristo sulla croce. Signore, le pene che patisco son poche e leggiere, a fronte di quelle ch’io ho meritate: quali sono io le abbraccio in segno dell’amor che vi porto. Mi rassegno a tutti i castighi, che volete darmi in questa e nell’altra vita, purché io10 v’abbia11 ad amare in eterno. Punitemi quanto vi piace, ma non mi private del vostro amore. Conosco che non meriterei più d’amarvi, per avere io tante volte disprezzato il vostro amore; ma Voi non sapete discacciare un’anima pentita. Mi pento, o sommo bene, d’avervi offeso. V’amo con tutto il cuore, e tutto in voi confido. La vostra morte, o mio Redentore, è la speranza mia. Nelle vostre mani impiagate raccomando l’anima mia. «In manus tuas commendo spiritum meum; redemisti me, Domine Deus veritatis».12 O Gesù mio, voi avete dato il sangue per salvarmi, non permettete ch’io m’abbia a separare da Voi. V’amo, o Dio eterno, e spero amarvi in eterno.

Maria Madre mia, aiutatemi in quel gran punto. Ora a voi consegno il mio spirito; dite al vostro Figlio che abbia pietà di me. A voi mi raccomando, liberatemi dell’inferno.

CONSIDERAZIONE XI – PREZZO DEL TEMPO

«Fili, conserva tempus» (Eccli. 4. 23).

PUNTO I

Figlio, dice lo Spirito Santo, sta attento a conservare il tempo ch’è la cosa più preziosa e ‘l dono più grande che può dare Dio ad un uomo che vive. Anche i gentili conoscevano quanto vale il tempo. Seneca1 diceva non esservi prezzo ch’uguagli2 il valore del tempo. «Nullum temporis pretium». Ma con miglior lume3 hanno conosciuto i Santi il valore del tempo. Disse S. Bernardino da Siena4 che tanto vale un momento di tempo, quanto vale Dio: perché in ogni momento può l’uomo con un atto di contrizione o d’amor acquistarsi la divina grazia e la gloria eterna: «Modico tempore potest homo lucrari gratiam, et gloriam. Tempus tantum valet, quantum Deus, quippe in tempore bene consumto comparatur Deus» (S. Bern. Serm. Fer. IV, post Dom. I.Quadr. c. 4).

Il tempo è un tesoro, che solamente in vita si trova; non si trova nell’altra, né nell’inferno, né in cielo. Nell’inferno questo è il pianto de’ dannati: «O si daretur hora!».5 Pagherebbero ad ogni costo un’ora di

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    tempo, in cui potessero rimediare alla loro ruina; ma quest’ora non l’avranno mai. Nel cielo poi non si piange, ma se potessero piangere i beati, questo sarebbe il loro solo pianto, l’aver perduto il tempo in questa vita, in cui poteano acquistarsi maggior gloria, e che questo tempo non possono più averlo. Una Religiosa Benedettina6 defunta comparve gloriosa ad una persona e le disse ch’ella stava appieno contenta; ma se avesse potuto mai desiderare qualche cosa, era solo di ritornare in vita e di patire per meritare più gloria; e disse che si sarebbe contentata di soffrire la sua dolorosa infermità, che avea patita in morte, sino al giorno del giudizio, per acquistare la gloria che corrisponde al merito d’una sola «Ave Maria».

E voi, fratello mio, a che spendete il tempo? perché quel che potete far oggi, sempre lo trasportate al domani? Pensate che il tempo passato già scorso non è più vostro; il futuro non istà in vostro potere: solo il tempo presente avete per far bene. «Quid de futuro miser praesumis (ne avverte S. Bernardo),7 tanquam Pater tempora in tua posuerit potestate?» (Serm. 38. de Part. etc.). E S. Agostino8 dice: «Diem tenes,

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    qui horam non tenes?» Come puoi prometterti il giorno di domani, se non sai se ti tocca neppure un’altra ora di vita? Dunque conclude S. Teresa9 e dice: Se oggi non istai pronto a morire, temi di morir male.

Affetti e preghiere
O mio Dio, vi ringrazio del tempo, che mi date da rimediare ai10 disordini della mia vita passata. Se in questo punto mi toccasse a morire, una delle mie maggiori pene sarebbe il pensare al tempo perduto. Ah mio Signore, voi mi avete dato il tempo per amarvi, ed io l’ho speso in offendervi! Io meritava che mi mandaste all’inferno sin11 dal primo momento, in cui vi voltai le spalle; ma voi mi chiamaste a penitenza e mi perdonaste. Io vi promettei di non offendervi più, ma quante volte poi io ho ritornato ad ingiuriarvi, e voi di nuovo mi avete perdonato! Sia benedetta in eterno la vostra misericordia. S’ella non era infinita, come potea così sopportarmi! Chi mai avrebbe potuto avere la pazienza con me, che mi avete usata Voi? Quanto mi dispiace di aver offeso un Dio così buono? Caro mio Salvatore, la sola pazienza che avete avuto con me, dovrebbe innamorarmi di Voi. Deh non permettete ch’io viva più ingrato all’amore che mi avete portato. Staccatemi da tutto, e tiratemi tutto al vostro amore. No, mio Dio, non voglio più dissipare quel tempo, che mi date per riparare il mal fatto; voglio spenderlo tutto in servirvi ed amarvi. Datemi forza, datemi la santa perseveranza. V’amo bontà infinita, e spero d’amarvi in eterno.

Vi ringrazio o Maria: Voi siete stata la mia Avvocata ad impetrarmi questo tempo di vita; assistetemi ora, e fate ch’io lo spenda tutto in amare il vostro Figlio mio Redentore, e Voi Regina e Madre mia.

PUNTO II

Non vi è cosa più preziosa del tempo, ma non vi è cosa meno stimata e più disprezzata dagli uomini del mondo. Questo è quel che piange S. Bernardo:1 «Nihil pretiosius tempore, sed nihil vilius aestimatur» (Serm. ad Schol.). E poi seguita a dire: «Transeunt dies salutis, et nemo recogitat sibi perire diem, et nunquam rediturum». Vedrai quel giuocatore stare i giorni e le notti a perdere il tempo ne’ giuochi; se gli dimandi, che fai? risponde: Passiamo il tempo. Vedrai quell’altro vagabondo trattenersi per ore intere2 in mezzo ad una strada a guardare chi passa, o a parlare osceno o di cose inutili; se gli dimandi, che fai? risponde: Ne fo passare il tempo. Poveri ciechi, che perdono tanti giorni, ma giorni che non tornano più!

O tempo disprezzato, tu sarai la cosa più desiderata da’ mondani nel tempo della morte! Desidereranno allora un altro anno, un altro mese, un altro giorno, ma non l’avranno; sentiranno allora dirsi: «Tempus non erit amplius».3 Ognun di costoro quanto pagherebbe allora un’altra settimana, un altro giorno di tempo, per meglio aggiustare i conti della coscienza? Anche per ottenere una sola ora di tempo, dice S. Lorenzo Giustiniani,4 costui darebbe tutt’i suoi beni: «Erogaret opes, honores, delicias pro una horula» (De Vita Sol. cap. 10). Ma quest’ora non gli sarà data: presto, gli dirà il Sacerdote assistente, presto partitevi da questa terra, non v’è5 più tempo: «Proficiscere, anima christiana, de hoc mundo».6
Pertanto ci esorta il profeta a ricordarci di Dio e a procurarci la sua grazia, prima che manchi la luce: «Memento creatoris tui, antequam tenebrescat sol, et lumen» (Eccl. 12. 1).7 Qual pena è ad un pellegrino,

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    che s’avvede di avere errata la via, quando è fatta già notte, e non v’è più tempo di rimediare? Questa sarà la pena in morte di chi è vivuto molti anni nel mondo, ma non gli ha spesi per Dio: «Venit nox, in qua nemo potest operari» (Io. 9. 4). Allora la morte sarà per lui tempo di notte, in cui non potrà fare più niente. «Vocavit adversum me tempus» (Thren. 1. 15). La coscienza allora gli ricorderà quanto tempo ha avuto, e l’ha speso in danno dell’anima; quante chiamate, quante grazie ha ricevute da Dio per farsi santo, e non ha voluto avvalersene, e poi si vedrà chiusa la via8 di fare alcun bene. Onde dirà piangendo: Oh pazzo che sono stato! Oh tempo perduto! Oh vita mia perduta! Oh anni perduti, in cui potea farmi santo; ma non l’ho fatto, ed ora non ci è più tempo di farlo. Ma a che serviranno questi lamenti e sospiri, allora che sta per9 finire la scena, la lampana10 sta vicina a smorzarsi, e ‘l moribondo sta prossimo a quel gran momento da cui dipende l’eternità?

Affetti e preghiere
Ah Gesù mio, Voi avete spesa tutta la vostra vita per salvare l’anima mia; non vi è stato momento del vostro vivere in cui non vi siete11 offerto per me all’Eterno Padre per ottenermi il perdono e la salute eterna; ed io sono stato tanti anni al mondo, e quanti sinora ne ho spesi per Voi? Ah che quanto mi ricordo d’aver fatto, tutto mi dà rimorso di coscienza. Il male è stato molto. Il bene è stato troppo poco, e tutto pieno d’imperfezioni, di tepidezze,12 d’amor proprio e di distrazioni. Ah mio Redentore, tutto è stato così, perché mi sono scordato di quanto Voi avete fatto per me. Io mi sono scordato di Voi, ma Voi non vi siete scordato di me; mi siete venuto appresso, mentr’io fuggiva da Voi, e tante volte mi avete chiamato al vostro amore. Eccomi Gesù mio, non voglio più resistere; e che voglio aspettare che proprio mi abbandoniate? Mi pento, o sommo bene, d’essermi separato da voi col peccato. V’amo, bontà infinita, degna d’infinito amore. Deh non permettete ch io perda più questo tempo, che Voi mi date per vostra misericordia. Deh ricordatemi sempre, amato mio Salvatore, l’amore che mi avete portato e le pene, che avete patite per me. Fatemi scordare di tutto, acciocché io13 non pensi in questa vita che mi resta, che solo ad

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    amarvi e darvi gusto. V’amo Gesù mio, mio amore, mio tutto. Vi prometto, sempre che me ne ricordo, di farvi atti d’amore. Datemi la santa perseveranza. Tutto confido ne’ meriti del vostro sangue.

E confido nella vostra intercessione, o cara Madre mia Maria.

PUNTO III

«Ambulate dum lucem habetis» (Io. 12. 35). Bisogna che camminiamo nella via del Signore in vita, or che abbiamo la luce; perché poi questa si perde in morte. Allora non è tempo di apparecchiarsi, ma di trovarsi apparecchiato. «Estote parati».1 In morte non si può far niente; allora quel ch’è fatto è fatto. Oh Dio, se taluno avesse la nuova che tra breve ha da trattarsi la causa della sua vita, o di tutto il suo avere, come s’affretterebbe per ottenere un buon avvocato, per far intesi i ministri delle sue ragioni, e per trovar mezzi da procurarsi il lor2 favore? E noi che facciamo? Sappiamo certo che tra breve (e può essere ad ogni ora) si ha da trattar la causa del maggior negozio che abbiamo, ch’è il negozio della salute eterna, e perdiamo tempo?

Dirà taluno: Ma io son giovane, appresso mi darò a Dio. Ma sappiate (rispondo) che il Signore maledisse quel fico, che trovò senza frutto, ancorché non fosse tempo di frutti, come nota il Vangelo: «Non enim erat tempus ficorum» (Marc. 11. 13). Con ciò volle Gesu-Cristo significarci che l’uomo in ogni tempo anche nella gioventù dee render frutto di buone opere, altrimenti sarà maledetto e non farà più frutto in avvenire. «Iam non amplius in aeternum ex te fructum quispiam3 manducet».4 Così disse il Redentore a quell’albero,5 e così maledice chi da lui è chiamato e resiste. Gran cosa!6 il demonio stima poco tempo tutto il tempo della nostra vita, e perciò non perde momento in tentarci: «Descendit diabolus ad vos habens iram magnam, sciens quod modicum tempus habet» (Apoc. 12. 12). Dunque il nemico non perde tempo per farci perdere, e noi perderemo il tempo, trattandosi di salvarci?7

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    Dirà quell’altro: «Ma io che male fo?» Oh Dio, e non è male perdere il tempo in giuochi, in conversazioni inutili, che niente giovano all’anima? Iddio forse a ciò vi dà questo tempo, affinché lo perdiate? No, dice lo Spirito Santo: «Non te praetereat particula boni diei» (Eccli.cap. 4).8 Quelli9 operari, di cui scrive S. Matteo, non faceano male, ma solamente perdevano il tempo: e di ciò furono ripresi dal padron della vigna: «Quid hic statis tota die otiosi?» (Matth. cap. 20).10 Nel giorno del giudizio Gesu-Cristo ci chiederà conto d’ogni parola oziosa. Ogni tempo, che non è speso per Dio, è tempo perduto. «Omne tempus, quo de Deo non cogitasti, cogita te perdidisse» (S. Bern. Coll. I.cap. 8).11 Quindi ci esorta il Signore: «Quodcunque facere potest manus tua, instanter operare, quia nec opus, nec ratio erunt apud inferos, quo tu properas» (Eccl. 9. 10). Dicea la Ven. M. suor Giovanna della SS. Trinità teresiana12 che nella vita de’ Santi non v’è il domani: il domani è nella vita de’ peccatori, che sempre dicono, appresso, appresso; e così si riducono alla morte. «Ecce nunc tempus acceptabile» (2. Cor. 6. 2). «Hodie si vocem eius audieritis, nolite obdurare corda vestra» (Ps. 94. 8). Oggi Dio ti chiama a far il bene, oggi fallo; perché domani può essere, o che non vi sia più tempo, o che Dio non ti chiami più.

E se per lo passato per tua disgrazia hai speso il tempo in offendere Dio, procura di piangerlo nella vita che ti resta, come propose di fare il re Ezechia: «Recogitabo tibi omnes annos meos in amaritudine animae meae» (Is.38. 15). Dio ti dà la vita, acciocché ora rimedi al tempo perduto. «Redimentes tempus, quoniam dies mali sunt» (Ephes. 5. 16). Commenta S. Anselmo:13 «Tempus redimes, si quae facere

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    neglexisti, facias».14 Di S. Paolo dice S. Geronimo15 ch’egli sebbene fu l’ultimo degli Apostoli, fu il primo ne’ meriti per quel che fece dopo che fu chiamato: «Paulus novissimus in ordine, prior in meritis, quia plus in omnibus laboravit». Se altro16 non fosse, pensiamo che in ogni momento possiamo fare maggiori acquisti de’ beni eterni. Se ti fosse concesso di acquistare tanto terreno, quanto potessi girar camminando per un giorno, o tanti danari, quanti potessi in un giorno numerare, qual fretta non ti daresti? E tu puoi acquistare in ogni momento tesori eterni, e vuoi perder tempo? Quel che puoi far oggi, non dire che puoi farlo domani, perché quest’oggi sarà perduto per te, e più non tornerà. S. Francesco Borgia,17 quando altri parlavano di mondo, volgevasi a Dio con santi affetti, sì che18 richiesto poi del suo sentimento, non sapeva19 rispondere; di ciò fu corretto: ma egli disse: «Malo rudis vocari, quam temporis iacturam pati». Mi contento più presto d’essere stimato rozzo d’ingegno, che perdere il tempo.

Affetti e preghiere
No, Dio mio, non voglio perdere più questo tempo, che Voi mi date per vostra misericordia. Io a quest’ora dovrei stare all’inferno a piangere senza frutto. Vi ringrazio d’avermi conservato in vita; voglio dunque ne’ giorni, che mi restano, vivere solamente a Voi. Se ora stessi nell’inferno, piangerei, ma disperato e senza frutto. Voglio piangere l’offese che vi ho fatte, e piangendo so certo che Voi mi perdonate, mentre me ne assicura il profeta: «Plorans nequaquam plorabis miserans miserabitur tui» (Is. 30. 19). Se stessi nell’inferno, non vi potrei più amare; ed ora io v’amo, e spero di sempre amarvi. Se stessi nell’inferno, non vi potrei cercare20 più grazie, ma ora sento che mi dite: «Petite,

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    et accipietis».21 Giacché dunque sto in tempo ancora di domandarvi grazie, due grazie vi domando, o Dio dell’anima mia, datemi la perseveranza nella vostra grazia, e datemi il vostro amore, e poi fatene di me quel che vi piace. Fate che in tutt’i momenti di vita che mi restano, sempre mi raccomandi a Voi, Gesù mio, con dire: Signore aiutatemi, Signore abbiate pietà di me, fate che non v’offenda più; fate ch’io v’ami.

Maria SS. Madre mia, ottenetemi la grazia di sempre raccomandarmi a Dio, e cercargli22 la perseveranza e ‘l suo santo amore.

CONSIDERAZIONE XII – IMPORTANZA DELLA SALUTE

«Rogamus autem fratres, ut negotium vestrum agatis» (Thess. 4. 10).

PUNTO I

Il negozio dell’eterna salute è certamente l’affare, che a noi importa più di tutti gli altri; ma questo è il più trascurato da’ cristiani. Non si lascia diligenza, né si perde tempo per arrivare a quel posto, per vincer quella lite, per concludere quel matrimonio; quanti consigli, quante misure si prendono; non si mangia, non si dorme! E poi per accertare la salute eterna, che si fa? come si vive? Non si fa niente, anzi si fa tutto per perderla; e si vive dalla maggior parte de’ cristiani, come la morte, il giudizio, l’inferno, il paradiso e l’eternità non fossero verità di fede, ma favole inventate da’ poeti. Se si perde una lite, una raccolta, che pena non si sente? e che studio non si mette per riparare il danno avuto? Se si perde un cavallo, un cane, che diligenza non si fa per ritrovarlo? Si perde la grazia di Dio, e si dorme, e si burla, e si ride. Gran cosa! Ognuno si vergogna d’esser chiamato negligente ne’ negozi del mondo; e poi tanti non si vergognano di trascurare il negozio dell’eternità, che importa tutto! Chiamano essi savi li santi,1 che hanno atteso solamente a salvarsi, e poi essi attendono a tutte l’altre cose del mondo e niente all’anima! Ma voi (dice S. Paolo),2 voi, fratelli miei, attendete solo al gran negozio che avete della vostra salute eterna, che questo è l’affare che a voi più importa. «Rogamus vos, ut vestrum negotium agatis». Persuadiamoci dunque che la salute eterna è per noi il negozio più «importante», il negozio «unico», ed è un negozio «irreparabile», se mai si sgarra.

È il negozio il più «importante». Sì, perch’è l’affare di maggior conseguenza, trattandosi dell’anima, che perdendosi è perduto tutto. L’anima dee stimarsi da noi la cosa più preziosa, che tutti i beni del mondo.«Anima est toto mundo pretiosior», dice S. Gio. Grisostomo.3

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    Per intendere ciò, basta sapere che lo stesso Dio ha dato il Figlio alla morte, per salvare l’anime nostre! «Sic Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret» (Io. 3. 16). E ‘l Verbo eterno non ha ricusato di comprarle col suo medesimo sangue. «Emti enim estis pretio magno» (1. Cor. 19. 10).4 Talmente che (dice un santo Padre)5 par che l’uomo vaglia, quanto vale Dio: «Tam pretioso munere humana redemtio agitur, ut homo Deum valere videtur». Quindi disse Gesu-Cristo: «Quam dabit homo commutationem pro anima sua?» (Matth. 16. 26). Se l’anima dunque6 tanto vale, per qual bene mai del mondo un uomo la cambierà perdendola?

Avea ragione S. Filippo Neri7 di chiamar pazzo chi non attende a salvarsi l’anima. Se mai nella terra vi fossero uomini mortali ed uomini immortali, ed i mortali vedessero gl’immortali tutti applicati alle cose del mondo, ad acquistare onori, beni e spassi di terra, direbbero certamente loro: Oh pazzi che siete! voi potete acquistarvi beni eterni e pensate a queste cose miserabili e passaggiere? e per queste vi condannate voi stessi a pene eterne nell’altra vita? Lasciate che a questi beni terreni ci pensiamo solamente noi sventurati, per cui nella morte finirà tutto per noi. Ma no, che siamo tutti immortali; e come va poi, che tanti per li miseri piaceri di questa terra perdono l’anima? Come va, dice Salviano,8 che i cristiani credono esservi giudizio, inferno, eternità, e poi vivono senza temerli? «Quid causae est, quod christianus, si futura credit, futura non timeat?»

Affetti e preghiere
Ah mio Dio, a che ho spesi tanti anni, che Voi mi avete dati a fine di procurarmi l’eterna salute? Voi, mio Redentore, avete comprata l’anima mia col vostro sangue, e poi l’avete a me consegnata, acciocché io9

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attendessi a salvarla, ed io non ho atteso che a perderla con offender Voi, che tanto mi avete amato. Vi ringrazio che ancora mi date tempo di poter10 rimediare alla gran perdita da me fatta. Ho perduta l’anima e la bella grazia vostra. Signore, me ne pento, me ne dispiace con tutto il cuore. Deh perdonatemi, ch’io risolvo da oggi avanti di perdere ogni cosa, anche la vita, prima che la vostra amicizia. V’amo sopra ogni bene, e risolvo di volervi sempre amare, o sommo bene degno d’infinito amore. Aiutatemi, Gesù mio, acciocché questa mia risoluzione non sia simile agli altri miei propositi passati, che sono stati tutti tradimenti. Fatemi prima morire, che io11 abbia da tornare di nuovo ad offendervi e lasciarvi d’amare.

O Maria speranza mia, salvatemi Voi, con ottenermi la santa perseveranza.

PUNTO II

Il negozio dell’eterna salute non solo è il più importante, ma è «l’unico» negozio che abbiamo in questa vita. «Porro unum est necessarium».1 Piange S. Bernardo2 la sciocchezza de’ cristiani, che chiamano pazzia le pazzie de’ fanciulli, e poi chiamano negozi i loro affari terreni. «Nugae puerorum, nugae vocantur, nugae maiorum, negotia vocatur?» Queste pazzie de’ grandi sono pazzie più grandi. Ed a che serve (dice il Signore) guadagnarti tutto il mondo, e perdere l’anima? «Quid prodest homini, si mundum universum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur?» (Matth. 16. 26). Se ti salvi, fratello mio, non importa che in questa terra sii stato povero, afflitto e disprezzato: salvandoti, non avrai più guai, e sarai felice per tutta l’eternità. Ma se la sgarri e ti danni, che ti servirà nell’inferno l’averti presi tutti gli spassi

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    del mondo, e l’essere stato ricco ed onorato? Perduta l’anima, si perdono gli spassi, gli onori, le ricchezze; si perde tutto.

Che risponderai a Gesu-Cristo nel giorno de’ conti? Se il re mandasse un suo ambasciadore3 a trattare qualche gran negozio in una città, e quegli in vece di attendere ivi all’affare commessogli, attendesse solamente a far banchetti, commedie e festini: e con ciò mandasse a male il negozio, qual conto ne darebbe al re nel suo ritorno? Ma oh Dio! che maggior conto darà al Signore nel giudizio colui, che posto sulla terra, non per divertirsi, non per farsi ricco, non per acquistare onori ma per salvarsi l’anima, ad ogni cosa avrà atteso, fuorché all’anima? Si pensa da’ mondani solamente al presente, non al futuro. S. Filippo Neri4 parlando una volta in Roma ad un giovane di talento, chiamato Francesco Zazzera, che stava applicato al mondo, gli disse così: Figlio mio, tu farai gran fortuna, sarai buono avvocato, poi sarai prelato, poi forse anche cardinale, e chi sa, forse anche Papa. E poi? e poi? Va (gli disse in fine), pensa a queste due ultime parole. Se ne andò Francesco alla casa, e pensando a quelle due parole, «e poi? e poi?» lasciò le sue applicazioni mondane, lasciò anche il mondo, ed entrò nella stessa Congregazione di S. Filippo, e cominciò ad attendere solo a Dio.

«Unico» negozio, perché un’anima abbiamo. Benedetto XII5 fu richiesto da un principe d’una grazia, che non potea concedersi senza peccato; il Papa rispose all’ambasciadore:6 Dite al vostro principe, che se io avessi due anime, potrei una perderla per lui e l’altra riservarla per me; ma perché7 ne ho una sola, non posso né voglio perderla. Dicea S. Francesco Saverio8 che un solo bene vi è nel mondo, e un solo male;

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    l’unico bene è il salvarsi, l’unico male è il dannarsi. Ciò replicava ancora S. Teresa9 alle sue monache dicendo: «Sorelle mie, un’anima, un’eternità». Volendo dire: «Un’anima», perduta questa, è perduto tutto: «Una eternità», perduta l’anima una volta, è perduta per sempre. Perciò pregava Davide:10 «Unam petii, et hanc requiram, ut inhabitem in domo Domini» (Ps. 22. 6).11 Signore, una cosa vi chiedo,12 salvatemi l’anima, e non altro.

«Cum metu, et tremore,vestram salutem operamini» (Phil. 2. 12). Chi non teme e non trema di perdersi, non si salverà; ond’è che per salvarsi, bisogna faticare e farsi violenza. «Regnum coelorum vim patitur, et violenti rapiunt illud» (Matth. 11).13 Per conseguir la salute è necessario che in morte la nostra vita si trovi simile a quella di Gesu-Cristo. «Praedestinavit uniformes fieri imaginis Filii sui» (Rom. 8. 29).14 E perciò dobbiam faticare in fuggir le occasioni15 da una parte, e dall’altra in avvalerci de’ mezzi necessari a conseguir la salute. «Regnum non dabitur vagantibus (dice S. Bernardo),16 sed pro servitio Deo digne laborantibus». Tutti vorrebbero salvarsi senza incomodo. Gran cosa! dice S. Agostino,17 il demonio fa tanta fatica, e non dorme per farci perdere; e tu, trattandosi del tuo bene, o male eterno, sei così trascurato? «Vigilat hostis, dormis tu»?

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    Affetti e preghiere
    Ah mio Dio, vi ringrazio che a quest’ora mi fate stare a’ piedi vostri, e non all’inferno, che tante volte mi ho18 meritato. Ma che mi servirebbe la vita che Voi mi conservate, s’io seguitassi a vivere privo della vostra grazia? Ah non sia mai. Io vi ho19 voltate le spalle, io v’ho perduto, o mio sommo bene; me ne dispiace con tutto il cuore. Fossi morto prima mille volte. Io vi ho20 perduto, ma il vostro profeta mi fa sentire che voi siete tutto buono, e ben vi fate trovare da un’anima che vi cerca: «Bonus est Dominus animae quaerenti illum» (Thren. 3. 25). Se per lo passato io son fuggito da voi, o Re del mio cuore, ora vi cerco, e non cerco altro che Voi. V’amo con tutto il mio affetto. Accettatemi, non isdegnate di farvi amare da quel cuore, che un tempo vi ha disprezzato. «Doce me facere voluntatem tuam».21 Insegnatemi che ho da fare per darvi gusto, che io tutto voglio eseguirlo. Deh Gesù mio, salvatemi quest’anima, per cui avete speso il sangue e la vita; e ‘l salvarmi sia darmi la grazia di sempre amarvi in questa vita e nell’altra. Così spero a’ meriti22 vostri.

E così anche spero alla23 vostra intercessione, o Maria.

PUNTO III

Negozio «importante», negozio «unico», negozio «irreparabile». «Sane supra omnem errorem est», dice S. Eucherio,1 «dissimulare negotium aeternae salutis». Non v’è errore simile all’errore di trascurare la salute eterna. A tutti gli altri errori vi è rimedio: se uno perde una roba, può acquistarla per altra via: se perde un posto, può esservi il rimedio a ricuperarlo: ancorché taluno perdesse la vita, se si salva, è rimediato a tutto. Ma per chi si danna, non vi è più rimedio. Una volta si muore; perduta l’anima una volta, è perduta per sempre. «Periisse semel,

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    aeternum est».2 Altro non resta, che piangere eternamente cogli altri miseri pazzi nell’inferno: dove questa è la maggior pena, che li tormenta, il pensare che per essi è finito il tempo di rimediare alla loro miseria. «Finita est aestas, et nos salvati non sumus» (Ier. 8. 20).Dimandate a que’ savi del mondo, che ora stanno in quella fossa di fuoco, dimandate quali sentimenti ora tengono? e se si trovan contenti di aver fatte le loro fortune in questa terra, ora che son dannati a quel carcere eterno? Udite come piangono e dicono: «Ergo erravimus!»3 Ma che serve loro conoscer l’errore fatto, ora che non v’è più rimedio alla loro eterna dannazione? Qual pena non sentirebbe taluno in questa terra, se avendo potuto rimediare con poca spesa alla rovina d’un suo palagio, un giorno poi lo trovasse caduto, e considerasse la sua trascuraggine, quando non può più rimediarvi?

Questa è la maggior pena de’ dannati il pensare che han perduta l’anima, e si son dannati per colpa loro. «Perditio tua, Israel, tantummodo in me auxilium tuum» (Os. 13. 9). Dice S. Teresa4 che se uno perde per colpa sua una veste, un anello, anche una bagattella, non trova pace, non mangia, non dorme. Oh Dio qual pena sarà al dannato in quel punto ch’entrerà nell’inferno,5 allorché vedendosi già chiuso in quella prigione di tormenti, anderà pensando alla sua disgrazia, e vedrà che per tutta l’eternità non vi sarà mai più riparo! Dunque dirà: Io ho perduta l’anima, il paradiso e Dio: ho perduto tutto per sempre, e perché? per colpa mia.

Ma dirà taluno: Se io fo questo peccato, perché m’ho da dannare? può essere che ancora mi salvi. Io ripiglio: Ma può essere che ancora

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    ti danni. Anzi ti dico esser più facile che ti danni, poiché le Scritture minacciano la dannazione a’ traditori ostinati, come in questo punto sei tu:«Vae filii desertores, dicit Dominus» (Is. 30. 1) «Vae eis, quoniam recesserunt» (Os. 7. 13). Almeno con questo peccato, che fai, non metti in gran pericolo e dubbio la tua salute eterna? Ed è negozio questo da metterlo in pericolo? Non si tratta d’una casa, d’una villa, d’un posto, si tratta, dice S. Gio. Grisostomo,6 di subissare in un’eternità di tormenti e di perdere un paradiso eterno: «De immortalibus suppliciis, de coelestis regni amissione res agitur». E questo negozio che importa il tutto per te, vuoi arrischiarlo ad un «può essere?»

Dici: Forse chi sa, non mi dannerò: spero che appresso Dio mi perdonerà. Ma frattanto? frattanto già da te stesso ti condanni all’inferno. Dimmi, ti butteresti7 in un pozzo con dire, forse chi sa, non morirò?8 No. E come poi puoi appoggiare la tua salute eterna ad una speranza così debole? ad un «chi sa?» Oh quanti con questa maledetta speranza si son dannati! Non sai che la speranza degli ostinati a voler peccare, non è speranza, ma inganno e presunzione, che muove Dio non a misericordia, ma a maggiore sdegno? Se ora dici che non ti fidi9 di resistere alla tentazione ed alla passione che ti domina, come resisterai appresso, quando non ti si aumenteranno, ma ti mancheranno le forze col commettere il peccato? poiché da una parte allora l’anima resterà più accecata, ed indurita dalla sua malizia, e dall’altra mancheranno gli aiuti divini. Forse speri che Dio abbia ad accrescere a te i lumi e le grazie, dopo che tu avrai accresciuti i peccati?

Affetti e preghiere
Ah Gesù mio, ricordatemi sempre la morte che avete patita per me, e datemi confidenza. Tremo che nella mia morte il demonio abbia

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    da farmi disperare alla vista di tanti tradimenti, che vi ho fatti. Quante promesse v’ho fatte di non volervi offendere più, a vista della luce che mi avete data, e poi ho ritornato a voltarvi le spalle, colla speranza del perdono? Dunque perché voi non mi avete castigato, per questo io vi ho ingiuriato tanto? Perché voi mi avete usata più misericordia, io vi ho fatti più oltraggi? Mio Redentore, datemi un gran dolore de’ peccati miei, prima ch’io parta da questa vita. Mi pento, o sommo bene, di avervi offeso. Io vi prometto da ogg’innanzi di morire prima mille volte, che lasciarvi più. Ma frattanto fatemi sentire quel che diceste alla Maddalena: «Remittuntur tibi peccata tua;»10 con farmi sentire un gran dolore delle mie colpe, prima ch’io arrivi alla morte, altrimenti temo che la mia morte abbia a riuscirmi inquieta ed infelice. «Non sis tu mihi formidini, spes mea, in die afflictionis» (Ier. 17. 17). In quel punto estremo, o Gesù mio crocifisso, non mi siate di spavento. Se io morirò allora prima d’aver pianti i miei peccati, e prima d’avervi amato, allora le vostre piaghe e ‘l vostro sangue mi daranno più presto terrore, che confidenza. Non vi cerco11 dunque consolazioni e beni di terra in questa vita che mi resta; vi chiedo dolore ed amore. Esauditemi, caro mio Salvatore, per quell’amore che vi fece sagrificare la vita per me sopra il Calvario.

Maria Madre mia, impetratemi voi queste grazie insieme colla santa perseveranza sino alla morte.

CONSIDERAZIONE XIII – VANITÀ DEL MONDO

«Quid prodest homini, si mundum universum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur?» (Matth. 16. 26).

PUNTO I

Fuvvi1 un certo antico filosofo, chiamato Aristippo,2 che viaggiando una volta per mare, naufragò colla nave, ed egli perdé tutte le sue robe; ma giunto al lido, essendo esso molto rinomato per la sua scienza, fu da’ paesani di quel luogo provveduto di tutto ciò che avea perduto. Ond’egli scrisse poi a’ suoi amici nella patria che dal suo esempio attendessero a provvedersi solamente di quei beni, che neppur3 col naufragio si perdono. Or questo appunto ci mandano a dire dall’altra vita i nostri parenti ed amici che stanno all’eternità, che attendiamo a provvederci qui in vita solamente di quei beni, che neppure colla morte si perdono. Il giorno della morte si chiama, «Dies perditionis (Iuxta est dies perditionis. Deut. 29. 21)».4 Giorno di perdita, perché in tal giorno i beni di questa terra, gli onori, le ricchezze, i piaceri tutti si han da perdere. Onde dice S. Ambrogio5 che questi non possiamo chiamarli beni nostri, mentre non possiamo portarli con noi all’altro mondo; ma le sole virtù ci accompagnano all’altra vita: «Non nostra sunt, quae non possumus auferre nobiscum; sola virtus nos comitatur».

Che serve dunque, dice Gesu-Cristo, guadagnarsi tutto il mondo, se in morte perdendo l’anima perderemo tutto? «Quid prodest homini, Si mundum universum lucretur?»6 Ah questa gran massima quanti giovani ne ha mandati a chiudersi ne’ chiostri, quanti anacoreti a vivere

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    ne’ deserti, quanti martiri a dar la vita per Gesu-Cristo! Con questa massima S. Ignazio di Loiola7 tirò molte anime a Dio; e specialmente la bell’anima di S. Francesco Saverio, il quale stava in Parigi, applicato ivi a’ pensieri di mondo. Francesco (gli disse un giorno il santo) pensa che il mondo è un traditore, che promette e non attende. Ma ancorché ti attendesse quel che ti promette il mondo, egli non potrà mai contentare il tuo cuore. Ma facciamo che ti8 contentasse, quando durerà questa tua felicità? può durare più che la tua vita? ed in fine che te ne porterai all’eternità? Vi è forse ivi alcun ricco, che si ha portata una moneta, o un servo per suo comodo? Vi è alcun re, che si ha portato un filo di porpora per suo onore? A queste parole S. Francesco lasciò il mondo, seguitò S. Ignazio e si fece santo. «Vanitas vanitatum»,9 così chiamò Salomone tutti i beni di questo mondo, dopo ch’egli non si negò alcun piacere di tutti quelli che stanno sulla terra, com’egli stesso confessò: «Omnia quae desideraverunt oculi mei, non negavi eis» (Eccl. 2. 10). Dicea suor Margherita di S. Anna carmelitana Scalza,10 figlia dell’imperator11 Ridolfo II: «A che servono i regni nell’ora della morte?» Gran cosa! tremano i santi in pensare al punto della loro salute eterna; tremava il P. Paolo Segneri,12 il quale tutto spaventato dimandava al suo confessore: Che dici, padre, mi salverò? Tremava S. Andrea d’Avellino,13 e piangeva dirottamente dicendo: Chi sa, se mi salvo! Da questo pensiero ancora era così tormentato S. Luigi Beltrando,14 che per lo spavento
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    la notte sbalzava di letto dicendo: E chi sa, se mi danno! E i peccatori vivono dannati, e dormono, e burlano, e ridono!

Affetti e preghiere
Ah Gesù mio Redentore, vi ringrazio, che mi fate conoscere la mia pazzia e ‘l male ch’ho fatto nel voltare le spalle a Voi, che per me avete speso il sangue e la vita. No che non meritavate d’esser trattato da me, come vi ho trattato. Ecco se ora mi venisse la morte, che cosa mi troverei, se non peccati e rimorsi di coscienza, che mi farebbero morire inquieto? Mio Salvatore, confesso, ho fatto male, ho fatto errore in lasciare Voi, sommo bene, per li miseri gusti di questo mondo; me ne pento con tutto il cuore. Deh per quel dolore che vi uccise nella croce, datemi un tal dolore de’ miei peccati, che mi faccia piangere in tutta la vita che mi resta i torti che v’ho fatti. Gesù mio, Gesù mio perdonatemi, ch’io vi prometto di non darvi più disgusto e di sempre15 amarvi. Io non sono più degno del vostro amore, perché l’ho tanto disprezzato per lo passato; ma voi avete detto, che amate chi v’ama: «Ego diligentes me diligo» (Prov. 8).16 Io v’amo; amatemi ancora voi. Non mi voglio vedere più in disgrazia vostra. Io rinunzio a tutte le grandezze e piaceri del mondo, purché voi mi amiate. Dio mio, esauditemi per amore di Gesu-Cristo; Egli vi prega che non mi discacciate dal vostro cuore. Io tutto a voi mi consagro; vi consagro la vita, le mie soddisfazioni, i miei sensi, l’anima, il corpo, la17 mia volontà, la mia libertà. Accettatemi Voi, non mi rifiutate, come io meriterei, per aver rifiutata tante volte la vostra amicizia. «Ne proiicias me a facie tua».18
Vergine SS. Madre mia Maria, pregate Voi Gesù per me; alla19 vostra intercessione io tutto confido.

PUNTO II

«Statera dolosa in manu eius» (Os. 12).1 Bisogna pesare i beni nelle bilance di Dio, non in quelle del mondo, le quali ingannano. I beni del mondo son beni troppo miseri, che non contentano l’anima, e presto finiscono. «Dies mei velociores fuerunt cursore, pertransierunt quasi naves poma portantes» (Iob. 9. 25). Passano e fuggono i giorni della nostra vita e de’ piaceri di questa terra, e finalmente2 che resta? «Pertransierunt quasi naves». Le navi non lasciano neppure il segno per dove son passate. «Tanquam navis, quae pertransit fluctuantem aquam, cuius, cum praeterierit, non est vestigium invenire» (Sap. 5. 10). Domandiamo a tanti ricchi, letterati, principi, imperadori,3 che or sono all’eternità, che si trovano delle loro pompe, delizie e grandezze godute in questa terra? Tutti rispondono: Niente, niente. Uomo, dice S. Agostino:4 «Quid hic habebat, attendis, quid secum fert, attende (Serm. 13. de Adv. Dom.)». Tu guardi (dice il santo) solamente i beni, che possedea quel grande; ma osserva che cosa si porta seco, or che muore, se non un cadavere puzzolente ed uno straccio di veste per seco infracidirsi?5 De i grandi del mondo che muoiono, appena per poco tempo si sente parlare, e poi se ne perde anche la memoria. «Periit memoria eorum cum sonitu» (Ps. 9. 7). E se i miseri vanno poi all’inferno, ivi che fanno, che dicono? Piangono e dicono: «Quid profuit nobis superbia, aut divitiarum iactantia?… transierunt omnia illa, tanquam umbra» (Sap. 5. 8).Che ci han giovate6 le nostre pompe e le ricchezze, se ora tutto è passato come un’ombra, ed altro non c’è rimasto che pena, pianto e disperazione eterna?

«Filii huius saeculi prudentiores filiis lucis sunt» (Luc. 16. 8).Gran cosa! come sono prudenti i mondani per le cose della terra! Quali fatiche non fanno, per guadagnarsi quel posto, quella roba! Che diligenza non mettono, per conservarsi la sanità del corpo! Scelgono i mezzi più sicuri, il miglior medico, i migliori rimedi, la miglior aria. E per l’anima poi sono così trascurati! Ed è certo che la sanità, i posti,

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    le robe un giorno han da finire; ma l’anima, l’eternità non finiscono mai. «Intueamur (dice S. Agostino)7 quanta homines sustineant pro rebus, quas vitiose diligunt». Che non soffre quel vendicativo, quel ladro, quel disonesto per giungere al suo pravo intento? E poi per l’anima non vogliono soffrir niente? Oh Dio, che alla luce di quella candela, che si accende nella morte, allora in quel tempo di verità si conosce e si confessa da’ mondani la loro pazzia. Allora ognuno dice: Oh avessi lasciato tutto, e mi fossi fatto santo! Il Pontefice Leone XI8 diceva in morte: Meglio fossi stato portinaio del mio monastero, che Papa. Onorio III similmente Papa,9 anche dicea morendo: Meglio fossi restato nella cucina del mio convento a lavare i piatti. Filippo II re di Spagna10 morendo si chiamò il figlio, e gittando la veste regale, gli fe’ vedere il petto roso da’ vermi, e poi gli disse: Principe, vedi come si muore, e come finiscono le grandezze del mondo. E poi esclamò: Oh fossi stato laico di qualche religione e non monarca. Nello stesso tempo si fe’ ligare11 al collo una fune con una croce di legno, e dispose le cose per la sua morte, e disse al figlio: Ho voluto, figlio mio, che voi vi foste12 trovato presente a quest’atto, acciocché miriate come il mondo in fine tratta anche i monarchi. Sicché la loro morte è uguale a quella de’ più poveri del mondo. In somma chi meglio vive ha miglior luogo con Dio. Questo medesimo figlio poi (che fu Filippo III)13 morendo giovine di 42 anni, disse: Sudditi miei, nel sermone de’ miei funerali, non predicate altro se non questo spettacolo che vedete. Dite che non serve in morte l’esser re, che per sentire maggior
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    tormento d’esserlo stato. E poi esclamò: Oh non fossi stato re, e fossi vivuto in un deserto a servire Dio, perché ora anderei con maggior confidenza a presentarmi nel suo tribunale, e non mi troverei a tanto rischio di dannarmi! Ma che servono questi desideri in punto di morte, se non per maggior pena e disperazione a chi in vita non ha amato Dio? Dicea dunque S. Teresa:14 «Non ha da farsi conto di ciò, che finisce colla vita; la vera vita è vivere in modo, che non si tema la morte». Perciò se vogliamo vedere, che cosa sono li beni15 di questa terra, miriamoli dal letto della morte; e poi diciamo: Quegli onori, quegli spassi, quelle rendite un giorno finiranno: dunque bisogna attendere a farci santi e ricchi di quei soli beni che verranno con noi, e ci renderanno contenti per tutta l’eternità.

Affetti e preghiere
Ah mio Redentore, voi avete sofferto tante pene ed ignominie per amor mio; ed io ho tanto amati i piaceri ed i fumi di questa terra, che per essi tante volte son giunto a mettermi sotto i piedi la vostra grazia! Ma se quando io vi disprezzava, Voi non avete lasciato di venirmi appresso, non posso temere, o Gesù mio, che mi discaccerete16 ora che vi cerco e v’amo con tutto il mio cuore, e mi pento più d’aver offeso Voi, che se avessi patita ogni altra disgrazia. O Dio dell’anima mia, da oggi avanti non voglio darvi alcun disgusto, benché leggiero; fatemi conoscere che sia disgusto vostro, ch’io non voglio farlo per qualunque bene del mondo; e fatemi intendere quel che ho da fare per compiacervi, ch’io sono pronto. Io voglio amarvi da vero.17 Abbraccio, Signore, tutti i dolori e le croci, che mi verranno dalle vostre mani; datemi quella rassegnazione che vi bisogna. «Hic ure, hic seca».18

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    Castigatemi in questa vita, acciocché nell’altra io possa amarvi in eterno.

Maria Madre mia, a voi mi raccomando; non lasciate mai di pregare Gesù per me.

PUNTO III

«Tempus breve est… qui utuntur hoc mundo, tanquam non utantur, praeterit enim figura huius mundi» (1. Cor. 7. 31).1 Che altro è la nostra vita su questo mondo, se non una scena che passa e presto finisce? «Praeterit figura huius mundi»; figura cioè scena, commedia. «Mundus est instar scenae (dice Cornelio a Lapide),2 generatio praeterit, generatio advenit. Qui regem agit, non auferet secum purpuram. Dic mihi, o villa, o domus, quot dominos habuisti?» Quando finisce la commedia, chi ha fatta la parte del re, non è più re; il padrone, non è più padrone. Ora possiedi quella villa, quel palagio; ma verrà la morte, e ne saran padroni gli altri.

«Malitia horae oblivionem facit luxuriae magnae» (Eccli. 11. 29). L’ora funesta della morte fa scordare e finire tutte le grandezze, le nobiltà ed i fasti del mondo. Casimiro re di Polonia3 un giorno, mentre

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    stava a mensa co’ grandi del suo regno, accostando la bocca ad una tazza per bere, morì, e finì per lui la scena. Celso imperadore,4 in capo a sette giorni ch’era stato eletto, fu ucciso, e finì la scena per Celso. Ladislao re di Boemia,5 giovine di 18 anni, mentre aspettava la sposa, figlia del re di Francia, e si apparecchiavano gran feste, ecco in una mattina preso da un dolore se ne muore; onde si spediscono subito i corrieri ad avvisare la sposa, che se ne torni in Francia, poiché per Ladislao era finita la scena. Questo pensiero6 della vanità del mondo fe’ santo S. Francesco Borgia,7 il quale come di sopra si considerò a vista dell’imperadrice Isabella, morta in mezzo alle grandezze e nel fiore di sua gioventù, risolse di darsi tutto a Dio, dicendo: «Così dunque finiscono le grandezze e le corone di questo mondo? Voglio dunque da ogg’innanzi servire ad un padrone, che non mi possa morire».

Procuriamo di vivere in modo, che non ci sia detto in morte, come fu detto a quel pazzo del Vangelo: «Stulte, hac nocte animam tuam repetent a te, et quae parasti cuius erunt?» (Luc. 12. 20).8 Onde conclude S. Luca: «Sic est qui sibi thesaurizat, et non est in Deum dives». E poi dice: Procurate di farvi ricchi, non già nel mondo di robe, ma in Dio9 di virtù e di meriti, che son beni che saranno eterni con voi in cielo: «Thesaurizate vobis thesauros in coelo, ubi neque aerugo neque tinea demolitur».10 E perciò attendiamo ad acquistarci il gran tesoro del divino amore. «Quid habet dives, si caritatem non habet? Pauper si caritatem habet, quid non habet?» dice S. Agostino.11 Se uno

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    ha tutte le ricchezze e non ha Dio, egli è il più povero del mondo. Ma il povero che ha Dio, ha tutto. E chi ha Dio? chi l’ama: «Qui manet in caritate, in Deo manet, et Deus in eo» (1. Io. 4. 16).

Affetti e preghiere
Ah mio Dio, non voglio che più il demonio abbia ad aver dominio nell’anima12 mia; Voi solo voglio che ne siate il padrone, e la dominiate. Io voglio lasciar tutto per acquistare la grazia vostra. Stimo più questa, che mille corone e mille regni. E chi ho d’amare, se non voi amabile infinito, bene infinito, bellezza, bontà, amore infinito? Per lo passato io vi ho lasciato per le creature; questo mi è, e mi sarà sempre un dolore che mi trafiggerà il cuore d’avere offeso Voi, che mi avete tanto amato. Ma dopo che mi avete ligato13 mio Dio, con tante grazie, no che non mi fido14 più di vedermi privo del vostro amore. Prendetevi, amor mio, tutta la mia volontà e tutte le mie cose; fatene15 di me quello che vi piace. Se per lo passato mi sono disturbato nelle cose contrarie, ve ne domando perdono. Non voglio lamentarmi più, Signor mio, delle vostre disposizioni; so che tutte son sante, e tutte per mio bene. Fate, mio Dio, quel che volete, vi prometto di chiamarmene sempre contento, e sempre ringraziarvene. Fate ch’io v’ami, e niente più vi domando. Che beni! che onori! che mondo? Dio, Dio, voglio solo Dio.

Beata voi, o Maria, che nel mondo non amaste altro che Dio! Impetratemi ch’io v’accompagni almeno in questa vita che mi resta: in Voi confido.

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CONSIDERAZIONE XIV – LA PRESENTE VITA È VIAGGIO ALL’ETERNITÀ

«Ibit homo in domum aeternitatis suae» (Eccl. 12. 5).

PUNTO I

Dal vedere che in questa terra tanti malviventi vivono tra le prosperità, e tanti giusti all’incontro vivon tribulati, anche i gentili col solo lume naturale han conosciuta questa verità che essendovi Dio, ed essendo questo Dio giusto, debba esservi un’altra vita, in cui siano puniti gli empi e premiati i buoni. Or quello che han detto i gentili col solo lume della ragione, noi cristiani lo confessiamo per fede. «Non habemus hic manentem civitatem, sed futuram inquirimus» (Hebr. 13. 14). Questa terra non è già la nostra patria, ella per noi è luogo di passaggio, per dove dobbiamo passare tra breve alla casa dell’eternità. «Ibit homo in domum aeternitatis suae».1 Dunque, lettor mio, la casa dove abiti, non è casa tua, è ospizio, dal quale, tra breve, e quando meno te l’immagini, dovrai sloggiare. Sappi che giunto che sarà il tempo di tua morte, i tuoi più cari saranno i primi a cacciartene. E quale sarà la tua vera casa? una fossa sarà la casa del tuo corpo sino al giorno del giudizio, e l’anima tua dovrà andare alla casa dell’eternità, o al paradiso, o all’inferno. Perciò ti avvisa S. Agostino:2 «Hospes es, transis et vides». Sarebbe pazzo quel pellegrino, che passando per un paese volesse ivi impiegare tutto il suo patrimonio, per comprarsi ivi una villa o una casa, che tra pochi giorni avesse poi da lasciare. Pensa pertanto, dice il santo, che in questo mondo stai di passaggio; non mettere affetto a quel che vedi; vedi e passa; e procurati una buona casa, dove avrai da stare per sempre.

Se ti salvi, beato te, oh che bella casa è il paradiso! Tutte le reggie più ricche de’ monarchi sono stalle a rispetto della città del paradiso,

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    che sola può chiamarsi: «Civitas perfecti decoris» (Ez. 23. 3).3 Colà non avrai più che desiderare, stando in compagnia de’ santi, della divina Madre e di Gesu-Cristo, senza timore più d’alcun male; in somma viverai in un mar di contenti ed in un continuo gaudio che sempre durerà. «Laetitia sempiterna super capita eorum» (Is. 35. 10). E questo gaudio sarà così grande, che per tutta l’eternità, in ogni momento, sembrerà sempre nuovo. All’incontro, se ti danni, povero te! Sarai confinato in un mare di fuoco e di tormenti, disperato, abbandonato da tutti e senza Dio. E per quanto tempo? Passati forse che saranno cento e mille anni, sarà finita la tua pena? Che finire! Passeranno cento e mille milioni d’anni e di secoli; e l’inferno tuo sempre sarà da capo. Che sono mille anni a rispetto dell’eternità? meno d’un giorno che passa. «Mille anni ante oculos tuos, tanquam dies hesterna quae praeteriit» (Ps. 89. 4). Vorresti or sapere quale sarà la tua casa, che ti toccherà nell’eternità? Sarà quella che tu ti meriti, e ti scegli tu stesso colle tue opere.

Affetti e preghiere
Dunque, Signore, ecco la casa ch’io m’ho meritata colla mia vita, l’inferno (oimè) dove dal primo peccato che feci, dovrei stare abbandonato da Voi senza speranza di potervi più amare. Sia benedetta per sempre la vostra misericordia, che m’ha aspettato e mi dà tempo di rimediare al mal fatto. Sia benedetto il sangue di Gesu-Cristo, che questa misericordia mi ha ottenuta. No, mio Dio, non voglio abusarmi più della vostra pazienza. Mi pento sopra ogni male di avervi offeso, non tanto per l’inferno meritato, quanto perché ho oltraggiato la vostra bontà infinità. Mai più, Dio mio, mai più; prima la morte, che più offendervi. Se ora fossi nell’inferno, o mio sommo bene, io non potrei più amarvi, né potreste più amarmi Voi. Io v’amo; e voglio esser amato da Voi. Non lo merito io, ma lo merita Gesu-Cristo, il quale si è sagrificato a Voi sulla croce, acciocché Voi mi poteste perdonare ed amare. Eterno Padre, per amore dunque del vostro Figlio datemi la grazia di amarvi sempre e di amarvi assai. V’amo, o Padre mio, che mi avete dato il vostro Figlio. V’amo, o Figlio di Dio, che siete morto per me.

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    V’amo, o Madre di Gesù, che colla4 vostra intercessione mi avete impetrato tempo di penitenza. Ottenetemi ora, Signora mia, dolore de’ miei peccati, l’amore a Dio e la santa perseveranza.

PUNTO II

«Si lignum ceciderit ad austrum, aut ad aquilonem, in quocunque loco ceciderit, ibi erit» (Eccl. 11. 3). Dove caderà in morte l’albero dell’anima tua, ivi avrai da restare in eterno. E non vi è via di mezzo, o sempre re nel cielo, o sempre schiavo nell’inferno. O sempre beato in un mare di delizie, o sempre disperato in una fossa di tormenti. S. Gio. Grisostomo1 considerando l’epulone, che fu stimato felice, ma poi era stato confinato all’inferno, e Lazzaro all’incontro, che fu stimato misero, perché povero, ma poi era felice nel paradiso, esclama: «O infelix felicitas, quae divitem ad aeternam infelicitatem traxit! O felix infelicitas, quae pauperem ad aeternitatis felicitatem perduxit!»

Che serve angustiarsi, come fa taluno dicendo: Chi sa se son prescito, o predestinato! L’albero2 allorché si taglia, dove cade? cade dove pende. Dove pendete voi, fratello mio? che vita fate? Procurate di pender sempre dalla parte dell’austro, conservatevi in grazia di Dio, fuggite il peccato; e così vi salverete e sarete predestinato. E per fuggire il peccato, abbiate sempre avanti gli occhi il gran pensiero dell’eternità, chiamato appunto da S. Agostino:3 «Magna cogitatio». Questo pensiero ha condotti tanti giovani a lasciare il mondo, ed a vivere ne’ deserti, per attendere solo all’anima; e l’hanno accertata. Ora che son salvi, se ne trovan certamente contenti, e se ne troveran contenti per tutta l’eternità.

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    Una certa dama, che vivea lontana da Dio, fu convertita dal P.M. Avila con dirle solamente: Signora, pensate a queste due parole: «Sempre e Mai».4 Il P. Paolo Segneri5 ad un pensiero ch’ebbe di eternità in un giorno, non poté prender sonno per più notti, e d’indi in poi si diede ad una vita più rigorosa. Narra6 Dresselio7 che un certo vescovo con questo pensiero dell’eternità menava una vita santa, replicando sempre tra sé: «Omni momento ad ostium aeternitatis sto». Un certo monaco8 si chiuse in una fossa ed ivi non faceva altro che esclamare: «O eternità, o eternità!» Chi crede all’eternità, e non si fa santo, diceva il medesimo P. Avila,9 dovrebbe chiudersi nella carcere de’ pazzi.
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    Affetti e preghiere
    Ah mio Dio, abbiate pietà di me: io già sapeva che peccando mi condannava da me stesso ad un’eternità di pene, e mi son contentato di contraddire alla vostra volontà con tutta questa pena; e perché? per una misera soddisfazione! Ah mio Signore, perdonatemi, ch’io me ne pento con tutto il cuore. Non voglio oppormi più alla vostra santa volontà. Misero me, se voi m’aveste fatto morire nel tempo della mala vita, ora avrei da stare nell’inferno per sempre ad odiare la vostra volontà. Ma ora io l’amo, e voglio sempre amarla. «Doce me facere voluntatem tuam».10 Insegnatemi e datemi forza di eseguire da oggi avanti il vostro beneplacito. Non voglio contraddirvi più, o bontà infinita, e di questa grazia solamente vi prego: «Fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra»:11 fatemi fare perfettamente la vostra volontà, e niente più vi domando. E che altro volete Voi, mio Dio, se non il mio bene e la mia salute? Ah Padre Eterno, esauditemi per amore di Gesu-Cristo, che mi ha insegnato a pregarvi sempre, ed in suo nome ve lo cerco:12 «Fiat voluntas tua, fiat voluntas tua, fiat voluntas tua». O beato me, se vivo nella vita che mi resta, e se finisco la vita facendo la vostra volontà!

O Maria, beata voi, che faceste la volontà di Dio sempre perfettamente; ottenetemi per li vostri meriti ch’io la faccia almeno per li giorni che mi restano di vita.

PUNTO III

«Ibit homo in domum aeternitatis suae»:1 dice il profeta, «ibit», per dinotare che ciascuno anderà a quella casa, dove vuole andare; non vi sarà portato, ma esso vi anderà di propria volontà. È certo che Dio vuol tutti salvi, ma non ci vuole salvi per forza. «Ante hominem vita, et mors».2 Ha posta avanti ad ognuno di noi la vita e la morte, quella ch’eleggeremo, ci sarà data: «Quod placuerit ei, dabitur illi» (Eccli. 15. 18). Dice finalmente3 Geremia che il Signore ci ha date due vie

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    da camminare, una del paradiso e l’altra dell’inferno: «Ego do coram vobis viam vitae, et mortis» (Ier. 21. 8). A noi sta di scegliere. Ma chi vuol camminare per la via dell’inferno, come mai potrà ritrovarsi poi giunto al paradiso? Gran cosa! tutti i peccatori si voglion salvare, e frattanto si condannano da se stessi all’inferno con dire, spero di salvarmi. Ma chi mai, dice S. Agostino,4 trovasi così pazzo, che voglia prendersi il veleno colla speranza di guarirsi? «Nemo vult aegrotare sub spe salutis». E poi tanti cristiani, tanti pazzi, si danno la morte peccando con dire: Appresso penserò al rimedio! O inganno che ne ha mandati tanti all’inferno!

Non siamo noi così pazzi come questi; pensiamo che si tratta d’eternità. Quante fatiche fanno gli uomini per farsi una casa comoda, ariosa e in buon’aria, pensando che vi han da abitare per tutta la loro vita? E perché poi sono così trascurati, trattando di quella casa, che loro toccherà in eterno? «Negotium pro quo contendimus, aeternitas est», dice S. Eucherio;5 non si tratta d’una casa più o meno comoda, più o meno ariosa, si tratta di stare o in un luogo di tutte le delizie tra gli amici di Dio, o in una fossa di tutti i tormenti tra la ciurma infame di tanti scelerati,6 eretici, idolatri. E per quanto tempo? non per venti, o per quarant’anni, ma per tutta l’eternità. È un gran punto. Non è questo negozio di poco momento, è un negozio che importa tutto. Quando Tommaso Moro7 fu condannato a morte da Arrigo VIII, Luisa

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    sua moglie andò a tentarlo di consentire al volere di Arrigo; egli le disse allora: Dimmi, Luisa, già vedi ch’io son vecchio, quanti anni potrei aver di vita? Rispose la moglie: Voi potreste vivere venti altri anni. O sciocca mercantessa, ripigliò allora Tommaso, e per venti altri anni di vita su questa terra vuoi che perda un’eternità felice, e mi condanni ad una eternità di pene?

O Dio, dacci8 lume. Se il punto dell’eternità fosse una cosa dubbia, fosse un’opinione solamente probabile, pure dovressimo9 metter tutto lo studio per viver bene, acciocché non ci ponessimo al pericolo di essere eternamente infelici, se mai quest’opinione si trovasse vera; ma no, che questo punto non è dubbio, ma certo; non è opinione, ma verità di fede: «Ibit homo in domum aeternitatis suae».10 Oimè che la mancanza di fede, dice S. Teresa,11 è quella che è causa di tanti peccati e della dannazione di tanti cristiani. Ravviviamo dunque sempre la fede, dicendo: «Credo vitam aeternam». Credo che dopo questa vita vi è un’altra vita, che non finisce mai; con questo pensiero sempre avanti gli occhi prendiamo i mezzi per assicurare la nostra salute eterna. Frequentiamo i sagramenti, facciamo la meditazione ogni giorno e pensiamo alla vita eterna; fuggiamo le occasioni pericolose. E se bisogna lasciare il mondo, lasciamolo, perché non vi è sicurtà che basta12 per assicurare questo gran punto dell’eterna salute. «Nulla nimia securitas, ubi periclitatur aeternitas» (S. Bernardo).13

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    Affetti e preghiere
    Dunque, mio Dio, non vi è via di mezzo; o dovrò io esser sempre felice, o sempre infelice: o in un mar di contenti, o in un mare di tormenti: o sempre con voi in paradiso, o sempre lontano e separato da voi nell’inferno. E quest’inferno so certo che tante volte me l’ho meritato: ma so certo ancora che voi perdonate chi si pente e liberate dall’inferno chi spera in voi. Voi me ne assicurate: «Clamabit ad me… eripiam eum, et glorificabo eum» (Ps. 90).14 Presto dunque, Signor mio, presto perdonatemi e liberatemi dall’inferno. Mi pento, o sommo bene, sopra ogni male di avervi offeso. Presto restituitemi nella vostra grazia, e datemi il vostro santo amore. Se ora stessi15 nell’inferno, non potrei più amarvi; vi avrei da odiare per sempre; ah mio Dio, e che male m’avete fatto Voi, che vi avessi da odiare? Voi mi avete amato sino alla morte? Voi siete degno d’infinito amore. O Signore, non permettete, ch’io più mi separi da Voi. Io v’amo, e vi voglio sempre amare. «Quis me separabit a caritate Christi?»16 Ah Gesù mio, solo il peccato mi può separar da Voi, deh non lo permettete, per quel sangue che avete sparso per me. Fatemi prima morire. «Ne permittas me separari a te».17
    Regina e Madre mia, aiutatemi colle vostre preghiere; ottenetemi prima la morte e mille morti, ch’io abbia più a separarmi dall’amore del vostro Figlio.

CONSIDERAZIONE XV – DELLA MALIZIA DEL PECCATO MORTALE

«Filios enutrivi, et exaltavi, ipsi autem spreverunt me» (Isa. 1. 2).

PUNTO I

Che fa chi commette un peccato mortale? Ingiuria Dio, lo disonora, l’amareggia. Per prima il peccato mortale è un’ingiuria, che si fa a Dio. La malizia di un’ingiuria, come dice S. Tommaso,1 si misura dalla persona, che la riceve, e dalla persona che la fa. Un’ingiuria che si fa ad un villano, è male, ma è maggior delitto, se si fa ad un nobile; maggiore poi, se si fa ad un monarca. Chi è Dio? è il Re de’ Regi. «Dominus Dominantium est, et Rex Regum» (Apoc. 17. 14). Dio è una maestà infinita, a rispetto di cui tutt’i principi della terra e tutt’i santi e gli angeli del cielo son meno d’un acino d’arena. «Quasi stilla situlae, pulvis exiguus» (Is. 40. 15). Anzi dice Osea che a fronte della grandezza di Dio tutte le creature son tanto minime, come se non vi fossero: «Omnes gentes quasi non sint, sic sunt coram Eo» (Os. 5).2 Questo è Dio. E chi è l’uomo? S. Bernardo:3 «Saccus vermium, cibus vermium». Sacco di vermi e cibo di vermi, che tra breve l’han da divorare. «Miser, et pauper, et caecus, et nudus» (Apoc. 3. 17). L’uomo è un verme misero che non può niente, cieco che non sa veder niente, e povero e nudo che niente ha. E questo verme miserabile vuole ingiuriare un Dio! «Tam terribilem maiestatem audet vilis pulvisculus irritare!» dice lo

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    stesso S. Bernardo.4 Ha ragione dunque l’Angelico in dire che ‘l peccato dell’uomo contiene una malizia quasi infinita. «Peccatum habet quandam infinitatem malitiae ex infinitate divinae maiestatis» (p. 3. q. I. C. 2. ad 2). Anzi S. Agostino chiama il peccato assolutamente «infinitum malum».5 Ond’è che se tutti gli uomini e gli angeli si offerissero a morire, e anche annichilarsi, non potrebbero soddisfare6 per un solo peccato. Dio castiga il peccato mortale colla gran pena dell’inferno, ma per quanto lo castighi, dicono tutt’i teologi che sempre lo castiga «citra condignum»,7 cioè meno di quel che dovrebbe esser punito.

E qual pena mai può giungere a punir come merita un verme, che se la piglia col suo Signore? Dio è il Signore del tutto, perché egli ha creato il tutto. «In ditione tua cuncta sunt posita, tu enim creasti omnia» (Esther 13.9).8 Ed in fatti tutte le creature ubbidiscono a Dio: «Venti et mare obediunt ei» (Matth. 8. 27). «Ignis, grando, nix, glacies faciunt verbum eius» (Ps. 148. 8). Ma l’uomo quando pecca, che fa? dice a Dio: Signore, io non ti voglio servire. «Confregisti iugum meum;

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    dixisti, non serviam» (Ier. 2. 20). Il Signore gli dice, non ti vendicare: e l’uomo risponde, ed io voglio vendicarmi; non prendere la roba d’altri; ed io me la voglio pigliare; privati di quel gusto disonesto; ed io non me ne voglio privare. Il peccatore dice a Dio, come disse Faraone, allorché Mosè gli portò l’ordine di Dio che lasciasse in libertà il suo popolo, rispose9 il temerario: «Quis est Dominus, ut audiam vocem eius? nescio Dominum» (Exod. 5. 2). Lo stesso dice il peccatore: Signore, io non ti conosco, voglio fare quel che piace a me. In somma gli perde il rispetto in faccia e gli volta le spalle; questo propriamente è il peccato mortale, una voltata di spalle che si fa a Dio: «Aversio ab incommutabili bono» (S. Thom. part. I. qu. 34. art. 4).10 Di ciò si lamenta il Signore: «Tu reliquisti me, dicit Dominus; retrorsum abiisti» (Ier. 15. 6): Tu sei stato l’ingrato, dice Dio, che hai lasciato me, poiché io non ti avrei mai lasciato: «retrorsum abiisti», tu mi hai voltato le spalle.

Iddio s’è dichiarato che odia il peccato; onde non può far di meno di odiare poi chi lo commette. «Similiter autem odio sunt Deo impius, et impietas11 eius» (Sap. 14. 9). E l’uomo quando pecca, ardisce di dichiararsi nemico di Dio, e se la piglia da tu a tu con Dio: «Contra Omnipotentem roboratus est» (Iob. 15. 25). Che direste, se vedeste una formica volersela pigliare con un soldato? Dio è quel potente, che dal niente con un cenno ha creato il cielo e la terra. «Ex nihilo fecit illa Deus» (2. Mach. 7. 28). E se vuole, con un altro cenno può distruggere il tutto: «Potest universum mundum uno nutu delere» (2. Mach. 8. 18). E ‘l peccatore allorché consente al peccato, stende la mano contra Dio: «Tetendit adversus Deum manum suam; cucurrit adversus eum erecto collo, pingui cervice armatus est».12 Alza il collo, cioè la superbia e corre ad ingiuriare Dio: e s’arma d’una testa grassa, cioè d’ignoranza (il grasso è simbolo dell’ignoranza), con dire: «Quid feci?» E che gran male è quel peccato che ho fatto? Dio è di misericordia, perdona i peccatori. Che ingiuria! che temerità! che cecità!

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    Affetti e preghiere
    Ecco, o Dio mio, a’ piedi vostri il ribelle, il temerario, che ha avuto l’ardire tante volte di perdervi il rispetto in faccia e di voltarvi le spalle: ma ora vi cerca pietà. Voi avete detto: «Clama ad me, et exaudiam te» (Ier. 33. 3). È poco un inferno per me, già lo conosco; ma sappiate ch’io ho più dolore d’avervi offeso, o bontà infinita, che se avessi perduti tutt’i miei beni e la vita. Ah mio Signore, perdonatemi e non permettete ch’io più v’offenda. Voi mi avete aspettato, acciocché io13 benedica per sempre la vostra misericordia, e v’ami, sì vi benedico e v’amo, e spero ai14 meriti di Gesu-Cristo di non separarmi più dal vostro amore. L’amor vostro m’ha liberato dall’inferno, questo mi ha da liberare in avvenire dal peccato. Vi ringrazio, mio Signore, di questa luce e del desiderio che mi date di sempre amarvi. Deh prendete il possesso di tutto me, dell’anima e del corpo, delle mie potenze, de’ sensi, della mia volontà, della mia libertà. «Tuus sum ego, salvum me fac».15 Voi che siete l’unico bene, l’unico amabile, siate voi ancora l’unico mio amore. Datemi fervore in amarvi. Io v’ho offeso assai, onde non può bastarmi l’amarvi; voglio amarvi assai, per ricompensarvi l’ingiurie, che v’ho16 fatte. Da voi lo spero, che siete onnipotente.

E lo spero anche dalle vostre preghiere, o Maria, le quali sono onnipotenti appresso Dio.

PUNTO II

Il peccatore non solo ingiuria Dio, ma lo disonora. «Per praevaricationem legis Deum inhonoras» (Rom. 2. 23). Sì, perché rinunzia alla sua grazia, e per un gusto miserabile si mette sotto i piedi l’amicizia di Dio. Se l’uomo perdesse la divina amicizia, per guadagnarsi un regno, anche1 tutto il mondo, pure sarebbe un gran male, perché l’amicizia di Dio vale più che il mondo e mille mondi. Ma perché taluno offende Dio?

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    «Propter quid irritavit impius Deum?» (Psal. 10. 13). Per un poco di terra, per uno sfogo d’ira, per un gusto di bestia, per un fumo, per un capriccio. «Violabant me propter pugillum hordei, et fragmen panis» (Ez. 13. 19). Allorché il peccatore si mette a deliberare di dare o no il consenso al peccato, allora (per così dire) prende in mano la bilancia, e si mette a vedere che cosa pesa più, se la grazia di Dio, o quello sfogo, quel fumo, quel gusto; e quando poi dà il consenso, allora dichiara in quanto a sé che vale più quello sfogo, quel gusto, che non vale la divina amicizia. Ecco Dio svergognato dal peccatore. Davide2 considerando la grandezza e la maestà di Dio dicea: «Domine, quis similis tibi»? (Psal. 34. 10). Ma Dio all’incontro, quando si vede da’ peccatori posto a confronto e posposto ad una soddisfazione3 miserabile, loro dice: «Cui assimilastis me, et adaequastis me, dicit Sanctus?» (Is. 40. 25). Dunque (dice il Signore) valeva più quel gusto vile, che la grazia mia? «Proiecisti me post corpus tuum» (Ez. 23. 35). Non avresti fatto quel peccato, se avessi avuto a perdere una mano, se dieci ducati, e forse molto meno. Dunque solo Dio, dice Salviano,4 è così vile agli occhi tuoi, che merita d’esser posposto ad uno sfogo, ad una misera soddisfazione: «Deus solus in comparatione omnium tibi vilis fuit». In oltre, quando il peccatore per qualche suo gusto offende Dio, allora fa che quel gusto diventi il suo Dio, facendolo diventare suo ultimo fine. Dice S. Girolamo:5 «Unusquisque quod cupit, si veneratur, hoc illi Deus est. Vitium in corde, est idolum in altari». Onde
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    dice S. Tommaso:6 «Si amas delicias, deliciae dicuntur Deus tuus». E S. Cipriano:7 «Quidquid homo Deo anteponit, Deum sibi facit». Geroboamo quando si ribellò da Dio, procurò di tirarsi seco anche il popolo ad idolatrare, e perciò gli presentò gl’idoli suoi e gli disse: «Ecce dii tui, Israel» (3. Reg. 12. 28). Così fa il demonio, presenta al peccatore quella soddisfazione e dice: Che ne vuoi fare di Dio? ecco lo Dio8 tuo, questo gusto, questo sfogo, prenditi questo e lascia Dio. Ed il peccatore, quando acconsente, così fa, adora per Dio nel suo cuore quella soddisfazione. «Vitium in corde est idolum in altari».

Almeno, se il peccatore disonora Dio, non lo disonorasse in sua presenza; no, l’ingiuria, e lo disonora in faccia di lui, perché Dio è presente in ogni luogo. «Coelum et terram ego impleo» (Ier. 23. 24). E questo lo sa già il peccatore, e con tutto ciò non si arresta di provocare Dio avanti gli occhi suoi. «Ad iracundiam provocant me ante faciem meam» (Is. 65. 3).

Affetti e preghiere
Dunque, mio Dio, Voi siete un bene infinito, ed io v’ho più volte cambiato per un gusto miserabile, che appena avuto è sparito. Ma Voi benché da me disprezzato, ora mi offerite il perdono, se lo voglio; e mi promettete di ricevermi nella vostra grazia, se mi pento d’avervi offeso. Sì, mio Signore, mi pento con tutto il cuore di avervi così oltraggiato; odio il mio peccato sopra ogni male. Ecco (come spero) ch’io già ritorno a Voi, e Voi già mi ricevete, e mi abbracciate per figlio. Vi ringrazio, bontà infinita. Ma aiutatemi ora, e non permettete ch’io vi discacci più da me. L’inferno non lascerà di tentarmi ma Voi siete più potente dell’inferno. So ch’io non mi dividerò più da Voi se sempre a Voi mi raccomanderò; questa è la grazia dunque che mi avete da fare, fate ch’io sempre mi raccomandi a Voi, e sempre vi preghi, come ora vi dico: Signore, assistemi, datemi luce, datemi forza, datemi perseveranza, datemi il paradiso; ma sopra tutto concedetemi l’amor vostro,

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    ch’è il vero paradiso dell’anime. V’amo, bontà infinita, e voglio sempre amarvi. Esauditemi per amore di Gesu-Cristo.

Maria, voi siete il rifugio de’ peccatori, soccorrete un peccatore che vuole amare il vostro Dio.

PUNTO III

Il peccato ingiuria Dio, lo disonora e con ciò sommamente l’amareggia. Non vi è amarezza più sensibile, che il vedersi pagato d’ingratitudine da una persona amata e beneficata. Con chi se la piglia il peccatore? ingiuria un Dio che l’ha creato e l’ha amato tanto, ch’è giunto a dare il sangue e la vita per suo amore; ed egli commettendo un peccato mortale lo discaccia dal suo cuore. In un’anima che ama Dio, viene Dio ad abitarvi. «Si quis diligit me, Pater meus diliget eum et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus» (Io. 14. 23). Notisi: «Mansionem faciemus», Dio viene nell’anima per istarvi sempre, sicché non la lascia, se l’anima non lo discaccia: «Non deserit, nisi deseratur», come si dice nel Tridentino.1 Ma, Signore, Voi già sapete che quell’ingrato fra un altro momento già vi caccerà,2 perché non vi partite ora? che volete aspettare ch’egli proprio vi discacci? lasciatelo, partitevi, prima ch’egli vi faccia questa grande ingiuria. No, dice Dio, Io non voglio partirmi, sino che proprio esso non mi discaccia.3
Dunque, allorché l’anima consente al peccato, dice a Dio: Signore partitevi da me: «Impii dixerunt Deo, recede a nobis» (Iob. 21. 14). Non lo dice colla bocca, ma col fatto: «Recede, non verbis, sed moribus», dice S. Gregorio.4 Già sa il peccatore che Dio non può stare col peccato; vede già che peccando dee partirsi Dio; onde gli dice: Giacché Voi non potete starvi col mio peccato, e Voi partitevi, buon viaggio. E cacciando Dio dall’anima sua, fa ch’entri immediatamente il demonio, a prenderne il possesso. Per quella stessa porta, per cui esce Dio, entra

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    il nemico: «Tunc vadit, et assumit septem alios spiritus secum nequiores se, et intrantes habitant ibi» (Matth. 12. 45). Quando un bambino si battezza, il sacerdote intima al demonio: «Exi ab eo, immunde spiritus, et da locum Spiritui Sancto».5 Sì, perché quell’anima, ricevendo la grazia, diventa tempio di Dio. «Nescitis, quia templum Dei estis?» (1. Cor. 3. 16). Ma quando l’uomo consente al peccato, fa tutto l’opposto: dice a Dio che sta nell’anima sua: «Exi a me, Domine, da locum diabolo». Di ciò appunto si lamentò il Signore con santa Brigida,6 dicendo ch’egli dal peccatore è come un re discacciato dal proprio trono: «Sum tanquam rex a proprio regno expulsus, et loco mei latro pessimus electus est».

Qual pena avreste voi, se riceveste un’ingiuria grave da taluno che aveste molto beneficato? Questa è la pena che avete data al vostro Dio, ch’è giunto a dar la vita per salvarvi. Il Signore chiama il cielo e la terra quasi a compatirlo, per l’ingratitudine che gli usano i peccatori. «Audite coeli desuper, auribus percipe terra; filios enutrivi, et exaltavi, ipsi autem spreverunt me» (Is. 1. 2). In somma i peccatori coi loro peccati affliggono il cuore di Dio: «Ipsi autem ad iracundiam provocaverunt, et afflixerunt spiritum sanctum eius» (Is. 63. 10).

Dio non è capace di dolore, ma se mai ne fosse capace, un peccato mortale basterebbe a farlo morire di pura mestizia, come dice il P. Medina (de Poenitent.):7 «Peccatum mortale, si possibile esset, destrueret ipsum Deum, eo quod causa esset tristitiae in Deo infinitae». Sicché, come dice S. Bernardo,8 «peccatum quantum in se est, Deum perimit». Dunque il peccatore, allorché commette un peccato mortale, dà per così dire il veleno a Dio; non manca per lui di torgli la vita. «Exacerbavit

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    cerbavit Dominum peccator» (Hebr. 10. 4).9 E secondo dice S. Paolo, si mette sotto i piedi il Figlio di Dio: «Qui Filium Dei conculcaverit» (Hebr. 10. 29). Mentre disprezza tutto ciò che ha fatto e patito Gesu-Cristo per togliere il peccato dal mondo.

Affetti e preghiere
Dunque, mio Redentore, sempre ch’io ho peccato, vi ho discacciato dall’anima mia, ed ho posto l’opera per togliervi la vita, se mai Voi aveste potuto morire! Or sento, che Voi mi domandate: «Quid feci tibi, aut in quo contristavi te? responde mihi».10 Che male t’ho fatto io (mi dite), che disgusto t’ho dato, che tu m’hai dati tanti disgusti? Signore, mi chiedete che male m’avete fatto?11 mi avete dato l’essere, e siete morto per me. Ecco il male che mi avete fatto. Che voglio dunque rispondervi? vi dico che merito mille inferni; avete ragione di mandarmici. Ma ricordatevi di quell’amore12 che vi fe’ morire per me sulla croce: ricordatevi del sangue sparso per amor mio, ed abbiate pietà di me. Ma già intendo: Voi non volete ch’io disperi;13 anzi mi fate sapere che state alla porta del mio cuore, dal quale vi ho discacciato, e bussate colle vostre ispirazioni per entrarvi. «Sto ad ostium, et pulso».14 E mi dite che v’apri: «Aperi mihi, soror mea».15 Sì, Gesù mio, io ne discaccio il peccato, me ne dolgo con tutto il cuore, e v’amo sopra ogni cosa: entrate, amor mio, la porta è aperta; entrate e non vi partite più da me. Stringetemi a Voi col vostro amore, e non permettete ch’io abbia16 a sciogliermi più da Voi. No, mio Dio, non ci vogliamo più separare, io v’abbraccio e vi stringo al mio cuore; datemi Voi la santa perseveranza. «Ne permittas me separari a Te».17
Maria Madre mia, soccorretemi sempre: pregate Gesù per me; ottenetemi ch’io non abbia da perdere più la sua grazia.

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CONSIDERAZIONE XVI – DELLA MISERICORDIA DI DIO

«Superexaltat autem misericordia iudicium» (Iac. 2. 13).

PUNTO I

La bontà è diffusiva di sua natura, cioè inclinata a comunicare i suoi beni anche agli altri. Or Iddio che per natura è bontà infinita («Deus cuius natura bonitas», S. Leone),1 ha un sommo desiderio di comunicare a noi la sua felicità; e perciò il suo genio non è di castigare, ma d’usar misericordia a tutti. Il castigare, dice Isaia, è un’opera aliena dall’inclinazione di Dio: «Irascetur, ut faciat opus suum, alienum opus eius… peregrinum est opus eius ab eo» (Is. 28. 21). E quando il Signore castiga in questa vita, castiga per usar misericordia nell’altra. «Deus iratus est, et misertus est nobis» (Ps. 59. 3). Si dimostra irato, acciocché noi ci ravvediamo e detestiamo i peccati: «Ostendisti populo tuo dura, potasti nos vino compunctionis» (Ibid. 5). E se ci manda qualche castigo, lo fa perché ci ama, per liberarci dal castigo eterno: «Dedisti metuentibus te significationem, ut fugiant a facie arcus, ut liberentur dilecti tui» (Ibid. 6). E chi mai può ammirare e lodare abbastanza la misericordia ch’usa Dio co’ peccatori in aspettarli, in chiamarli ed in accoglierli, allorché ritornano? E per prima, oh la gran pazienza, che ha Dio in aspettarti2 a penitenza! Fratello mio, quando tu offendevi Dio, poteva egli farti morire? E Dio t’aspettava; e in vece di castigarti, ti faceva bene, ti conservava la vita e ti provvedeva. Fingea di non vedere i tuoi peccati, acciocché tu ti ravvedessi. «Dissimulans peccata hominum propter poenitentiam» (Sap. 11. 24). Ma come, Signore, Voi non potete vedere un sol peccato, e poi ne vedete tanti e tacete? «Respicere ad iniquitatem non poteris; quare respicis super iniquitates, et taces?» (Abac. 1. 11).3 Voi mirate

  • 150 –
    quel disonesto, quel vendicativo, quel bestemmiatore, che da giorno4 in giorno vi accresce l’offese, e non lo castigate? e perché tanta pazienza? «Propterea exspectat Dominus, ut misereatur vestri» (Is. 30. 18). Dio aspetta il peccatore, acciocché si emendi, e così possa perdonarlo e salvarlo.

Dice S. Tommaso5 che tutte le creature, il fuoco, la terra, l’aria, l’acqua per loro naturale istinto vorrebbero punire il peccatore, per vendicare l’ingiurie fatte al lor Creatore: «Omnis creatura, tibi factori deserviens, excandescit adversus iniustos».6 Ma Dio le trattiene per la sua pietà. Ma, Signore, Voi aspettate questi empi, acciocché si ravvedano, e non vedete che l’ingrati7 si servono della vostra misericordia per più offendervi? «Indulsisti, Domine, indulsisti genti, nunquid glorificatus es?» (Is. 26. 15). E perché tanta pazienza? perché Dio non vuol la morte del peccatore, ma che si converta e si salvi.

«Nolo mortem impii, sed ut convertatur, et vivat» (Ez. 33. 11).8 Oh pazienza di Dio! Giunge a dir S. Agostino9 che se Iddio non fosse Dio, sarebbe ingiusto, a riguardo della troppa pazienza che usa co’ peccatori: «Deus, Deus meus, pace tua dicam, nisi quia Deus esses, iniustus esses». Aspettare chi si serve della pazienza per più insolentire, par che sia un’ingiustizia all’onore divino. «Nos peccamus, siegue a dire il santo, «inhaeremus peccato (taluni fan pace col peccato, dormono in peccato i mesi e gli anni), gaudemus de peccato (altri arrivano a vantarsi delle loro scelleraggini): «et tu placatus es! Te nos provocamus ad iram, tu nos ad misericordiam»; sembra che facciamo

  • 151 –
    a gara con Dio, noi ad irritarlo a castigarci, ed Egli ad invitarci al perdono.

Affetti e preghiere
Ah mio Signore, intendo che a quest’ora mi toccherebbe di star nell’inferno. «Infernus domus mea est».10 Ma ora per vostra misericordia non mi ritrovo all’inferno, ma in questo luogo a’ piedi vostri, e sento che m’intimate il precetto di voler essere amato da me: «Diliges Dominum Deum tuum».11 E mi state dicendo che volete perdonarmi, s’io mi pento dell’ingiurie che v’ho fatte. Sì, mio Dio, giacché volete esser amato anche da me misero ribelle della vostra maestà, io v’amo con tutto il cuore, e mi pento di avervi oltraggiato, più di qualunque male ch’io12 avessi potuto incorrere. Deh illuminatemi, o bontà infinita; fatemi conoscere il torto che v’ho fatto. No, non voglio più resistere alle vostre chiamate. Non voglio più disgustare un Dio, che tanto mi ha amato: e tante volte e con tanto amore mi ha perdonato. Ah non vi avessi offeso mai, o Gesù mio! Perdonatemi e fate che da oggi avanti io non ami altri che Voi: viva solo per Voi, che siete morto per me: patisca per vostro amore, giacché Voi avete tanto patito per amor mio. Voi mi avete amato ab eterno, fate che in eterno io arda del vostro amore. Spero tutto, mio Salvatore a i13 meriti vostri.

E in voi confido ancora, o Maria; Voi colla vostra intercessione mi avete da salvare.

PUNTO II

Considera in oltre la misericordia che usa Dio in chiamare il peccatore a penitenza. Quando Adamo si ribellò dal Signore, e poi si nascondea dalla sua faccia, ecco Dio che avendo perduto Adamo, lo va cercando e quasi piangendo lo chiama: «Adam, ubi es?» (Gen. 3. 9). «Sunt verba Patris (commenta il p. Pereira)1 quaerentis filium

  • 152 –
    suum perditum». Lo stesso ha fatto Dio tante volte con te, fratello mio. Tu fuggivi da Dio, e Dio t’andava chiamando, ora con ispirazioni, ora con rimorsi di coscienza, ora con prediche, ora con tribolazioni,2 ora colla morte de’ tuoi amici. Par che dica Gesu-Cristo, parlando di te: «Laboravi clamans, raucae factae sunt fauces meae» (Ps. 68. 4). Figlio, quasi ho perduta la voce in chiamarti. Avvertite, o peccatori, dice S. Teresa,3 che vi sta chiamando quel Signore, che un giorno vi ha da giudicare.

Cristiano mio, quante volte hai fatto il sordo con Dio, che ti chiamava? Meritavi ch’egli non ti chiamasse più. Ma no, il tuo Dio non ha lasciato di seguire a chiamarti, perché volea far pace con te e salvarti. Oh Dio, chi era quegli che ti chiamava? un Dio d’infinita maestà. E tu chi eri, se non un verme miserabile e puzzolente? E perché ti chiamava? non per altro che per restituirti la vita della grazia, che tu avevi perduta: «Revertimini, et vivite» (Ez. 18. 32). Acciocché taluno potesse acquistare la divina grazia, poco sarebbe, se vivesse in un deserto per tutta la sua vita; ma Dio ti esortava4 a ricever la sua grazia in un momento, se volevi con un atto di pentimento: e tu la rifiutavi. E Dio con tutto ciò non ti ha abbandonato; ti è andato quasi piangendo appresso e dicendo: Figlio, e perché ti vuoi dannare? «Et quare moriemini, domus Israel?» (Ez. 18. 31).

Allorché l’uomo commette un peccato mortale, egli discaccia Dio dall’anima sua. «Impii dicebant Deo: Recede a nobis» (Iob. 21. 14).5 Ma Dio che fa? si pone6 alla porta di quel cuore ingrato: «Ecce sto ad ostium, et pulso» (Apoc. 3. 20). E par che preghi l’anima a dargli l’entrata: «Aperi mihi, soror mea» (Cant. 5. 2). E si affatica a pregare: «Laboravi rogans»7 (Ier. 15. 6). Sì, dice S. Dionisio Areopagita,8

  • 153 –
    Dio va appresso a’ peccatori come un amante disprezzato, pregandoli che non si perdano: «Deus etiam a se aversos amatorie sequitur, et deprecatur ne pereant». E ciò appunto significò S. Paolo, quando scrisse a’ discepoli: «Obsecramus pro Christo, reconciliamini Deo» (2. Cor. 5. 20). È bella la riflessione, che fa S. Gio. Grisostomo9 commentando questo passo: «Ipse Christus vos obsecrat. Quid autem obsecrat? reconciliamini Deo; non enim Ipse inimicus gerit, sed vos». E vuol dire il santo che non già il peccatore ha da stentare per muovere Dio a far pace con esso, ma esso ha da risolversi a voler far pace con Dio; mentr’egli, non già Iddio, fugge la pace.

Ah che questo buon Signore va tutto giorno appresso a tanti peccatori, e va loro dicendo: Ingrati, non fuggite più da me, ditemi perché fuggite? Io amo il vostro bene, ed altro non desidero che di rendervi felici, perché volete perdervi? Ma, Signore, Voi che fate? Perché tanta pazienza e tanto amore a questi ribelli? che bene Voi ne sperate? È poco vostro onore il farvi vedere così appassionato verso di questi miseri vermi che vi fuggono. «Quid est homo, quia magnificas eum? Aut quid apponis erga eum cor tuum?» (Iob. 7. 17).

Affetti e preghiere
Ecco, Signore, a’ piedi vostri l’ingrato, che vi cerca10 pietà: «Pater, dimitte».11 Vi chiamo Padre, perché Voi volete ch’io così vi chiami. Padre mio, perdonatemi. Io non merito compassione, mentre perché Voi siete stato più buono con me, io sono stato più ingrato con Voi. Deh per quella bontà che v’ha trattenuto, mio Dio, a non

  • 154 –
    abbandonarmi, quand’io vi fuggiva, per questa stessa ricevetemi ora che torno a Voi. Datemi, Gesù mio, un gran dolore dell’offese che v’ho fatte, e datemi il bacio di pace. Io mi pento più d’ogni male dell’ingiurie che v’ho fatte, le detesto, le abbomino, ed unisco questo mio abborrimento a quello, che ne aveste Voi, mio Redentore, nell’orto di Getsemani. Deh perdonatemi per li meriti di quel sangue, che spargeste per me in quell’orto. Io vi prometto risolutamente di non partirmi più da Voi, e di scacciare12 dal mio cuore ogni affetto che non è per Voi. Gesù mio, amor mio, io vi amo sopra ogni cosa, e voglio sempre amarvi, e solo Voi voglio amare; ma datemi Voi forza d’eseguirlo; fatemi tutto vostro.

O Maria speranza mia, Voi siete la madre della misericordia, pregate Dio, per me, e abbiate pietà di me.

PUNTO III

I principi della terra sdegnano anche di riguardare i sudditi ribelli, che vanno a cercar1 loro perdono; ma Dio non fa così con noi. «Non avertet faciem suam a vobis, si reversi fueritis ad eum» (2. Par. 30. 9). Iddio non sa voltar la faccia a chi ritorna a’ piedi suoi; no, poiché Egli stesso l’invita e gli promette di riceverlo subito che viene: «Revertere ad me, et suscipiam te» (Ier. 3. 1). «Convertimini ad me, convertar ad vos, ait Dominus» (Zach. 1. 3). Oh l’amore e la tenerezza con cui abbraccia Dio un peccatore che a Lui ritorna! Ciò appunto volle darci ad intendere Gesu-Cristo colla parabola della pecorella, che avendola trovata il pastore, se la stringe sulle spalle: «Imponit in humeros suos gaudens» (Lucae 15).2 E chiama gli amici a seco rallegrarsene: «Congratulamini mihi, quia inveni ovem meam, quae perierat» (Ibid. n. 6). E poi soggiunge S. Luca: «Gaudium erit in coelo super uno peccatore poenitentiam agente». Ciò maggiormente significò il Redentore colla parabola del figlio prodigo, dicendo ch’egli è quel Padre, che vedendo ritornare il figlio perduto, gli corre all’incontro; e prima che quegli parli, l’abbraccia e lo bacia, ed in abbracciarlo,

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    quasi vien meno di tenerezza per la consolazione che sente: «Accurrens cecidit super collum eius, et osculatus est eum» (Luc. 15. 20).

Giunge3 il Signore a dire che se il peccatore si pente, egli vuole scordarsi de’ suoi peccati, come se quegli non l’avesse mai offeso: «Si impius egerit poenitentiam… vita vivet; omnium iniquitatum eius non recordabor» (Ez. 18. 21). Giunge anche a dire: «Venite, et arguite me (dicit Dominus), si fuerint peccata vestra ut coccinum, quasi nix dealbabuntur» (Is. 1. 18). Come dicesse, venite peccatori (venite, et arguite me), e s’io non vi perdono, riprendetemi, e trattatemi da infedele. Ma no, che Dio non sa disprezzare un cuore che si umilia e si pente. «Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies» (Psal. 50).4
Si gloria il Signore di usar pietà e di perdonare i peccatori. «Exaltabitur parcens vobis» (Is. 30. 18). E quanto sta egli a perdonare? subito. «Plorans nequaquam plorabis, miserans miserabitur tui» (Is. 30. 10). Peccatore, dice il profeta, non hai molto da piangere; alla prima lagrima il Signore si muoverà a pietà di te. «Ad vocem clamoris tui, statim ut audierit, respondebit tibi» (Ibid.).5 Non fa Dio con noi, come noi facciamo con Dio; Dio ci chiama, e noi facciamo i sordi; Dio no, «statim ut audierit respondebit tibi»: subito che tu ti penti, e gli domandi il perdono, subito Dio risponde e ti perdona.

Affetti e preghiere
O mio Dio, e con chi me l’ho pigliata? con Voi che siete così buono, che m’avete creato, e siete morto per me? e mi avete così sopportato dopo tanti tradimenti? Ah che vedendo solamente la pazienza, che avete avuta con me, questa sola dovrebbe farmi vivere sempre ardendo del vostro amore. E chi mai mi avrebbe sofferto tanto, alle ingiurie che v’ho fatte, come mi avete sofferto Voi? Povero me, se da ogg’innanzi vi tornassi ad offendere, e mi dannassi! Queste misericordie che m’avete usate, sarebbero oh Dio un inferno più penoso per me, che tutto l’inferno. No, mio Redentore, nol permettete, ch’io v’abbia di nuovo a voltare le spalle. Fatemi prima morire. Già vedo che la vostra misericordia non mi può più sopportare. Mi pento, o sommo bene, di avervi offeso. V’amo con tutto il cuore, e son risoluto di dare tutta a Voi la vita che mi resta. Esauditemi, Eterno Padre, per li meriti di Gesu-Cristo; datemi la santa perseveranza e ‘l vostro santo amore. Esauditemi, Gesù mio, per lo sangue che avete sparso per me. «Te ergo, quaesumus, tuis famulis subveni, quos pretioso sanguine redemisti».6
O Maria madre mia, guardatemi; «illos tuos misericordes oculos ad nos converte»,7 e tiratemi tutto a Dio.

CONSIDERAZIONE XVII – ABUSO DELLA DIVINA MISERICORDIA

«Ignoras, quoniam benignitas Dei ad poenitentiam te adducit?» (Rom. 2. 4).

PUNTO I

Si ha nella parabola della zizania1 in S. Matteo (cap. 13) che essendo cresciuta in un campo la zizania2 insieme col grano, volevano i servi andare ad estirparla: «Vis, imus, et colligimus ea?»3 Ma il padrone rispose: No, lasciatela crescere, e poi si raccoglierà e si manderà al fuoco: «In tempore messis dicam messoribus, colligite primum zizania, et alligate ea in fasciculos ad comburendum».4 Da questa parabola si ricava per una parte la pazienza che il Signore usa co’ peccatori; e per l’altra il rigore che usa cogli ostinati. Dice S. Agostino5 che in due modi il demonio inganna gli uomini: «Desperando, et sperando». Dopo che il peccatore ha peccato, lo tenta a disperarsi6 col terrore della divina giustizia; ma prima di peccare, l’anima al7 peccato colla speranza della divina misericordia. Perciò il santo avverte ad ognuno:8 «Post peccatum spera misericordiam; ante peccatum pertimesce iustitiam». Sì, perché non merita misericordia chi si serve della misericordia

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    di Dio per offenderlo. La misericordia si usa con chi teme Dio, non con chi si avvale di quella per non temerlo. Chi offende la giustizia, dice l’Abulense,9 può ricorrere alla misericordia, ma chi offende la stessa misericordia, a chi ricorrerà?

Difficilmente si trova peccatore sì disperato, che voglia proprio dannarsi. I peccatori voglion peccare, senza perdere la speranza di salvarsi. Peccano e dicono: Dio è di misericordia; farò questo peccato, e poi me lo confesserò. «Bonus est Deus, faciam quod mihi placet», ecco come parlano i peccatori, scrive S. Agostino10 (Tract. 33. in Io.). Ma oh Dio così ancora dicevano tanti, che ora sono già dannati.

Non dire, dice il Signore: Son grandi le misericordie che usa Dio; per quanti peccati farò, con un atto di dolore sarò perdonato. «Et ne dicas: miseratio Domini magna est, multitudinis peccatorum meorum miserebitur» (Eccli. 5. 6). Nol dire, dice Dio; e perché? «Misericordia enim, et ira ab illo cito proximant, et in peccatores respicit ira illius» (Ibid.). La misericordia di Dio è infinita, ma gli atti di questa misericordia (che son le miserazioni) son finiti. Dio è misericordioso ma è ancora giusto. «Ego sum iustus, et misericors», disse il Signore un giorno a S. Brigida;11 «peccatores tantum misericordem me existimant». I peccatori, scrive S. Basilio,12 voglion considerare Dio solo per metà: «Bonus est Dominus, sed etiam iustus; nolite Deum ex dimidia parte cogitare». Il sopportare chi si serve della misericordia di Dio per più offenderlo, diceva il P.M. Avila13 che non sarebbe misericordia,

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    ma mancamento di giustizia. La misericordia sta promessa a chi teme Dio, non già a chi se ne abusa.14 «Et misericordia eius timentibus eum»,15 come cantò la divina Madre. Agli ostinati sta minacciata la giustizia; e siccome (dice S. Agostino)16 Dio non mentisce nelle promesse; così non mentisce ancora nelle minacce: «Qui verus est in promittendo, verus est in minando».

Guardati, dice S. Gio. Grisostomo,17 quando il demonio (ma non Dio) ti promette la divina misericordia, affinché pecchi; «Cave ne unquam canem illum suscipias, qui misericordiam Dei pollicetur» (Hom. 50. ad Pop. Antioch.). Guai, soggiunge S. Agostino,18 a chi spera per peccare: «Sperat, ut peccet; vae a perversa spe» (In Ps. 144). Oh quanti ne ha ingannati e fatti perdere, dice il santo,19 questa vana speranza. «Dinumerari non possunt, quantos haec inanis spei umbra deceperit». Povero chi s’abusa della pietà di Dio, per più oltraggiarlo!

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    Dice S. Bernardo20 che Lucifero perciò fu così presto castigato da Dio, perché si ribellò sperando di non riceverne castigo. Il re Manasse fu peccatore, poi si convertì, e Dio lo perdonò; Ammone suo figlio, vedendo il padre così facilmente perdonato, si diede alla mala vita colla speranza del perdono; ma per Ammone non vi fu misericordia. Perciò ancora dice S. Gio. Grisostomo21 che Giuda si perdé, perché peccò fidato alla benignità di Gesu-Cristo: «Fidit in lenitate magistri». In somma Dio, se sopporta, non sopporta sempre. Se fosse che Dio sempre sopportasse, niuno si dannerebbe; ma la sentenza più comune è che la maggior parte anche de’ cristiani (parlando degli adulti) si danna: «Lata porta et spatiosa via est, quae ducit ad perditionem, et multi intrant per eam» (Matth. 7. 13).

Chi offende Dio colla speranza del perdono, «irrisor est non poenitens», dice S. Agostino.22 Ma all’incontro dice S. Paolo che Dio non si fa burlare: «Deus non irridetur» (Galat. 6. 7).23 Sarebbe un burlare Dio seguire ad offenderlo, sempre che si vuole, e poi andare al paradiso. «Quae enim seminaverit homo, haec et metet» (Ibid. 8). Chi semina peccati, non ha ragione di sperare altro che castigo ed inferno. La rete con cui il demonio strascina all’inferno quasi tutti quei cristiani che si dannano, è quest’inganno, col quale loro dice: Peccate liberamente, perché con tutt’i peccati vi salverete. Ma Dio maledice chi pecca colla speranza del perdono. 24 «Maledictus homo

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    qui peccat in spe». La speranza del peccatore dopo il peccato, quando vi è pentimento, è cara a Dio, ma la speranza degli ostinati è l’abbominio di Dio: «Et spes illorum abominatio» (Iob. 11. 20). Una tale speranza irrita Dio a castigare, siccome irriterebbe il padrone quel servo chel’offendesse, perché il padrone è buono.

Affetti e preghiere
Ah mio Dio, eccomi io sono stato uno di costoro, che v’ho offeso, perché Voi eravate buono con me. Ah Signore, aspettatemi, non m’abbandonate ancora, ch’io spero colla vostra grazia non irritarvi più ad abbandonarmi. Mi pento, o bontà infinita, di avervi offeso e di aver così maltrattata la vostra pazienza. Vi ringrazio che mi avete aspettato sinora. Da ogg’innanzi non voglio tradirvi più, come ho fatto per lo passato. Voi mi avete tanto sopportato, acciocché mi vedeste un giorno fatto amante della vostra bontà. Ecco che questo giorno è già arrivato, come spero. Io v’amo sopra ogni cosa e stimo più la vostra grazia che tutti i regni del mondo: prima che perderla, son pronto a perdere mille volte la vita. Dio mio, per amore di Gesu-Cristo datemi Voi la santa perseveranza sino alla morte, col vostro santo amore. Non permettete ch’io vi torni a tradire e lasci d’amarvi.

Maria, Voi siete la speranza mia; ottenetemi questa perseveranza; e niente più vi dimando.

PUNTO II

Dirà taluno, Dio m’ha usate tante misericordie per lo passato, così spero che me l’userà per l’avvenire. Ma io rispondo: E perché t’ha usate tante misericordie, per questo lo vuoi tornare ad offendere? Dunque (ti dice S. Paolo) così tu disprezzi la bontà e la pazienza di Dio? Nol sai che ‘l Signore ti ha sopportato sinora; non già a fine che tu lo segui ad offendere, ma acciocché piangi il mal fatto? «An divitias

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    bonitatis eius, et patientiae contemnis? Ignoras, quoniam benignitas Dei ad poenitentiam te adducit?» (Rom. 2. 4). Quando tu fidato alla divina misericordia non vuoi finirla, la finirà il Signore. «Nisi conversi fueritis, arcum suum vibrabit» (Ps. 7).1 «Mea est ultio et ego retribuam in tempore» (Deut. 32. 35). Dio aspetta ma quando giunge il tempo della vendetta, non aspetta più e castiga.

«Propterea exspectat Dominus, ut misereatur vestri» (Is. 30. 18). Dio aspetta il peccatore, acciocché si emendi: ma quando vede che quegli del tempo, che gli è dato per piangere i peccati, se ne serve per accrescerli, allora chiama lo stesso tempo a giudicarlo. «Vocavit adversum me tempus» (Thren. 1. 15). S. Gregorio:2 «Ipsum tempus ad iudicandum vertit». Sicché lo stesso tempo dato, le stesse misericordie usate serviranno per farlo castigare con più rigore e più presto abbandonare. «Curavimus Babylonem, et non est sanata, derelinquamus eam» (Ier. 51. 9). E come Dio l’abbandona? O gli manda la morte, e lo fa morire in peccato; o pure lo priva delle grazie abbondanti, e lo lascia colla sola grazia sufficiente, colla quale il peccatore potrebbe sì bene salvarsi ma non si salverà. La mente accecata, il cuore indurito, il mal abito fatto renderanno la sua salvazione moralmente impossibile; e così resterà, se non assolutamente, almeno moralmente abbandonato. «Auferam sepem eius, et erit in direptionem» (Is. 5. 5). Oh che castigo! Che segno è, quando il padrone scassa la siepe, e permette che nella vigna v’entri chi vuole, uomini e bestie? è segno che l’abbandona. Così fa Dio, quando abbandona un’anima, le toglie la siepe del timore, del rimorso di coscienza, e la lascia nelle tenebre; ed allora entreranno in quell’anima tutti i mostri de’ vizi. «Posuisti tenebras, et facta est nox, in ipsa pertransibunt omnes bestiae silvae» (Ps. 103. 20). E ‘l peccatore abbandonato che sarà in quell’oscurità, disprezzerà tutto, grazia di Dio, paradiso, ammonizioni, scomuniche; si burlerà della stessa sua dannazione. «Impius, cum in profundum peccatorum venerit, contemnit» (Prov. 18. 3).

Dio lo lascerà3 in questa vita senza castigarlo, ma il non castigarlo

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    sarà il suo maggior castigo. «Misereamur impio, et non discet iustitiam» (Is. 26. 10). Dice S. Bernardo4 su questo testo: «Misericordiam hanc ego nolo; super omnem iram miseratio ista» (Sermo 42. in Cant.). Oh qual castigo è quando Dio lascia il peccatore in mano del suo peccato, e par che non gliene domandi più conto! «Secundum multitudinem irae suae non quaeret» (Ps. 9).5 E sembra che non sia con lui sdegnato. «Auferetur zelus meus a te, et quiescam, nec irascar amplius» (Ez. 16. 42). E par che lo lasci a conseguir tutto ciò che desidera in questa terra. «Et dimisi eos secundum desideria cordis eorum» (Ps. 80).6 Poveri peccatori, che in questa vita son prosperati! È segno che Dio aspetta a renderli vittime della sua giustizia nella vita eterna. Dimanda Geremia: «Quare via impiorum prosperatur?» (12.1).7 E poi risponde: «Congregas eos quasi gregem ad victoriam». Non v’è castigo maggiore, che quando Dio permette ad un peccatore che aggiunga peccati a peccati, secondo quel che dice Davide:8 «Appone iniquitatem super iniquitatem… deleantur de libro viventium» (Ps. 66. 28).9 Sul che dice il Bellarmino:10 «Nulla poena maior, quam cum peccatum est poena peccati». Meglio sarebbe stato per talun11 di quest’infelici, che il Signore l’avesse fatto morire dopo il primo peccato; perché, morendo appresso, avrà tanti inferni, quanti peccati ha commessi.

Affetti e preghiere
Mio Dio, in questo stato miserabile vedo già ch’ho meritato di star io, privo della vostra grazia e privo di luce; ma vedendo la luce che ora mi date, e sentendomi chiamare da Voi a penitenza, è segno che non mi avete abbandonato ancora. E giacché non mi avete abbandonato, via su, mio Signore, accrescete le vostre misericordie sopra l’anima mia, accrescete la luce, accrescetemi il desiderio di servirvi

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    e d’amarvi. Mutatemi, o Dio onnipotente, e da traditore e ribelleche sono stato, fatemi un grande amante della vostra bontà, acciocché un giorno io venga in cielo a lodare in eterno le vostre misericordie. Voi dunque volete perdonarmi, ed io altro non desidero che il perdono da Voi e ‘l vostro amore. Mi pento, o bontà infinita, di avervi dati tanti disgusti. V’amo, o sommo bene, perché me lo comandate; v’amo, perché ne siete ben degno. Deh, mio Redentore, per li meriti del vostro sangue fatevi amare da un peccatore, che Voi avete tanto amato, e con tanta pazienza per tanti anni sopportato. Io spero tutto dalla vostra pietà. Spero di amarvi sempre da oggi avanti sino alla morte ed in eterno. «Misericordias Domini in aeternum cantabo».12 Loderò per sempre la vostra pietà, Gesù mio.

E loderò per sempre la vostra misericordia, o Maria, che tante grazie mi ha impetrate: dalla vostra intercessione tutte le riconosco. Seguite, Signora mia, ora ad aiutarmi e ad ottenermi la santa perseveranza.

PUNTO III

Si narra nella vita del P. Luigi la Nusa1 che in Palermo v’erano2 due amici; andavano questi un giorno passeggiando, uno di costoro chiamato Cesare ch’era commediante, vedendo l’altro pensoso: Quanto va, gli disse, che tu sei andato a confessarti, e perciò ti sei inquietato? Senti (poi gli soggiunse), sappi che un giorno mi disse il Padre la Nusa che Dio mi dava 12 anni di vita, e che se io non mi emendava tra questo tempo, avrei fatta una mala morte. Io ho camminato per tante parti del mondo, ho avute infermità, specialmente una che mi ridusse all’ultimo, ma in questo mese in cui si compiscono i 12 anni mi sento meglio che in tutto il tempo della vita mia. Indi l’invitò di venire a sentire il sabato una nuova commedia da lui composta. Or che avvenne? nel sabato, che fu a’ 24 di novembre del 1668, mentre stava egli per uscire in iscena, gli venne una goccia, e morì di subito, spirando tra le braccia d’una donna anche commediante,

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    e così finì la commedia. Or veniamo a noi. Fratello mio, quando il demonio vi tenta a peccare di nuovo, se volete dannarvi, sta in arbitrio vostro il peccare, ma non dite allora, che volete salvarvi; mentre volete peccare, tenetevi per dannato, e figuratevi che allora Dio scriva la vostra condanna, e vi dica: «Quid ultra debui facere vineae meae, et non feci?» (Is. 5. 4). Ingrato, che più io dovea3 fare per te, e non ho fatto? Or via, giacché vuoi dannarti, sii dannato, è colpa tua.4
    Ma dirai: E la misericordia di Dio dov’è? Ahi misero, e non ti pare misericordia di Dio l’averti sopportato per tanti anni con tanti peccati? Tu dovresti startene sempre colla faccia a terra ringraziandolo e dicendo: «Misericordiae Domini, quia non sumus consumti» (Tren. 3).5 Tufacendo un solo peccato mortale, hai commesso un delitto più grande, che se ti avessi posto sotto i piedi il primo monarca della terra; tu n’hai commessi tanti, che se l’ingiurie ch’hai fatte a Dio, l’avessi fatte ad un tuo fratello carnale, neppure ti avrebbe sopportato; Dio non solo ti ha aspettato, ma ti ha chiamato tante volte, e ti ha invitato al perdono. «Quid ultra debui facere?» Se Dio avesse avuto bisogno di te, o se tu gli avessi fatto qualche gran favore, poteva egli usarti maggior pietà? Posto ciò, se tu di nuovo tornerai ad offenderlo, farai che tutta la sua pietà si muti in furore e castigo.

Se quella pianta di fico trovata dal padrone senza frutto, dopo l’anno concesso a coltivarla, neppure avesse renduto alcun frutto, chi mai avrebbe sperato che il Signore l’avesse dato più tempo e perdonato il taglio? Senti dunque ciò che ti avverte S. Agostino:6 «O arbor infructuosa, dilata est securis, noli esse secura, amputaberis». Il castigo (dice il santo) ti è stato differito, ma non già tolto, se più ti abuserai della divina misericordia, «amputaberis», finalmente ti taglierà. Che vuoi aspettare, che proprio Dio ti mandi all’inferno? Ma se ti ci manda, già lo sai che non vi sarà poi più rimedio per te. Il Signore tace, ma non tace sempre; quando giunge il tempo della vendetta, non tace più. «Haec fecisti, et tacui. Existimasti inique, quod ero tui similis? Arguam te, et statuam contra faciem tuam» (Ps. 49. 21).

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    Ti metterà avanti le misericordie che ti ha usate, e farà ch’elle7 stesse ti giudichino e ti condannino.

Affetti e preghiere
Ah mio Dio, povero me, se da oggi avanti non vi fossi fedele, e ritornassi a tradirvi dopo la luce che ora mi date! Questa luce è segno che volete perdonarmi. Mi pento, o sommo bene, di tutte l’ingiurie che v’ho fatte, per aver offeso Voi, bontà infinita. Spero al8 sangue vostro il perdono, e lo spero certo; ma se tornassi a voltarvi le spalle, vedo che meriterei un inferno a posta per me. E questo è quello che mi fa tremare, o Dio dell’anima mia: posso tornare a perdere la grazia vostra. Penso che tante volte v’ho promesso di esservi fedele, e poi di nuovo mi son ribellato da Voi. Ah Signore, non lo permettete: non mi abbandonate a questa gran disgrazia di vedermi di nuovo fatto vostro nemico. Mandatemi ogni castigo, ma non questo. «Ne permittas me separari a Te».9 Se mai vedete ch’io di nuovo avessi ad offendervi, fatemi prima morire. Mi contento d’ogni morte la più tormentosa, prima che di avere a piangere la miseria d’essere un’altra volta privo della grazia vostra. «Ne permittas me separari a Te». Lo replico, mio Dio, e fate ch’io sempre ve lo replichi: «Ne permittas me separari a Te». V’amo, Redentore mio caro, io non voglio più dividermi da Voi: per li meriti della vostra morte datemi un grande amore, che mi stringa con Voi talmente, ch’io non me ne possa più sciogliere.

O Maria Madre mia, s’io torno ad offendere Dio, temo che ancora Voi mi abbandoniate. Aiutatemi dunque colle vostre preghiere; ottenetemi la santa perseveranza e l’amore a Gesu-Cristo.

CONSIDERAZIONE XVIII – DEL NUMERO DE’ PECCATI

«Quia non profertur cito contra malos sententia, ideo filii hominum perpetrant mala» (Eccl. 8. 11).1
PUNTO I

Se Dio castigasse subito chi l’offende, non si vedrebbe certamenteingiuriato, come ora si vede; ma perché il Signore non castiga subito ed aspetta, perciò i peccatori pigliano animo a più offenderlo. Ma bisogna intendere che Dio aspetta e sopporta: ma non aspetta e non sopporta sempre. È sentenza di molti santi Padri, di S. Basilio, di S. Girolamo, di S. Ambrogio, di S. Cirillo Alessandrino, di S. Gio. Grisostomo, di S. Agostino e d’altri che siccome Iddio tiene determinato il numero per ciascun uomo de’ giorni di vita, de’ gradi di sanità, o di talento che vuol dargli: «Omnia in mensura, et numero, et pondere disposuisti» (Sap. 11. 21), così ancora tiene a ciascuno determinato il numero de’ peccati, che vuol perdonargli; compito il quale non perdona più. «Illud sentire nos convenit (dice S. Agostino)2 tandiu unumquenque a Dei patientia sustineri; quo consummato, nullam illi veniam reservari» (De vita christiana c. 3). Lo stesso dice Eusebio Cesariense:3 «Deus exspectat usque ad certum numerum, et postea deserit» (lib. 8. c. 2). E lo stesso dicono gli altri Padri nominati di sopra.

E questi Padri non han parlato a caso ma fondati sulle divine Scritture. In un luogo disse il Signore che trattenea la rovina4 degli

  • 168 –
    Amorrei, perché non era compito ancora il numero delle loro colpe: «Nondum completae sunt iniquitates Amorrhaeorum» (Gen. 15).5 In altro luogo disse: «Non addam ultra misereri Israel» (Is. 19).6 In altro «Tentaverunt me per decem vices, non videbunt terram» (Num. 14. 22). In altro dice Giobbe: «Signasti quasi in sacculo delicta mea» (Iob. 14. 17). I peccatori non tengono conto de’ peccati, ma ben lo tiene Dio per dare il castigo, quando è maturata la messe, cioè quando è compito il numero: «Mittite falces, quoniam maturavit messis» (Ioel. 3. 13). In altro luogo dice Dio: «De propitiato peccato noli esse sine metu; neque adiicias peccatum super peccatum» (Eccli. 5. 5). E vuol dire: Peccatore, bisogna che tu paventi anche de’ peccati che ti ho perdonati, perché, se ne aggiungi un altro, può essere che il peccato nuovo insieme coi perdonati compiscono7 il numero, ed allora non vi sarà più misericordia per te. In altro luogo più chiaramente dice la Scrittura: «Exspectat Deus patienter, ut cum iudicii dies advenerit, eas (Nationes), in plenitudine peccatorum puniat» (2. Macch. 6. 14).8 Sicché Dio aspetta sino al giorno, in cui si riempie9 la misura de’ peccati, e poi castiga.

Di tal castigo poi vi sono molti esempi nella Scrittura, e specialmente di Saulle, che avendo l’ultima volta disubbidito a Dio, Dio l’abbandonò, talmente ch’egli pregando Samuele che avesse interceduto per lui: «Porta quaeso peccatum meum, et revertere mecum, ut adorem Deum»; Samuele gli rispose: «Non revertar tecum, quia abiecisti sermonem Domini, et abiecit te Dominus» (1. Reg. 15. 25).10 Vi è l’esempio di Baltassarre,11 il quale stando a mensa profanò i vasi del tempio, ed allora vide una mano che scrisse sul muro: «Mane, Thecel, Phares». Venne Daniele, e spiegando quelle parole, tra l’altro12 gli disse: «Appensus es in statera, et inventus es minus habens» (Dan. 5. 27). Dandogli ad intendere che il peso de’ suoi peccati già avean fatto calar la bilancia della divina giustizia, ed in fatti nella stessa notte fu ucciso: «Eadem nocte interfectus est Baltassar rex Chaldaeus».13

  • 169 –
    Ed oh a quanti miserabili succede lo stesso, che vivono molti anni ne’ peccati, ma quando termina il loro numero son colti dalla morte e mandati all’inferno! «Ducunt in bonis dies suos, et in puncto ad inferna descendunt» (Iob. 21. 13). Taluni mettonsi ad indagare il numero delle stelle, il numero degli angeli, o degli anni di vita che avrà alcuno, ma chi mai può mettersi ad indagare il numero de’ peccati, che Dio voglia a ciascun perdonare? E perciò bisogna tremare. Chi sa, fratello mio, che a quella prima soddisfazione indegna, a quel primo pensiero acconsentito, a quel primo peccato che farete, Dio non vi perdoni più?

Affetti e preghiere
Ah mio Dio, vi ringrazio. Quanti per meno peccati de’ miei a quest’ora stan nell’inferno, e non vi è più perdono, né speranza per essi; ed io ho speranza del perdono e del paradiso, se lo voglio. Sì, Dio mio, voglio il perdono. Mi pento sopra ogni male di avervi offeso, perché ho offeso Voi bontà infinita. Eterno Padre «respice in faciem Christi tui»,14 guardate il vostro Figlio su quella croce morto per me, e per li meriti suoi abbiate pietà di me. Io vi prometto di voler prima morire, che offendervi più. Debbo giustamente temere, secondo i peccati che ho fatti, e le grazie che Voi mi avete usate, che un altro peccato che aggiungessi, compirebbe la misura, e sarei dannato! Deh aiutatemi colla vostra grazia. Da Voi spero la luce e la forza d’esservi fedele. E se mai vedete ch’io avessi di nuovo ad offendervi, fatemi morire in questo punto, in cui spero di stare in grazia vostra. Dio mio, io v’amo sopra ogni cosa, e temo più che la morte di vedermi di nuovo in disgrazia vostra; per pietà non lo permettete.

Maria Madre mia, per pietà aiutatemi, impetratemi la santa perseveranza.

PUNTO II

Dice quel peccatore: Ma Dio è di misericordia. Rispondo, e chi lo1 nega? La misericordia di Dio è infinita, ma con tutta questa misericordia,

  • 170 –
    quanti tutto dì si dannano? «Veni ut mederer contritis corde (Is. 61.1)».2 Dio sana chi tiene buona volontà. Egli perdona i peccati, ma nonpuò perdonare la volontà di peccare. Replicherà: Ma io son giovine. Sei giovine? ma Dio non conta gli anni, conta i peccati. E questa tassa de’ peccati non è eguale per tutti; ad alcuni Dio perdona cento peccati, ad un altro mille, ad un altro al secondo peccato lo manderà all’inferno. Quanti il Signore ce ne ha mandati al primo peccato? Narra S. Gregorio3 che un fanciullo di cinque anni, in dire una bestemmia, fu mandato all’inferno. Rivelò la SS. Vergine a quella serva di Dio Benedetta di Fiorenza4 che una fanciulla di 12 anni al primo peccato fu condannata. Un altro figliuolo di 8 anni anche al primo peccato morì e si dannò. Dicesi nel Vangelo di S. Matteo (cap. 21)5 che ‘l Signore la prima volta che trovò quell’albero di fico senza frutto, subito lo maledisse, «nunquam ex te nascatur fructus», e quello seccò. Un’altra volta disse: «Super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam eum» (Amos 1. 3). Forse alcun temerario vorrà chiedere ragione a Dio, perché ad uno vuol perdonare tre peccati, e quattro no? In ciò bisogna adorare i divini giudizi, e dire coll’Apostolo: «O altitudo divitiarum sapientiae et scientiae Dei; quam incomprehensibilia
  • 171 –
    sunt iudicia eius, et investigabiles viae eius!» (Rom. 11. 33). S. Agostino:6 «Novit ille cui parcat, et cui non parcat. Quibus datur misericordia, gratis datur, quibus non datur, ex iustitia non datur» (Lib. de corrept. cap. 5).

Replicherà l’ostinato: Ma io tante volte ho offeso Dio, e Dio m’ha perdonato; e così spero che mi perdoni quest’altro peccato. Ma io dico: E perché Dio non ti ha castigato sinora, avrà da essere sempre così? Si compirà la misura, e verrà il castigo. Sansone seguitando a trescare con Dalila, pure sperava di liberarsi dalle mani de’ Filistei, come avea fatto prima: «Egrediar sicut ante feci, et me excutiam» (Iudic. 16. 20). Ma in quell’ultima volta restò preso, e ci perdé la vita. «Ne dicas: peccavi, et quid accidit mihi triste?» Non dire, dice il Signore, ho fatti tanti peccati, e Dio non mai m’ha7 castigato. «Altissimus enim est patiens redditor» (Eccli. 5. 4).Viene a dire, che verrà8 una e pagherà tutto. E quanto maggiore sarà stata la misericordia, tanto più grave sarà il castigo. Dice il Grisostomo9 che più dee temersi, quando Dio sopporta l’ostinato, che quando subito lo punisce: «Plus timendum est cum tolerat, quam cum festinanter punit». Perché (come scrive S. Gregorio)10 coloro che Dio aspetta con più pazienza, più rigorosamente poi punisce, se restano ingrati! «Quos diutius exspectat, durius damnat». E spesso, soggiunge il santo,11 che quelli12 che molto

  • 172 –
    tempo sono stati sopportati, improvvisamente poi muoiono senz’aver tempo di convertirsi: «Saepe qui diu tolerati sunt, subita morte rapiuntur, ut nec flere ante mortem licet». Specialmente quando più grande sarà stata la luce che Dio ti ha data, tanto maggiore sarà la tua accecazione ed ostinazione nel peccato. «Melius enim erat illis» (disse S. Pietro) «non cognoscere viam iustitiae quam post agnitionem retrorsum converti» (2. Petr. 2. 21). E S. Paolo disse essere impossibile (moralmente parlando) che un’anima illuminata, peccando di nuovo si converta: «Impossibile enim est eos, qui semel illuminati sunt, et gustaverunt donum coeleste… et prolapsi sunt, rursus renovari ad poenitentiam» (Hebr. 6. 4).

È terribile quel che dice il Signore contra i sordi alle sue chiamate: «Quia vocavi, et renuistis… Ego quoque in interitu vestro ridebo, et subsannabo vos» (Prov. 1. 24).13 Si notino quelle due parole «Ego quoque»: significano che siccome quel peccatore ha burlato Dio, confessandosi, promettendo e poi sempre tradendolo; così il Signore si burlerà di lui nella sua morte. In oltre dice il Savio: «Sicut canis qui revertitur ad vomitum suum, sic imprudens qui iterat stultitiam suam» (Prov. 26. 11). Spiega questo testo Dionisio Cartusiano,14 e dice che come si rende abbominevole e schifoso quel cane, che si ciba di ciò che prima ha vomitato; così rendesi odioso a Dio, chi ritorna a commettere i peccati che ha detestati nella confessione: «Sicut id quod per vomitum est reiectum resumere, est valde abominabile ac turpe, sic peccata deleta reiterare».

Affetti e preghiere
Eccomi, mio Dio15 a’ piedi vostri, io son quel cane schifoso, che tante volte ho tornato a cibarmi di quei pomi vietati, che prima ho detestati. Io non merito pietà, o mio Redentore; ma il sangue che avete sparso per me, mi anima e mi obbliga a sperarla. Quante volte vi ho offeso, e Voi mi avete perdonato! Vi ho promesso di non offendervi più, e poi16 son ritornato al vomito, e Voi avete ritornato a

  • 173 –
    perdonarmi. Che aspetto, che proprio mi mandiate all’inferno? O mi abbandoniate in mano del mio peccato, che sarebbe maggior castigo dell’inferno? No, mio Dio, voglio emendarmi, e per esservi fedele voglio mettere tutta la mia confidenza in Voi; voglio, quando sarò tentato, subito e sempre ricorrere a Voi. Per lo passato mi son fidato delle mie promesse e de’ miei propositi, ed ho trascurato di raccomandarmi a Voi nelle tentazioni; e questa è stata la mia ruina. No, da oggi innanzi Voi avete da essere la speranza e la fortezza mia, e così potrò tutto: «Omnia possum in eo qui me confortat».17 Datemi dunque la grazia per li meriti vostri, o Gesù mio, di raccomandarmi sempre a Voi, e di cercarvi18 aiuto ne’ miei bisogni. V’amo, o sommo bene, amabile sopra ogni bene; e solo Voi voglio amare; ma Voi mi avete da aiutare.

E Voi ancora mi avete da soccorrere colla vostra intercessione, o Maria Madre mia; tenetemi sotto il vostro manto e fate ch’io sempre vi chiami, quando sarò tentato. Il nome vostro sarà la difesa mia.

PUNTO III

«Fili, peccasti? Non adiicias iterum, sed de pristinis deprecare, ut tibi dimittantur» (Eccli. 21. 1). Ecco quel che ti avverte, cristiano mio, il tuo buon Signore, perché ti vuol salvo: Figlio, non tornare ad offendermi, ma d’oggi innanzi1 attendi a chiedere il perdono de’ peccati fatti. Fratello mio, quanto più hai offeso Dio, tanto più dei tremare di non offenderlo più, perché un altro peccato che commetterai, farà calar la bilancia della divina giustizia, e sarai dannato. Io non dico assolutamente, che dopo un altro peccato per te non vi sarà più perdono, perché questo nol so, ma dico che può succedere. Onde quando sarete tentato, dite: E chi sa se Dio non mi perdona più, e resto dannato? Ditemi di grazia, se fosse probabile che in un cibo vi fosse il veleno, lo prendereste voi? Se probabilmente credeste che in quella via vi fossero i vostri nemici per torvi la vita, vi passereste voi, avendo un’altra via sicura? E così qual sicurezza, anzi qual probabilità avete voi che tornando a peccare, appresso ne avrete vero

  • 174 –
    dolore e non tornerete più al vomito? e che peccando, Dio non vi faccia morire nello stesso atto del peccato, o che dopo quello non vi abbandoni?

Oh Dio, se voi comprate una casa, voi fate già tutta la diligenza per assicurar la cautela e non buttare2 il vostro danaro. Se prendete una medicina, cercate di bene assicurarvi che quella non vi possa nuocere. Se passate un torrente, cercate di assicurarvi di non cadervi dentro. E poi per una misera soddisfazione, per un diletto di bestia, volete arrischiare la salute eterna, con dire: Spero di confessarmelo? Ma io vi domando: Quando ve lo confesserete? Domenica. E chi vi promette d’esser vivo sino a Domenica? Domani. E chi vi promette questo domani? Dice S. Agostino:3 «Diem tenes, qui horam non tenes?» Come potete promettervi di confessarvi domani, quando non sapete di avere neppure un’altra ora di vita? «Qui poenitenti veniam spopondit, (siegue a dire il santo),4 peccanti diem crastinum non promisit; fortasse dabit, fortasse non dabit». Dio ha promesso il perdono a chi si pente, ma non ha promesso il domani a chi l’offende. Se ora peccate, forse Dio vi darà tempo di penitenza, e forse no; e se non ve lo dà, che ne sarà di voi per tutta l’eternità? Frattanto voi per un misero gusto già perdete l’anima e la mettete a rischio di restar perduta in eterno. Mettereste voi a rischio mille docati5 per quella vil soddisfazione? Dico più: fareste voi per quel breve gusto un vada tutto, danari, casa, poderi, libertà e vita? No? e poi come per quel misero piacere, volete in un punto far già perdita di tutto, dell’anima, del

  • 175 –
    paradiso e di Dio? Ditemi: Son verità queste cose che insegna la fede, o son favole, che vi sia paradiso, inferno, eternità? Credete voi che se vi coglie la morte in peccato, sarete perduto per sempre? E che temerità, che pazzia condannarvi già da voi stesso ad un’eternità di pene, con dire: Spero appresso di rimediarvi? «Nemo sub spe salutis vult aegrotare», dice S. Agostino.6 Non si trova pazzo, che si pigli il veleno con dire, può essere che poi con rimedi mi guarisca; e voi volete condannarvi ad una morte eterna, con dire: Può essere che appresso me ne liberi? Oh pazzia che n’ha portato e ne porta tante anime all’inferno! Secondo già la minaccia del Signore: «Fiduciam habuisti in malitia tua, veniet super te malum, et nescies ortum eius» (Is. 48. 10).7 Hai peccato fidando temerariamente alla divina8 misericordia, verrà improvvisamente su di te il castigo, senza saper donde viene.

Affetti e preghiere
Ecco, Signore, uno di questi pazzi, che tante volte ha perduta l’anima e la grazia vostra, colla speranza appresso di ricuperarla. E se Voi mi aveste fatto morire in quel punto, o in quelle notti, nelle quali io stava in peccato, che ne sarebbe di me? Ringrazio la vostra misericordia, che mi ha aspettato, ed ora mi fa conoscere la mia pazzia. Vedo che Voi mi volete salvo, ed io mi voglio salvare. Mi pento, o bontà infinita, di avervi tante volte voltate le spalle, e v’amo con tutto il cuore. E spero a’9 meriti della vostra passione o Gesù mio, di non esser più pazzo. Perdonatemi presto, e ricevetemi nella vostra grazia, ch’io non voglio lasciarvi più. «In te, Domine, speravi, non confundar in aeternum».10 Ah no, spero, o mio Redentore di non aver più a patir

  • 176 –
    la disgrazia e la confusione di vedermi in avvenire privo della grazia e del vostro amore. Concedetemi Voi la santa perseveranza, e fate ch’io sempre ve la domandi, specialmente quando sarò tentato, con chiamare in aiuto il santo nome vostro e della vostra S. Madre, dicendo: Gesù mio, aiutatemi; Maria mia, aiutatemi.

Sì, Regina mia, che ricorrendo a Voi, non sarò mai vinto. E se persiste la tentazione, ottenetemi ch’io non lasci di persistere ad invocarvi.

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PUNTO I

Dice il Signore: «Si separaveris pretiosum a vili, quasi os meum eris» (Ier. 15. 19). Chi sa segregare le cose preziose dalle vili, si rende simile a Dio, che sa riprovare il male ed eleggere il bene. Vediamo che bene sia la grazia e che male sia la disgrazia di Dio. Non intendono gli uomini il valore della divina grazia. «Nescit homo pretium eius».1 E perciò la cambiano per niente, per un fumo, per un poco di terra, per un diletto di bestia;2 ma ella è un tesoro infinito, che ci rende degni dell’amicizia di Dio. «Infinitus enim thesaurus est hominibus, quo qui usi sunt, participes facti sunt amicitiae Dei» (Sap. 7. 14). Sicché un’anima in grazia ella è amica di Dio. I gentili ch’eran privi della luce della fede, stimavano impossibile che la creatura potesse tenere amicizia con Dio; e parlando secondo il lume naturale, giustamente il diceano, perché l’amicizia (come dice S. Girolamo)3 rende gli amici eguali: «Amicitia pares aut accipit, aut facit». Ma Iddio ci ha dichiarato in più luoghi che noi per mezzo della sua grazia diventiamo suoi amici per l’osservanza della sua legge: «Vos amici mei estis, si feceritis quae praecipio vobis» (Io. 15. 14). «Iam non dicam vos servos… vos autem dixi amicos» (Ibid. 15). Onde esclama S. Gregorio:4 O bontà di Dio! non meritiamo noi d’esser chiamati neppure suoi servi, ed egli si degna di chiamarci amici: «Oh mira divinae bonitatis dignatio! Servi non sumus digni nominari, et amici vocamur».

  • 178 –
    Come si stimerebbe fortunato chi avesse la sorte di aver per amico il suo re! Ma questa sarebbe temerità d’un vassallo pretendere di fare amicizia col suo principe. Ma non è temerità il pretendere un’anima di esser amica del suo Dio. Narra S. Agostino5 che ritrovandosi due cortigiani in un monistero6 di solitari, prese uno a leggere ivi la vita di S. Antonio Abate. «Legebat (scrive il santo) et exuebatur mundo cor eius». Leggeva, e leggendo il suo cuore si andava staccando dagli affetti del mondo. Indi rivolto al compagno gli parlò così: «Quid quaerimus? Maior ne esse potest spes nostra, quam quod amici imperatoris simus? Et per quot pericula ad maius periculum pervenitur? et quandiu hoc erit?» Amico, gli disse, pazzi che andiamo noi cercando? possiamo noi sperare più con servir l’imperadore, che di diventare suoi amici? e se a tanto giungessimo, ci porressimo7 a maggior pericolo della salute eterna. Ma no, che difficilmente arriveremo mai ad aver per amico Cesare. «Amicus autem Dei (così concluse) si voluero, ecce nunc fio». Ma s’io voglio, disse, essere8 amico di Dio, ora posso diventarlo.

Chi dunque sta in grazia di Dio, diventa amico di Dio. Di più diventa figlio: «Ecce Dii estis, et filii Excelsi omnes» (Ps. 3. 6).9 Questa è la gran sorte, che ci ha ottenuta l’amor divino per mezzo di Gesu-Cristo.

  • 179 –
    «Videte qualem caritatem dedit nobis Pater, ut filii Dei nominemur, et simus» (Io. 3. 1).10 Di più l’anima in grazia diventa sposa di Dio: «Sponsabo te mihi in fide» (Os. 2. 20). E perciò il padre del figlio prodigo, ricevendolo nella sua grazia, ordinò che gli fosse dato l’anello in segno dello sposalizio:11 «Date annulum in manum eius» (Luca 15. 22). Dico di più,12 diventa tempio dello Spirito Santo. Suor Maria Dognes13 vide uscire un demonio da un bambino che ricevé il battesimo, ed entrarvi lo Spirito Santo con una corona d’angeli.

Affetti e preghiere
Dunque mio Dio, l’anima mia, allorché felice stava in grazia vostra, ella era vostra amica e figlia,14 sposa e tempio, ma poi peccando tutto perdé, e diventò vostra nemica e schiava dell’inferno. Ma vi ringrazio che ancora mi date tempo di ricuperare la vostra grazia, o mio Dio. Mi pento sopra ogni male di avervi offeso, o bontà infinita. E v’amo sopra ogni cosa. Deh ricevetemi di nuovo nella vostra amicizia. Per pietà non mi sdegnate. So bene che meriterei d’esser da Voi discacciato, ma merita Gesu-Cristo che Voi di nuovo mi riceviate pentito, per amore del sacrificio, ch’egli vi fece di se stesso sul Calvario. «Adveniat regnum tuum».15 Padre mio, (così mi ha insegnato il vostro Figlio a chiamarvi): Padre mio, venite colla vostra grazia a regnar nel mio cuore; fate ch’egli a Voi solo serva, per Voi solo viva, Voi solo ami. «Et ne nos inducas in tentationem». Deh non permettete a’ nemici che m’abbiano a tentare in modo ch’io resti da essi vinto. «Sed libera nos a malo». Liberatemi dall’inferno, ma prima liberatemi dal peccato, che solo può condurmi all’inferno.

O Maria, pregate per me, e liberatemi da questo gran male ch’io abbia a vedermi in peccato, e privo della grazia del vostro e mio Dio.

PUNTO II

Dice S. Tommaso d’Aquino1 che il dono della grazia eccede ogni dono che può ricevere una creatura, mentre la grazia è una partecipazione della stessa natura di Dio. «Donum gratiae excedit omnem facultatem naturae creatae, cum sit participatio divinae naturae». E prima già lo disse S. Pietro: «Ut per haec efficiamini divinae consortes naturae» (II. Petr. 1. 4). Tanto ci ha meritato Gesu-Cristo colla sua passione: Egli ci ha comunicato lo stesso splendore che ha ricevuto da Dio. «Et ego claritatem, quam dedisti mihi, dedi eis» (Io. 17. 22). In somma chi sta in grazia di Dio, si fa una cosa con Dio: «Qui adhaeret Domino, unus spiritus est» (1. Cor. 6. 17). E disse il Redentore che in un’anima che ama Dio, viene ad abitarvi tutta la SS. Trinità: «Si quis diligit me, Pater meus diliget eum… et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus» (Io. 14. 23).

È così bella agli occhi di Dio un’anima in grazia che Dio stesso la loda: «Quam pulchra es, amica mea! quam pulchra es!» (Cant. 4. 1). Il Signore da un’anima che l’ama par che non sappia partire gli occhi né l’orecchie per tutto ciò che gli domanda.2 «Oculi Domini super iustos, et aures eius in preces eorum» (Ps. 33. 16). Dicea S. Brigida3 che non si potrebbe vedere da un uomo la bellezza d’un’anima in grazia di Dio, senza morire per lo gaudio. E S. Caterina da Siena,4 vedendo già un’anima in grazia, disse ch’ella volentieri avrebbe data la vita, acciocché quell’anima5 non avesse perduta una tanta bellezza;

  • 181 –
    e perciò la santa baciava la terra per dove passavano i sacerdoti, pensando che per mezzo loro l’anime si rimettono in grazia di Dio.

Quanti acquisti poi di meriti può fare un’anima in grazia! In ogni momento ella può acquistare una gloria eterna. Dice S. Tommaso6 che ogni atto d’amore fatto da un’anima merita un paradiso a parte: «Quilibet actus caritatis meretur vitam aeternam». Che stiamo dunque noi ad invidiare i grandi del mondo? se stiamo in grazia di Dio, possiamo continuamente acquistare grandezze assai maggiori in cielo. Un certo fratello coadiutore della Compagnia di Gesù, come scrive il P. Patrignani7 ne’ suoi Menologi, comparve dopo morte, e disse ch’egli era salvo insieme con Filippo II re di Spagna; e che amendue8 godeano già la gloria, ma che quanto minore egli era stato in terra di Filippo, tanto maggiore era in paradiso. In oltre, solamente chi la prova, può intender la pace che gode anche in questa terra un’anima che sta in grazia di Dio. «Gustate, et videte, quam suavis est Dominus» (Ps. 33).9 Non possono venir meno le parole del Signore: «Pax multa diligentibus legem tuam» (Ps. 118. 165). La pace di chi sta unito con Dio avanza tutti i piaceri, che può dare il senso e ‘l mondo. «Pax Dei, quae exsuperat omnem sensum» (Philipp. 4. 7).

Affetti e preghiere
O Gesù mio, Voi siete quel buon pastore, che vi siete lasciato uccidere per dar la vita a noi vostre pecorelle. Quand’io fuggiva da Voi, non avete lasciato Voi di venirmi appresso cercandomi; ricevetemi ora ch’io cerco Voi, e pentito ritorno a’ piedi vostri. Donatemi di nuovo la vostra grazia, ch’io miseramente ho perduta per colpa mia. Io me ne pento con tutto il cuore, vorrei morirne di dolore,

  • 182 –
    pensando di avervi voltate tante volte le spalle. Perdonatemi per li meriti di quella morte amara, che faceste per me sulla croce. Ligatemi10 colle dolci catene del vostro amore, e non permettete ch’io fugga più11 da Voi. Datemi forza di soffrir12 con pazienza tutte le croci che mi mandate, giacché io mi ho meritate le pene eterne dell’inferno. Fate ch’io abbracci con amore i disprezzi che riceverò dagli uomini, giacché ho meritato di star sotto i piedi de’ demoni eternamente. Fate in somma ch’io ubbidisca in tutto alle vostre ispirazioni, e vinca tutti i rispetti umani per amor vostro. Io son risoluto da ogg’innanzi di voler servire solamente a Voi; dicano gli altri quel che vogliono, io voglio amare solamente Voi, o mio Dio amabilissimo. Solo a Voi voglio piacere; ma Voi datemi il vostro aiuto, senza cui non posso niente. V’amo, Gesù mio, con tutto il cuore, e confido al13 vostro sangue.

Maria speranza mia, aiutatemi colle vostre preghiere. Io mi glorio d’esser vostro servo; e Voi vi gloriate di salvare i peccatori, che a Voi ricorrono; soccorretemi e salvatemi.

PUNTO III

Vediamo ora la miseria d’un’anima, che sta in disgrazia di Dio. Ella è separata dal suo sommo bene ch’è Dio. «Peccata vestra diviserunt inter vos, et Deum vestrum» (Is. 59. 2).1 Sicché ella2 non è più di Dio, e Dio non è più suo: «Vos non populus meus, et ego non ero vester» (Ose. 1. 9). Non solamente non è più suo, ma l’odia e la condanna all’inferno. Non odia il Signore alcuna sua creatura, neppure le fiere, le vipere, i rospi: «Diligis omnia quae fecisti, et nihil odisti eorum quae fecisti» (Sap. 11. 25).Ma non può lasciar Iddio di odiare i peccatori. «Odisti omnes qui operantur iniquitatem» (Ps. 5. 7). Sì, perché Dio non può non odiare il peccato, ch’è quel nemico tutto contrario alla sua volontà; e perciò odiando il peccato dee necessariamente odiare anche il peccatore, che sta unito col peccato. «Similiter autem odio sunt Deo impius, et impietas eius» (Sap. 14. 9).

  • 183 –
    Oh Dio, se alcuno ha per nemico un principe della terra, non può mai prender sonno quieto, temendo giustamente ad ogni momento la morte. E chi ha per nemico Dio, come può aver pace? Può taluno sfuggire l’ira del principe con nascondersi in una selva, o con andar lontano in altro regno: ma chi può sfuggire le mani di Dio? Signore (dicea Davide),3 se io salirò in cielo, se mi nasconderò nell’inferno, dovunque vado, la vostra mano può arrivarmi: «Si ascendero in coelum, tu illic es, si descendero in infernum, ades. Etenim illuc manus tua deducet me» (Ps.4 138. 8).5
    Poveri peccatori! essi son maledetti da Dio, maledetti dagli angeli, maledetti da’ Santi, maledetti anche in terra in ogni giorno da tutti i sacerdoti e religiosi, che ne pubblicano la maledizione in recitare l’officio divino: «Maledicti qui declinant a mandatis tuis».6 In oltre la disgrazia di Dio importa la perdita di tutti i meriti. Abbia meritato un uomo quanto un S. Paolo Eremita che visse 98 anni in una grotta, quanto un S. Francesco Saverio, che guadagnò a Dio dieci milioni d’anime; quanto un S. Paolo apostolo, che guadagnò più meriti (come dice S. Girolamo),7 che tutti gli altri apostoli, se costui commette un solo peccato mortale, perde tutto. «Omnes iustitiae eius, quas fecerat, non recordabuntur» (Ez. 18).8 Ed ecco la ruina che porta la disgrazia di Dio, da figlio di Dio lo fa diventare schiavo di Lucifero, da amico diletto lo fa diventare nemico sommamente odiato, da erede del paradiso lo fa diventare un condannato dell’inferno. Dicea S. Francesco di Sales9 che se gli angeli potessero piangere, in veder la miseria d’un’anima10 che commette un peccato mortale e perde la divina grazia, gli angeli si metterebbero a piangere per compassione.

Ma la maggior miseria è che gli angeli piangerebbero, se fossero capaci di piangere, e ‘l peccatore non piange. Dice S. Agostino:11 Perde

  • 184 –
    colui una bestiuola, una pecorella, non mangia, non dorme12 e piange; perderà poi la grazia di Dio, e mangia, dorme e non piange.

Affetti e preghiere
Ecco lo stato miserabile, in cui io mi son ridotto, o mio Redentore. Voi per farmi degno della vostra grazia, avete speso 33 anni di sudori e di pene, ed io per un momento di gusto avvelenato l’ho disprezzata e perduta per niente. Ringrazio la vostra pietà, che ancora mi dà tempo di ricuperarla, se voglio. Sì, voglio far quanto posso per riaverla. Ditemi che ho da fare per ricevere da Voi il perdono. Volete ch’io mi penta? Sì, Gesù mio, mi pento con tutto il cuore di avere offesa la vostra bontà infinita. Volete ch’io v’ami?13 Io v’amo sopra ogni cosa. Per lo passato ho troppo male impiegato il mio cuore ad amare le creature e le vanità. Da oggi avanti voglio vivere solo a Voi, voglio amare solo Voi, mio Dio, mio tesoro, mia speranza e mia fortezza. «Diligam te, Deus, fortitudo mea».14 I meriti vostri, le piaghe vostre, o Gesù mio, hanno da essere la speranza, la fortezza15 mia. Da Voi spero la forza d’esservi fedele. Ricevetemi dunque nella vostra grazia, o mio Salvatore, e non permettete ch’io vi lasci più. Staccatemi dagli affetti mondani, ed infiammatemi il cuore del vostro santo amore. «Tui amoris in eo ignem accende».16
Maria madre mia, fatemi ardere di amore verso Dio, come sempre ardeste Voi.

CONSIDERAZIONE XX – PAZZIA DEL PECCATORE

«Sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum» (1. Cor. 3. 19).

PUNTO I

Il venerabile Giovanni d’Avila1 avrebbe voluto dividere il mondo in due carceri, una per coloro che non ci credono e l’altra per coloro che ci credono, e vivono in peccato lontano2 da Dio; a costoro dicea che toccava il carcere3 de’ pazzi. Ma la maggior miseria e disgrazia di questi miserabili si è ch’essi tengonsi per savi e prudenti, e sono i più sciocchi e stolti del mondo. E ‘l peggio si è che il numero di costoro è innumerabile. «Et stultorum infinitus est numerus» (Eccl. 1. 15). Chi impazzisce per gli onori, chi impazzisce per gli piaceri, chi per le carogne di questa terra. E costoro poi ardiscono di chiamar pazzi i santi, che disprezzano questi beni del mondo, per acquistarsi la salute eterna e ‘l vero bene ch’è Dio. Chiamano pazzia l’abbracciare i disprezzi e perdonare l’ingiurie, pazzia il privarsi de’ piaceri di senso e abbracciare le mortificazioni; pazzia rinunziare4 gli onori e le ricchezze, l’amare la solitudine, e la vita umile e nascosta. Ma non avvertono che la loro sapienza, è chiamata pazzia dal Signore: «Sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum» (1. Cor. 3. 19).

  • 188 –
    Ah che un giorno ben confesseranno questa loro pazzia, ma quando? quando non vi sarà più rimedio; e diranno disperati: «Nos insensati vitam illorum aestimabamus insaniam, et finem illorum sine honore» (Sap. 5. 4). Ah miseri che siamo stati, noi stimavamo pazzia la vita de’ santi, ma ora conosciamo che noi siamo stati i pazzi. «Ecce quomodo inter filios Dei computati sunt, et inter sanctos sors illorum est» (Ibid. 5).Ecco com’essi son già collocati tra ‘l numero felice de’ figli di Dio, ed han fatta tra’ santi la loro fortuna, che sarà fortuna eterna, e li renderà per sempre beati; e noi siam restati nel numero degli schiavi del demonio, condannati ad ardere in questa fossa di tormenti per tutta l’eternità. «Ergo erravimus (così concluderanno il loro pianto) a via veritatis, et iustitiae lumen non luxit nobis» (Ib. 6). Quindi l’abbiamo sgarrata per aver voluto chiudere gli occhi alla divina luce, e quello che più ci renderà infelici è che al nostro errore non vi è, né vi sarà più rimedio, mentre Dio sarà Dio.

Qual pazzia dunque per un vile interesse, per un poco di fumo, per un breve diletto perdere la grazia di Dio! Che non fa un vassallo per guadagnarsi la grazia del suo principe! Oh Dio per una misera soddisfazione perdere il sommo bene, ch’è Dio! perdere il paradiso! perdere anche la pace in questa vita, facendo entrar nell’anima il peccato, che co’ suoi rimorsi sempre la tormenterà! e condannarsi volontariamente ad una miseria eterna! Ti prenderesti quel gusto illecito, se per quello ti toccasse poi ad esserti bruciata una mano? o pure a star chiuso un anno dentro una sepoltura? Faresti quel peccato, se dopo quello dovessi perdere cento scudi? E poi credi, e sai che peccando perdi il paradiso e Dio, e sei per sempre5 condannato al fuoco, e pecchi?

Affetti e preghiere
O Dio dell’anima mia, che sarebbe di me a quest’ora, se Voi non mi aveste usate tante misericordie? Starei all’inferno, al luogo de’ pazzi come sono stato io. Vi ringrazio, Signore, e vi prego a non abbandonarmi nella mia cecità. Io meritava di restare abbandonato dalla vostra luce, ma vedo che la vostra grazia non mi ha abbandonato ancora. Sento che con tenerezza mi chiama, e m’invita a cercarvi6 perdono, ed a sperare da Voi gran cose, non ostante le grandi offese

  • 189 –
    che vi ho fatte. Sì, mio Salvatore, spero da Voi di esser accettato per figlio. Non son degno d’esser neppure così chiamato, perché vi ho ingiuriato tante volte in faccia. «Pater, non sum dignus vocari filius tuus; peccavi in coelum, et coram te».7 Ma sento che Voi andate cercando le pecorelle smarrite, e vi consolate in abbracciare i figli perduti. Padre mio caro, mi pento di avervi offeso, mi butto, e mi abbraccio a’ piedi vostri, e non mi partirò, se non mi perdonate e mi benedite. «Non dimittam te, nisi benedixeris mihi».8 Beneditemi, Padre mio, e la vostra benedizione sia il darmi un gran dolore de’ miei peccati e un grande amore verso di Voi. V’amo, Padre mio, v’amo con tutto il cuore. Non permettete ch’io mi parta più da Voi. Privatemi di tutto, e non mi private del vostro amore.

O Maria, se Dio è il mio Padre, Voi siete la Madre mia. Beneditemi ancora Voi. Non merito d’esser figlio;9 accettatemi per vostro servo; ma fate ch’io sia un servo, che teneramente v’ami sempre, e sempre confidi nella vostra protezione.

PUNTO II

Poveri peccatori! faticano, stentano per acquistare le scienze mondane, o l’arte di guadagnare i beni di questa vita, che tra breve han1 da finire; trascurano poi i beni di quella vita, che non finisce mai! Perdono talmente il senno, che diventano non solo pazzi ma bruti; poiché vivendo da bruti, non considerano ciò ch’è bene e ciò ch’è male; ma solamente seguitano gl’istinti bestiali del senso, in abbracciare quel che al presente piace alla carne, senza pensare a quel che perdono ed alla ruina eterna che si tirano sopra. Ma questo non è operare da uomo, ma da bestia. Dice S. Gio. Grisostomo:2 «Hominem illum dicimus, qui imaginem hominis salvam retinet; quae autem est imago hominis? rationalem esse». L’esser uomo è l’esser ragionevole,

  • 190 –
    cioè operare secondo la ragione, non secondo l’appetito del senso. Se Dio desse ad una bestia l’uso di ragione, e quella secondo la ragione operasse, direbbesi che opera da uomo; così all’incontro, quando l’uomo opera secondo il senso contro la ragione, dee dirsi che l’uomo opera da bestia.

«Utinam saperent, et intelligerent, et novissima providerent» (Deut.32. 29). Chi opera da prudente secondo la ragione, prevede il futuro, cioè quello che dee succedergli nel fine della vita, la morte, il giudizio, e dopo questo l’inferno o il paradiso. Oh quanto è più savio un villano che si salva, che un monarca, che si danna! «Melior est puer pauper, et sapiens rege sene et stulto, nesciente praevidere in posterum» (Eccl. 4. 13).3 Oh Dio non si stimerebbe da tutti pazzo chi per guadagnare al presente un giulio, si mettesse a rischio di perdere tutt’i suoi beni? E chi per una breve soddisfazione perde l’anima, o si mette a rischio di perderla per sempre, non avrà da stimarsi pazzo? Questa è la ruina di tante anime, che si dannano, il badare solamente a’ beni e mali presenti, e non badare a’ beni e mali eterni.

Dio non ci ha posti certamente in questa terra per farci ricchi, acquistarci onori, o per4 contentare i nostri sensi, ma per guadagnarci la vita eterna. «Finem vero vitam aeternam» (Rom. 6. 22). E ‘l conseguir questo fine, solamente a noi dee importare. «Porro unum est necessarium» (Luc. 10. 42). Ma questo fine è quel che più disprezzano i peccatori; pensano solo al presente, camminano alla morte, s’accostano ad entrare nell’eternità, e non sanno dove vanno. Che diresti5 d’un nocchiero, dice S. Agostino,6 che dimandato dove va, rispondesse che non lo sa? ognun direbbe che costui porta la nave a perdersi: «Fac hominem perdidisse quo tendit, et dicatur ei: Quo is et dicat, nescio. Nonne iste navem ad naufragium perducet? Talis est (poi conclude il santo) qui currit praeter viam». Tali sono quei

  • 191 –
    savi del mondo che san far guadagni, prendersi gli spassi, conseguire i posti, ma non sanno salvarsi l’anima. Fu savio l’epulone in farsi ricco, ma «mortuus est, et sepultus in inferno».7 Fu savio Alessandro Magno in acquistar tanti regni, ma tra pochi anni morì e si dannò in eterno. Fu savio Arrigo VIII,8 in sapersi mantenere nel trono con ribellarsi dalla Chiesa, ma all’ultimo egli stesso vedendo che già perdea l’anima, confessò: «Perdidimus omnia». Quanti miserabili ora piangono, e gridano nell’inferno: «Quid profuit nobis superbia, aut divitiarum iactantia? transierunt omnia illa tanquam umbra» (Sap. 5. 9).9 Ecco, dicono, che per noi tutti i beni del mondo son passati come un’ombra, ed altro non ci è restato che un pianto ed una pena eterna.

«Ante hominem vita, et mors, quod placuerit ei, dabitur illi» (Eccli. 15. 18). Cristiano mio, in questa vita ti è posta avanti la vita e la morte, cioè il privarti de’ gusti vietati con guadagnarti la vita eterna, o il prenderli colla morte eterna. Che dici? che scegli? Scegli da uomo, e non da bestia. Scegli da cristiano, che ha fede e dice: «Quid prodest homini, si mundum universum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur?»10
Affetti e preghiere
Ah mio Dio, Voi mi avete data la ragione, mi avete donata la luce della fede, ed io per lo passato ho operato da bruto, perdendo la grazia vostra per li miseri gusti de’ miei sensi, che son passati come un vento; ed altro non me ne ritrovo che rimorsi di coscienza e conti colla vostra divina giustizia. «Non intres in iudicium cum servo tuo».11 Ah Signore, non vi mettete a giudicarmi secondo i meriti miei, ma trattatemi secondo la vostra misericordia. Datemi luce. Datemi dolore delle offese che vi ho fatte, e perdonatemi. «Erravi sicut ovis quae periit, quaere servum tuum».12 Io son pecorella perduta; se Voi non

  • 192 –
    mi cercate, resterò perduta. Abbiate pietà di me, per quel sangue che avete sparso per amor mio. Mi pento, o sommo bene, di avervi lasciato, e di aver volontariamente rinunziato alla vostra grazia. Vorrei morirne di dolore; ma Voi datemi più dolore. Fate che io venga in cielo a cantare le vostre misericordie.

O Maria madre mia, Voi siete il rifugio mio, pregate Gesù per me; pregatelo che mi perdoni e mi dia la santa perseveranza.

PUNTO III

Intendiamo che i veri savi sono coloro, che sanno acquistarsi la divina grazia e ‘l paradiso. Preghiamo dunque sempre il Signore che ci doni la scienza de’ santi, ch’Egli dà a chi gliela cerca.1 «Dedit illis scientiam sanctorum» (Sap. 6. 10).2 Oh che bella scienza è il sapere amare Dio e ‘l salvarsi l’anima, che consiste nel sapere prender la via della salute eterna ed i mezzi per conseguirla. Il trattato di salvarsi l’anima è il trattato fra tutti il più necessario. Se sapremo tutto, e non sapremo salvarci, niente ci servirà, e saremo per sempre infelici; ma all’incontro saremo sempre beati, se sapremo amare Dio, ancorché fossimo ignoranti di tutte l’altre cose. «Beatus qui te novit, etsi alia nescit», dicea S. Agostino.3 Un giorno Fra Egidio4 disse a S. Bonaventura: Beato Voi, P. Bonaventura, che sapete tante cose, ed io povero ignorante non so niente; voi potete farvi più santo di me. Senti, gli rispose allora il santo, se una vecchiarella5 ignorante sa amar Dio più di me, ella sarà più santa di me. Dal che Fra Egidio si pose poi a gridare: O vecchiarella, vecchiarella, senti, senti; se tu ami Dio, puoi farti più santa del P. Bonaventura.

«Surgunt indocti, et rapiunt coelum», dicea S. Agostino.6 Quanti

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    rozzi che non san leggere, ma sanno amare Dio, si salvano; e quanti dotti del mondo si dannano! ma quelli, non questi sono i veri savi. Oh che gran savi sono stati un S. Pasquale, un S. Felice Cappuccino, un S. Giovanni di Dio, benché ignoranti delle scienze umane! Che gran savi sono stati tanti, che lasciando il mondo sono andati a chiudersi ne’ chiostri e a vivere ne’ deserti, come un S. Benedetto, un S. Francesco d’Assisi, un S. Luigi di Tolosa, che rinunciò al regno. Che gran savi tanti martiri, tante verginelle, che rinunciarono alle nozze de’ grandi per andare a morire per Gesu-Cristo! E questa verità la conoscono anche i mondani, e non lasciano di dire di taluno che si è dato a Dio: Beato lui che l’intende, e si salva l’anima. In somma quei che lasciano i beni del mondo per darsi a Dio, si chiamano uomini disingannati. Dunque quei che lasciano Dio per li beni del mondo, come debbono chiamarsi? Uomini ingannati.

Fratello mio, di qual compagnia di costoro volete esser voi? Per bene eleggere vi consiglia S. Gio. Grisostomo7 a visitare i cimiteri. «Proficiscamur ad sepulchra». Belle scuole sono le sepolture per conoscere la vanità de’ beni di questo mondo e per apprendere la scienza de’ santi. Dimmi (dice il Grisostomo), sai discernere ivi chi sia stato principe, chi nobile e chi letterato? Io per me, dice il santo: «Nihil video, nisi putredinem, ossa et vermes. Omnia fabula, somnium,8 umbra». Tutte le cose di questo mondo tra breve finiranno e svaniranno come una commedia, un sogno,9 un’ombra. Ma, cristiano mio, se vuoi diventar savio, non basta conoscere l’importanza del tuo fine, bisogna prendere i mezzi per conseguirlo. Tutti vorrebbero salvarsi e farsi santi; ma perché poi non pigliano i mezzi, non si fanno santi e si dannano. Bisogna fuggir le occasioni, frequentare i sagramenti, fare orazione, e prima di tutto bisogna stabilire nel nostro cuore le massime del Vangelo: «Quid prodest homini, si mundum universum lucretur? Qui amat animam suam, perdet eam» (Io. 12. 25).10

  • 194 –
    Il che viene a dire, bisogna perdere anche la vita per salvare l’anima. «Qui vult venire post me, abneget semetipsum» (Matth. 16. 24).11 Per seguire Gesu-Cristo, bisogna negare all’amor proprio le soddisfazioni che cerca: «Vita in voluntate eius» (Ps. 39. 6). La nostra salute sta nel fare la divina volontà; queste ed altre simili massime.

Affetti e preghiere
O Padre delle misericordie, guardate le mie miserie, ed abbiate pietà di me; datemi luce e fatemi conoscere la mia passata pazzia, acciocché la pianga, e conoscere la vostra bontà infinita, acciocché l’ami. Gesù mio, «ne tradas bestiis animas confitentes tibi».12 Voi avete sparso il sangue per salvarmi, non permettete ch’io abbia da esser più schiavo de’ demoni, come sono stato per lo passato. Mi pento, o sommo bene, di avervi lasciato. Maledico tutti quei momenti, in cui colla mia volontà diedi il consenso al peccato; e mi abbraccio colla vostra santa volontà, che altro non desidera che ‘l mio bene. Eterno Padre, per li meriti di Gesu-Cristo datemi la forza di eseguire tutto quello che a voi piace.13 Fatemi prima morire, che più contraddire a i vostri voleri. Aiutatemi colla vostra grazia a mettere in Voi solo tutto il mio amore, e a distaccarmi da tutti gli affetti, che non tendono a Voi. V’amo, o Dio dell’anima mia, v’amo sopra ogni cosa, e da Voi spero ogni mio bene, il perdono, la perseveranza nell’amor vostro e ‘l paradiso per amarvi in eterno.

O Maria, cercate14 Voi per me queste grazie. Il vostro Figlio niente vi nega. Speranza mia, in Voi confido.

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CONSIDERAZIONE XXI – VITA INFELICE DEL PECCATORE E VITA FELICE DI CHI AMA DIO

«Non est pax impiis, dicit Dominus (Is. 48. 22). Pax multa diligentibus legem tuam» (Ps. 118. 165).

PUNTO I

Tutti gli uomini in questa vita faticano per trovare la pace. Fatica quel mercante, quel soldato, quel litigante, perché pensa con quel guadagno, con quel posto, o col vincer quella lite di far la sua fortuna e così trovare la pace. Ma poveri mondani, che cercano la pace nel mondo, il quale non può darla! Dio solo può dare a noi la pace: «Da servis tuis (prega la santa Chiesa) illam, quam mundus dare non potest, pacem».1 No, non può il mondo con tutt’i suoi beni contentare il cuore dell’uomo, perché l’uomo non è creato per questi beni, ma solo per Dio; ond’è che solo Dio può contentarlo. Le bestie che son create per li diletti de’ sensi, queste trovano la pace ne’ beni della terra; date ad un giumento un fascio d’erba, date ad un cane un pezzo di carne, eccoli contenti, niente più desiderano. Ma l’anima, ch’è creata solo per amare e star unita con Dio, con tutt’i piaceri sensuali non potrà mai trovar la sua pace; solo Dio può renderla appieno contenta.

Quel ricco, che narra S. Luca (cap. 12. v. 19), avendo fatta una buona raccolta da’ suoi campi, diceva a se stesso: «Anima, habes multa bona posita in annos plurimos, requiesce, comede, bibe». Ma questo infelice ricco fu chiamato pazzo, «Stulte», e con ragione, dice S. Basilio:2 «Nunquid animam porcinam habes?» Misero (gli dice il santo), e che forse hai l’anima di qualche porco, di qualche bestia, che pretendi contentar l’anima tua col mangiare, col bere, co’ diletti del senso? «Requiesce, comede, bibe?» L’uomo da’ beni del mondo può esser riempiuto, ma non già saziato: «Inflari potest, satiari non potest»,

  • 196 –
    dice S. Bernardo.3 E scrive il medesimo santo sul Vangelo: «Ecce nos reliquimus omnia», di aver veduti diversi pazzi con diverse pazzie. Dice che tutti questi pativano una gran fame, ma altri si saziavano di terra, figura degli avari: altri d’aria, figura di quei che ambiscono onori: altri d’intorno ad una fornace imboccavano le faville, che da quella svolazzavano,4 figura dell’iracondi; altri finalmente d’intorno ad un fetido lago beveano quell’acque fracide, figura de’ disonesti. Quindi ad essi rivolto il santo dice loro:5 O pazzi, non vedete che queste cose più presto accrescono, che tolgono la vostra fame? «Haec potius famem provocant, quam exstinguunt». I beni del mondo son beni apparenti, e perciò non possono saziare il cuore dell’uomo. «Comedistis, et non estis satiati» (Aggaeus, 1. 6). E perciò l’avaro quanto più acquista, tanto più cerca d’acquistare. S. Agostino:6 «Maior pecunia avaritiae fauces non claudit, sed extendit». Il disonesto quanto più si rivolge tra le sordidezze, tanto più resta nauseato insieme e famelico; e come mai lo sterco e le sozzure sensuali possono contentare il cuore? Lo stesso avviene all’ambizioso, che vuol saziarsi di fumo, poiché
  • 197 –
    l’ambizioso più mira quel che gli manca, che quello che ha. Alessandro Magno,7 dopo aver acquistati tanti regni, piangeva, perché gli mancava il dominio degli altri. Se i beni di questa terra contentassero l’uomo, i ricchi, i monarchi sarebbero appieno felici, ma la sperienza fa vedere l’opposto. Lo dice Salomone, il quale asserisce di non aver negato niente a’ suoi sensi: «Et omnia, quae desideraverunt oculi mei, non negavi eis» (Eccl. 2. 10). Ma con tutto ciò che dice? «Vanitas vanitatum, et omnia vanitas» (Ibid. 1. 2). E vuol dire: Tutto ciò ch’è nel mondo, è mera vanità, mera bugia, mera pazzia.

Affetti e preghiere
Ah mio Dio, e che mi trovo delle offese che v’ho8 fatte, se non pene, amarezze e meriti per l’inferno? Non mi dispiace l’amarezza che ora ne sento, anzi questa mi consola, mentre ella9 è dono della vostra grazia e mi fa sperare (giacché Voi me la date) che vogliate perdonarmi. Ciò che mi dispiace, è il disgusto e l’amarezza che ho10 data a Voi, mio Redentore, che mi avete tanto amato. Io meritava, mio Signore, che allora mi abbandonaste; ma in vece di abbandonarmi vedo che mi offerite il perdono, anzi siete il primo a dimandarmi la pace. Sì, Gesù mio, voglio far pace, e desidero la grazia vostra più d’ogni bene. Mi pento, bontà infinita, d’avervi offeso, vorrei morire11 di dolore. Deh per quell’amore che mi portaste spirando per me sulla croce, perdonatemi e ricevetemi nel vostro Cuore, e mutate il cuore mio, in modo che quanto vi ho dato di disgusto per lo passato, tanto vi dia di gusto per l’avvenire. Io per amor vostro al presente rinunzio a tutti i piaceri, che mi può dare il mondo; e risolvo di perdere prima la vita, che la vostra grazia. Ditemi che ho da fare per piacervi, che tutto voglio farlo. Che piaceri! che onori! che ricchezze! voglio

  • 198 –
    solamente Voi, mio Dio, mia gioia, mia gloria, mio tesoro, mia vita, mio amore, mio tutto. Datemi, Signore, l’aiuto per esservi fedele. Datemi l’amarvi, e fatene di me quel che vi piace.

Maria, Madre e speranza mia dopo Gesù, ricevetemi nella vostra protezione e rendetemi tutto di Dio.

PUNTO II

Ma non solo dice Salomone che i beni di questo mondo sono vanità, che non contentano, ma sono pene che affliggono lo spirito: «Et ecce universa vanitas, et afflictio spiritus» (Eccl. 1. 14). Poveri peccatori! pretendono di farsi felici co’ loro peccati, ma non trovano che amarezza e rimorso: «Contritio, et infelicitas in viis eorum, et viam pacis non cognoverunt» (Ps. 13. 3). Che pace! che pace! No, dice Dio: «Non est pax impiis, dicit Dominus» (Is. 48. 22). Primieramente il peccato porta con sé il terrore della divina vendetta. Se alcuno tiene un nemico potente, non mangia, né dorme mai quieto; e chi ha per nemico Dio, può stare in pace? «Pavor his qui operantur malum» (Prov. 10. 29). Chi sta in peccato, se sente tremar la terra, se sente tuonare, oh come trema! Ogni fronda che si muove, lo spaventa. «Sonitus terroris semper in aure eius» (Iob. 15. 21). Fugge sempre, senza veder chi lo perseguita. «Fugit impius, nemine persequente» (Prov. 28. 1). E chi lo perseguita? il medesimo suo peccato. Caino dopo che uccise il fratello Abele dicea: «Omnis igitur, qui invenerit me, occidet me» (Gen. 4. 14). E con tutto che il Signore l’assicurò che niuno l’avrebbe offeso: «Dixitque ei Dominus: Nequaquam ita fiet»;1 pure dice la Scrittura che Caino «habitavit profugus in terra» (Ibid.):2 andò sempre fuggendo da un luogo ad un altro. Chi era il persecutore di Caino, se non il suo peccato?

In oltre il peccato porta seco il rimorso della coscienza, ch’è quel verme tiranno che sempre rode. Va il misero peccatore alla commedia, al festino, al banchetto: ma tu (gli dice la coscienza) stai in disgrazia di Dio; se muori, dove vai? Il rimorso della coscienza è una pena sì grande anche in questa vita, che taluni per liberarsene, son giunti a darsi volontariamente la morte. Uno di costoro fu Giuda, come si

  • 199 –
    sa, che per disperazione da se stesso si appiccò. Si narra d’un altro, che avendo ucciso un fanciullo,3 per isfuggir la pena del rimorso andò a farsi religioso; ma neppure nella religione trovando pace, andò a confessare il suo delitto al giudice, e si fe’ condannare a morte.

Che cosa è un’anima che sta senza Dio? Dice lo Spirito Santo ch’è un mare in tempesta: «Impii autem quasi mare fervens, quod quiescere non potest» (Isa. 57. 20). Dimando, se taluno fosse portato ad un festino di musica, di balli e rinfreschi, e stesse ivi appeso co’ piedi, colla testa in giù, potrebbe godere di questo spasso? Tàl’è quell’uomo che sta coll’anima sotto sopra, stando in mezzo a i beni di questo mondo, ma senza Dio. Egli mangerà, beverà, ballerà: porterà sì bene quella ricca veste, riceverà quegli onori, otterrà quel posto, quella possessione, ma non avrà mai pace. «Non est pax impiis».4 La pace solo da Dio si ottiene, e Dio la dà agli amici, non già a’ nemici suoi.

I beni di questa terra, dice S. Vincenzo Ferreri,5 vanno da fuori non entrano già nel cuore: «Sunt aquae, quae non intrant illuc, ubi est sitis». Porterà quel peccatore una bella veste ricamata, terrà un bel diamante al dito, si ciberà a suo genio; ma il suo povero cuore resterà pieno di spine e di fiele, perciò lo vedrai che con tutte le sue ricchezze, delizie e spassi, sta sempre inquieto, e ad ogni cosa contraria s’infuria, e si stizza, diventando come un cane arrabbiato. Chi ama Dio, nelle cose avverse si rassegna alla divina volontà, e trova pace; ma ciò non può farlo chi vive nemico alla volontà di Dio, e perciò non ha via di quietarsi. Serve il misero al demonio, serve ad un tiranno, che lo paga d’affanni e d’amarezze. E non possono venir meno le parole di Dio che dice: «Eo quod non servieris Deo tuo in gaudio, servies inimico tuo in fame, et siti, et nuditate, et omni penuria» (Deut. 28. 48).6 Che non patisce quel vendicativo, dopo che si è vendicato! quel disonesto dopo ch’è giunto al suo intento! quell’ambizioso! quell’avaro! Oh quanti, se patissero per Dio quel che patiscono per dannarsi, diventerebbero gran santi!

  • 200 –
    Affetti e preghiere
    Oh vita mia perduta! Oh se avessi, Dio mio, patite per servirvi le pene, che ho sofferto per offendervi, quanti meriti ora mi ritroverei per lo paradiso! Ah mio Signore, e perché vi lasciai, e perdei la vostra grazia? per gusti avvelenati e brevi, che appena avuti svanirono, e mi lasciarono il cuore pieno di spine e d’amarezze. Ah peccati miei, vi detesto, e vi maledico mille volte, e benedico la vostra pietà, mio Dio, che con tanta pazienza m’ha sopportato. V’amo, o mio Creatore e Redentore, che avete data la vita per me; e perché v’amo, mi pento con tutto il cuore di avervi offeso. Dio mio, Dio mio, e perché v’ho perduto? e perché v’ho cambiato? Ora conosco il male, che ho fatto, e risolvo di perdere ogni cosa, anche la vita, prima che l’amor vostro. Datemi luce, Eterno Padre, per amore di Gesu-Cristo; fatemi conoscere il gran bene che siete Voi, e la viltà de’ beni, che mi presenta il demonio, per farmi perdere la grazia vostra. Io v’amo, ma desidero di più amarvi. Fate che Voi solo siate l’unico mio pensiero, l’unico mio desiderio, l’unico mio amore; tutto spero dalla vostra bontà per li meriti del vostro Figlio.

Maria Madre mia, per l’amore che portate a Gesu-Cristo, vi prego ad impetrarmi luce e forza di servirlo e d’amarlo7 sino alla morte.

PUNTO III

Dunque tutt’i beni e diletti del mondo non possono contentare il cuore dell’uomo, e chi può contentarlo? Solo Dio. «Delectare in Domino et dabit tibi petitiones cordis tui»(Ps. 36. 4).Il cuore dell’uomo va sempre cercando quel bene che lo contenti. Ottiene le ricchezze, i piaceri, gli onori, e non è contento; perché questi son beni finiti, ed egli è creato per un bene infinito; trovi egli Dio, s’unisca con Dio; ed eccolo già contento, niente più desidera. «Delectare in Domino, et dabit tibi petitiones cordis tui.» S. Agostino1 in tutta la sua vita menata

  • 201 –
    fra’ diletti del senso, non trovò mai pace. Quando poi si diede a Dio, allora confessava e diceva al Signore: «Inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te». Dio mio, dicea, ora conosco che ogni cosa è vanità e pena, e Voi solo siete la vera pace dell’anima. «Dura sunt omnia, et tu solus requies».2 Ond’egli fatto poi maestro a sue spese, scrisse:3 «Quid quaeris homuncio, quaerendo bona? quaere unum bonum, in quo sunt omnia bona». Davide4 essendo re, mentre stava in peccato, andava alle cacce, ai giardini, alle mense, ed a tutte l’altre delizie regali, ma gli diceano le mense, i giardini e tutte l’altre creature di cui godea: Davide,5 tu da noi vuoi essere contentato? No, non possiamo noi contentarti: «Ubi est Deus tuus?» va, trova lo Dio6 tuo, ch’egli solo può contentarti; e perciò Davide7 in mezzo a tutte le sue delizie non faceva altro che piangere: «Lacrimae meae fuerunt panes die ac nocte, dum dicitur mihi quotidie, ubi est Deus tuus?» (Ps. 41. 4).

Oh come all’incontro sa contentare Dio l’anime fedeli, che l’amano! S. Francesco d’Assisi,8 avendo lasciato tutto per Dio, benché si trovasse scalzo, con uno straccio sopra, morto di freddo e di fame, dicendo: «Deus meus et omnia»,9 provava un paradiso. S. Francesco Borgia dopo che fu religioso, e gli toccava ne’ viaggi a dormir sulla paglia, era tanta la consolazione, che per quella non potea prender sonno. S. Filippo Neri10 similmente, avendo lasciato tutto, quando

  • 202 –
    andava a riposo, Iddio così lo consolava, ch’egli giungeva a dire: Ma, Gesu-Cristo mio, lasciatemi dormire. Il P. Carlo di Lorena Gesuita,11 de’ principi di Lorena, ritrovandosi nella sua povera cella, talvolta per la contentezza si metteva a danzare. S. Francesco Saverio12 nelle campagne dell’Indie si slacciava il petto, dicendo: «Sat est, Domine», basta Signore, non più consolazione, che ‘l mio cuore non è capace di sostenerla. Dicea S. Teresa13 che dà più contento una goccia di consolazione celeste, che tutt’i piaceri e spassi del mondo. Eh che non possono mancare le promesse di Dio, di dare a chi lascia i beni del mondo per suo amore, anche in questa vita il centuplo di pace e di contento. «Qui reliquerit domum, vel fratres, etc. propter nomen meum, centuplum accipiet, et vitam aeternam possidebit» (Matth. 19. 29).

Che andiamo dunque cercando? andiamo a Gesu-Cristo che ci chiama e ci dice: «Venite ad me omnes, qui laboratis, et onerati estis, et ego reficiam vos» (Matth. 11. 28). Eh che un’anima che ama Dio, trova quella pace che avanza tutti i piaceri e soddisfazioni, che può dare il senso ed il mondo. «Pax Dei quae exsuperat omnem sensum» (Philip. 4. 7). È vero che in questa vita anche i santi patiscono, perché questa terra è luogo di meriti, e non si può meritare senza patire; ma dice S. Bonaventura14 che l’amore divino è simile al mele,15 che rende dolci, ed amabili le cose più amare. Chi ama Dio, ama la di Lui volontà, e perciò gode nello spirito anche nelle amarezze; poiché abbracciandole sa che lo compiace, e gli dà gusto. Oh Dio, i peccatori

  • 203 –
    voglion disprezzare la vita spirituale, ma senza provarla! «Vident crucem, sed non vident unctionem», dice S. Bernardo;16 guardano solamente le mortificazioni che soffrono gli amanti di Dio, e i piaceri di cui si privano; ma non vedono le delizie spirituali, con cui l’accarezza il Signore. Oh se i peccatori assaggiassero la pace che gode un’anima che non vuole altro che Dio! «Gustate, et videte» (dice Davide),17 «quam suavis est Dominus» (Ps. 33).18 Fratello mio, comincia a far la meditazione ogni giorno, a comunicarti spesso, a trattenerti avanti il SS. Sagramento, comincia a lasciare il mondo e a fartela con Dio, e vedrai che il Signore ti consolerà più Egli in quel poco di tempo, in cui con esso ti tratterrai, che non ti ha consolato il mondo con tutti i suoi divertimenti. «Gustate, et videte». Chi non lo gusta, non può intendere, come sa contentare Dio un’anima che l’ama.

Affetti e preghiere
Caro mio Redentore, come sono stato così cieco per lo passato, a lasciar Voi bene infinito, fonte di tutte le consolazioni per le misere e brevi soddisfazioni del senso! Ammiro la mia cecità, ma più ammiro la vostra misericordia, che con tanta bontà mi ha sopportato. Vi ringrazio che ora mi fate conoscere la mia pazzia e l’obbligo che ho d’amarvi. V’amo, Gesù mio, con tutta l’anima mia, e desidero di più amarvi. Accrescete Voi il desiderio e l’amore. Innamoratemi di Voi, o amabile infinito, che non avete più che fare per essere amato da me, e tanto desiderate l’amor mio. «Si vis, potes me mundare».19 Deh Redentore mio caro, purgatemi il cuore da tanti affetti impuri, che m’impediscono d’amarvi come vorrei. Non è forza la mia di fare che il mio cuore arda tutto verso di Voi, e non ami altro che Voi. Ha da esser forza della vostra grazia, che può tutto quanto vuole. Staccatemi da tutto, discacciate dall’anima mia ogni affetto che non è per Voi, e rendetemi tutto vostro. Iomi pento sopra ogni male di tutti i disgusti che vi ho dati. E risolvo di consagrar la vita che mi resta, tutta al vostro santo amore; ma Voi l’avete da fare. Fatelo per quel sangue che avete sparso per me con tanto dolore e con tanto amore. Sia gloria della vostra potenza far che il mio cuore, il quale un tempo è stato pieno di affetti terreni, ora sia tutto fiamme d’amore verso Voi, bene infinito.

O Madre del bello amore, rendetemi colle vostre preghiere come foste sempre Voi, tutt’ardente di carità verso Dio.

CONSIDERAZIONE XXII – DEL MAL’ABITO1
«Impius cum in profundum venerit, contemnit» (Prov. 18. 3).2
PUNTO I

Uno de’ maggiori danni, che a noi cagionò il peccato di Adamo, fu la mala inclinazione al peccare. Ciò facea piangere l’Apostolo, in vedersi spinto dalla concupiscenza verso quegli stessi mali, ch’egli abborriva: «Video aliam legem in membris meis… captivantem me in lege peccati» (Rom. 7. 23). E quindi riesce a noi, infettati da questa concupiscenza, e con tanti nemici che ci spingono al male, sì difficile il giungere senza colpa alla patria beata. Or posta una tal fragilità che abbiamo, io dimando: Che direste voi d’un viandante, che dovesse passare il mare in una gran tempesta, con una barca mezza rotta, ed egli poi volesse caricarla di tal peso, che senza tempesta, e quantunque la barca fosse forte, anche basterebbe ad affondare?3 Che prognostico fareste della vita di costui? Or dite lo stesso d’un mal abituato che dovendo passare il mare di questa vita (mare in tempesta, dove tanti si perdono) con una barca debole e ruinata, qual’è la nostra carne, a cui stiamo uniti, questi volesse poi aggravarla di peccati abituati. Costui è molto difficile che si salvi, perché il mal’abito accieca la mente, indurisce il cuore, e con ciò facilmente lo rende ostinato sino alla morte.

Per prima il mal’abito «accieca». E perché mai i santi sempre cercano4 lume a Dio, e tremano di diventare i peggiori peccatori del mondo? perché sanno che se in un punto perdon la luce, possono5 commettere qualunque scelleragine. Come mai tanti cristiani ostinatamente han voluto vivere in peccato, sino che finalmente si son dannati? «Excaecavit eos malitia eorum» (Sap. 2. 21). Il peccato ha tolto loro la vista, e così si son perduti. Ogni peccato porta seco la cecità; accrescendosi i peccati, si accresce l’accecazione. Dio è la nostra luce;

  • 206 –
    quanto più dunque l’anima si allontana da Dio, tanto resta più cieca. «Ossa eius implebuntur vitiis» (Iob. 20. 11). Siccome in un vaso, ch’è pieno di terra, non può entrarvi la luce del sole, così in un cuore pieno di vizi non può entrarvi la luce divina.

E perciò si vede poi che certi peccatori rilasciati perdono il lume, e vanno di peccato6 in peccato, e neppure pensano più ad emendarsi. «In circuitu impii ambulant» (Psal. 11.9). Caduti i miseri in quella fossa oscura, non sanno far altro che peccati, non parlano che di peccati, non pensano se non a peccare, e quasi non conoscono più che sia male il peccato. «Ipsa consuetudo mali (dice S. Agostino)7 non sinit peccatores videre malum, quod faciunt». Sicché vivono come non credessero più esservi Dio, paradiso, inferno, eternità.

Ed ecco, che quel peccato che prima faceva orrore, col mal’abito non fa più orrore. «Pone illos, ut rotam et sicut stipulam ante faciem venti» (Psal. 82. 14). Vedete, dice S. Gregorio,8 con che facilità una pagliuccia è mossa da ogni vento anche leggiero; così vedrete ancora taluno che prima (avanti che cadesse) resisteva almeno per qualche tempo, e combatteva colla tentazione; fatto poi il mal’abito, subito cade ad ogni tentazione, ad ogni occasione che gli vien di peccare. E perché? perché il mal’abito gli ha tolta la luce. Dice S. Anselmo9 che ‘l demonio fa con certi peccatori, come fa taluno che tiene qualche uccello ligato10 col filo, lo lascia volare, ma quando vuole torna a farlo cadere a terra; tali sono (come dice il santo) i mal abituati: «Pravo usu irretiti ab hoste tenentur, volantes in eadem vitia deiiciuntur»

  • 207 –
    (Ap. Edinor. in Vita lib. 2). Taluni, aggiunge S. Bernardino da Siena (tom. 4. Serm. 15),11 seguiranno a peccare anche senz’occasione. Dice il santo che i mal abituati si fan simili a’ molini a vento, i quali «rotantur omni vento», girano ad ogni aura di vento; e di più voltano, ancorché non vi stesse grano da macinare, e benché il padrone non volesse che voltino. Vedrai un abituato che senz’occasione va facendo mali pensieri, senza gusto, e quasi non volendo, tirato a forza dal mal’abito. S. Gio. Grisostomo:12 «Dura res est consuetudo, quae nonnunquam nolentes committere cogit illicita». Sì, perché (come dice S. Agostino)13 il mal’abito diventa poi una certa necessità: «Dum consuetudini non resistitur, facta est necessitas». E come aggiunge S. Bernardino,14 «usus vertitur in naturam»; ond’è che siccome all’uomo è necessario il respirare, così a’ mal abituati,15 fatti schiavi del peccato, par che si renda necessario il peccare. Ho detto «schiavi»; vi sono i servi, che servono a forza colla paga; gli schiavi poi servono a forza senza paga; a questo giungono alcuni miserabili, giungono a peccare senza gusto.

«Impius, cum in profundum venerit, contemnit» (Prov. 18. 3).16 Ciò lo spiega il Grisostomo17 appunto del mal abituato, il quale posto

  • 208 –
    in quella fossa di tenebre, disprezza correzioni, prediche, censure, inferno, Dio, disprezza tutto, diventa il misero quale avoltoio, che per non lasciare il cadavere, su di quello più presto si contenta di farsi uccidere da’ cacciatori. Narra il P. Recupito18 che un condannato a morte mentre andava alla forca, alzò gli occhi, vide una giovane, ed acconsentì ad un mal pensiero. Narra ancora il P. Gisolfo19 che un bestemmiatore, anche condannato a morte, mentre fu buttato dalla scala proruppe in una bestemmia. Giunge a dire S. Bernardo20 che per li mal’abituati non serve più a pregare, ma bisogna piangerli per dannati. Ma come vogliono uscire dal loro precipizio, se non ci vedono più? ci vuole un miracolo della grazia. Apriranno gli occhi i miserabili nell’inferno, quando non servirà più l’aprirli, se non per piangere più amaramente la loro pazzia.

Affetti e preghiere
Mio Dio, Voi mi avete distinto co’ vostri benefici, beneficandomi più degli altri; io vi ho distinto colle offese, ingiuriando più Voi, che ogni altra persona da me conosciuta. O Cuore addolorato del mio Redentore, che sulla croce foste così afflitto e tormentato dalla vista de’ miei peccati, datemi Voi per li vostri meriti una viva cognizione e dolore delle mie colpe. Ah Gesù mio, io son pieno di

  • 209 –
    vizi, ma voi siete onnipotente; ben potete farmi pieno del vostro santo amore. A voi21 dunque confido che siete una bontà, una misericordia infinita. Mi pento, o sommo bene, di avervi offeso. Oh fossi morto prima e non v’avessi dato mai disgusto! Io mi sono scordato di Voi, ma Voi non vi siete scordato di me: lo vedo con questa luce che ora mi date. Giacché dunque mi date la luce, datemi ancora la forza di esservi fedele. Io vi prometto prima di morire mille volte, che mai voltarvi più22 le spalle: ma al vostro aiuto stanno le mie speranze: «In te, Domine, speravi, non confundar in aeternum».23 A voi24 spero, Gesù mio, di non avermi a vedere più confuso nel peccato e privo della vostra grazia.

A Voi mi rivolgo ancora, o Maria signora mia: «In te, Domina, speravi, non confundar in aeternum».25 Alla26 vostra intercessione confido, o speranza mia, di non avermi a vedere più nemico del vostro Figlio. Deh pregatelo che mi faccia prima morire, che mi abbandoni a questa somma disgrazia.

PUNTO II

In oltre il mal’abito indurisce. «Cor durum efficit consuetudo peccandi», Cornelio a Lapide.1 E Dio giustamente il permette in pena delle resistenze fatte alle sue chiamate. Dice l’Apostolo che ‘l Signore «cuius vult miseretur, et quem vult indurat» (Rom. 9. 18). Spiega S. Agostino:2 «Obduratio Dei est nolle misereri». Non è già che Iddio indurisce il mal abituato, ma gli sottrae la grazia, in pena dell’ingratitudine usata alle sue grazie; e così il di lui cuore resta duro e fatto come di pietra. «Cor eius indurabitur tanquam lapis, et stringetur quasi malleatoris incus» (Iob. 41. 15). Quindi avverrà che dove

  • 210 –
    gli altri s’inteneriscono e piangono in sentir predicar il rigore del divino giudizio, le pene de’ dannati, la passione di Gesu-Cristo, il mal abituato niente ne resterà commosso; ne parlerà e sentirà parlare con indifferenza, come fossero cose che a lui non appartenessero; e a tali colpi egli diventerà più duro. «Et stringetur quasi malleatoris incus».

Anche le morti improvvise, i tremuoti,3 i tuoni, i fulmini più non lo spaventeranno: prima che svegliarlo e farlo ravvedere, più presto gli concilieranno quel sonno di morte, in cui dorme perduto. «Ab increpatione tua, Deus Iacob, dormitaverunt» (Ps. 75. 7). Il mal’abito a poco a poco fa perdere anche il rimorso della coscienza. Al mal abituato i peccati più enormi gli sembrano niente. S. Agostino:4 «Peccata quanvis horrenda, cum in consuetudinem veniunt, parva, aut nulla esse videntur». Il far male porta seco naturalmente un certo rossore, ma dice S. Girolamo5 che i mal abituati6 perdono anche il rossore peccando: «Qui ne pudorem quidem habent in delictis». S. Pietro paragona il mal abituato al porco, che si rivolta nel letame: «Sus lota in volutabro luti» (2. Petr. 2. 22). Siccome il porco, rivoltandosi nel loto, non ne sente egli il fetore; così accade al mal abituato: quel fetore che si fa sentire da tutti gli altri, egli solo non lo sente. E posto che il loto gli ha tolta anche la vista, che meraviglia, è, dice S. Bernardino,7 che non si ravveda, neppure mentre Dio lo flagella? «Populus immergit se in peccatis, sicut sus in volutabro luti; quid mirum si Dei flagellantis futura iudicia non cognoscit?» (S. Bern. Sen. p. 2. pag. 182). Onde avviene che in vece di rattristarsi de’ suoi peccati, se ne rallegra, se ne ride e se ne vanta. «Laetantur, cum malefecerint»

  • 211 –
    (Prov. 2. 14). «Quasi per risum stultus operatur scelus» (Prov. 10. 23). Che segni sono questi di tal diabolica durezza? Dice S. Tommaso di Villanova,8 sono segni tutti di dannazione: «Induratio, damnationis indicium». Fratello mio, trema che non ti avvenga lo stesso. Se mai hai qualche mal’abito, procura d’uscirne presto, ora che Dio ti chiama. E mentre ti morde la coscienza, sta allegramente perché è segno che Dio non t’ha abbandonato ancora. Ma emendati, ed esci presto; perché se no, la piaga si farà cancrena, e sarai perduto.

Affetti e preghiere
O Signore, come potrò ringraziarvi come debbo, di tante grazie che mi avete fatte? Quante volte mi avete chiamato, ed io ho resistito? In vece di esservi grato e d’amarvi, per avermi liberato dall’inferno, e chiamato con tanto amore ho seguitato a provocarvi a sdegno, replicando a Voi le ingiurie. No, mio Dio, non voglio più oltraggiare la vostra pazienza; basta quanto vi ho offeso. Solo Voi che siete bontà infinita, avete potuto sinora sopportarmi. Ma già vedo che non potete sopportarmi più, avete ragione. Perdonatemi dunque, Signore mio e mio sommo bene, tutte l’ingiurie che v’ho fatte, delle quali mi pento con tutto il cuore; ch’io propongo per l’avvenire di non offendervi più. E che forse ho da seguire sempre ad irritarvi? Deh placatevi meco, o Dio dell’anima mia, non per li meriti miei, a cui non si aspetta altro che castighi ed inferno, ma per li meriti del vostro Figlio e mio Redentore, a’ quali9 metto tutta la mia speranza. Per amore dunque di Gesu-Cristo ricevetemi nella vostra grazia, e datemi la perseveranza nel vostro amore. Staccatemi dagli affetti impuri, e tiratemi tutto a Voi. V’amo, o sommo Dio, o sommo amante dell’anime, che siete degno d’infinito amore. Oh vi avessi sempre amato.

O Maria Madre mia, fate che questa vita che mi resta, non mi serva più per offendere il vostro Figlio, ma solo per amarlo e per piangere i disgusti che gli ho dati.

PUNTO III

Perduta che sarà la luce, e indurito che sarà il cuore, moralmente ne nascerà che ‘l peccatore faccia mal fine, e muoia ostinato nel suo peccato. «Cor durum habebit male in novissimo» (Eccli. 3. 27). I giusti sieguono1 a camminare per la via dritta.2 «Rectus callis iusti ad ambulandum» (Is. 26. 7). All’incontro i mal abituati3 van sempre in giro. «In circuitu impii ambulant» (Ps. 11. 9). Lasciano il peccato per un poco, e poi vi tornano. A costoro S. Bernardo4 annunzia la dannazione: «Vae homini qui sequitur hunc circuitum» (Serm. 12. Sup. Psal. 90). Ma dirà quel tale: Io voglio emendarmi prima della morte. Ma qui sta la diffìcoltà, che un mal abituato si emendi, ancorché giunga alla vecchiaia; dice lo Spirito Santo: «Adolescens iuxta viam suam, etiam cum senuerit, non recedet ab ea» (Prov. 22. 6). La ragione si è, come ci dice S. Tommaso da Villanova (Conc. 4. Dom. Quadr. 4),5 perché la nostra forza è molto debole. «Et erit fortitudo nostra6 ut favilla stupae» (Is. 1. 31). Dal che ne nasce, secondo dice il santo che l’anima priva della grazia non può stare senza nuovi peccati: «Quo fit, ut anima a gratia destituta diu evadere ulteriora peccata non possit». Ma oltre ciò, che pazzia sarebbe di taluno, se volesse giuocare e perdere volontariamente tutto il suo, sperando di rifarsi all’ultima partita? Questa è la pazzia di chi siegue a vivere tra’ peccati, e spera poi nell’ultimo giorno7 della vita di rimediare al tutto. Può l’Etiope, o il pardo mutare il color della sua pelle? e come potrà far buona vita, chi ha fatto un lungo abito al male? «Si mutare potest Aethiops pellem suam, aut pardus varietates suas, et vos poteritis benefacere, cum didiceritis

  • 213 –
    malum» (Ier. 13. 23). Quindi avviene che il male abituato8 in fine si abbandona alla disperazione, e così finisce la vita. «Qui vero mentis est durae, corruet in malum» (Prov. 28. 14).

S. Gregorio9 su quel passo di Giobbe: «Concidit me vulnere super vulnus, irruit in me quasi gigas» (Iob. 16. 15): dice il santo così: Se taluno è assalito dal nemico, alla prima ferita che riceve resta forse anche abile a difendersi; ma quante più ferite riceve, tanto più perde le forze, sino che finalmente resta ucciso. Così fa il peccato; alla prima, alla seconda volta resta qualche forza al peccatore (s’intende sempre per mezzo della grazia che gli assiste), ma se poi egli seguita a peccare, il peccato si fa gigante, «irruit quasi gigas». All’incontro il peccatore, trovandosi più debole e con tante ferite, come potrà evitare la morte? Il peccato, al dire di Geremia, è come una gran pietra, che opprime l’anima: «Et posuerunt lapidem super me» (Thren. 3. 53). Or dice S. Bernardo10 esser sì difficile il risorgere ad un mal abituato, quando è difficile ad uno che sia caduto sotto un gran sasso, e che non ha forza di rimuoverlo per liberarsene: «Difficile surgit, quem moles malae consuetudinis premit».

Dunque, dirà quel mal abituato, io son disperato? No, non sei disperato, se vuoi rimediare. Ma ben dice un autore che ne’ mali gravissimi vi bisognano gravissimi rimedi: «Praestat in magnis morbis a magnis auxiliis initium medendi sumere» (Cardin. Meth. cap. 16).11 Se

  • 214 –
    ad un infermo che sta in pericolo di morte e non vuol prender rimedi, perché non sa la gravezza del suo male, gli dicesse il medico: Amico, sei morto, se non prendi la tal medicina. Che risponderebbe l’infermo? Eccomi, direbbe, pronto a prender tutto; si tratta di vita. Cristiano mio, lo stesso dico a te, se sei abituato in qualche peccato: stai male, e sei di quell’infermi, che «raro sanantur» (come dice S. Tommaso da Villanova);12 stai vicino a dannarti. Se non però vuoi guarirti, vi è il rimedio; ma non hai d’aspettare un miracolo della grazia; hai da farti forza dal canto tuo a toglier le occasioni, a fuggire i mali compagni, a resistere con raccomandarti a Dio, quando sei tentato; hai da prendere i mezzi, con confessarti spesso, leggere ogni giorno un libretto spirituale, prendere la divozione a Maria SS., pregandola continuamente che t’impetri forza di non ricadere. Hai da farti forza, altrimenti ti coglierà la minaccia del Signore contro gli ostinati: «In peccato vestro moriemini» (Io. 8. 21). E se non rimedi, or che Dio ti dà questa luce, difficilmente potrai rimediare appresso. Senti Dio che ti chiama: «Lazare, exi foras».13 Povero peccatore già morto, esci da questa oscura fossa della tua mala vita. Presto rispondi; e datti a Dio; e trema che questa non sia l’ultima chiamata per te.

Affetti e preghiere
Ah Dio mio, e che voglio aspettare che proprio mi abbandoniate e mi mandiate all’inferno? Ah Signore, aspettatemi, ch’io voglio mutar vita e darmi a Voi. Ditemi che ho da fare, che voglio farlo. O sangue di Gesù, aiutatemi. O avvocata de’ peccatori Maria, soccorretemi. E Voi, Eterno Padre, per li meriti di Gesù e di Maria, abbiate pietà di me. Mi pento, o Dio di bontà infinita, di avervi offeso, e v’amo sopra ogni cosa. Perdonatemi per amore di Gesu-Cristo e datemi il vostro amore. Datemi ancora un gran timore della mia ruina, se di nuovo vi offendessi. Luce, mio Dio, luce e forza. Tutto spero dalla vostra misericordia. Voi mi avete fatte tante grazie, quand’io andava lontano da Voi, molto più spero, or che a Voi ritorno risoluto di non amare altro che Voi. V’amo, mio Dio, mia vita, mio tutto.

Amo ancora Voi, Madre mia Maria; a Voi consegno l’anima mia; Voi preservatela colla vostra intercessione dal non tornare a cadere in disgrazia di Dio.

CONSIDERAZIONE XXIII1 – INGANNI CHE ‘L DEMONIO METTE IN MENTE A’ PECCATORI

(«Benché molti sentimenti di quelli, che si pongono in questa considerazione, sieno accennati nelle altre antecedenti, nondimeno giova qui metterli unitamente, per vincere gl’inganni usuali, con cui suole il demonio indurre i peccatori a ricadere»).

PUNTO I

Figuriamo che un giovine, caduto in peccati gravi, se ne sia già confessato, ed abbia già ricuperata la divina grazia. Il demonio di nuovo lo tenta a ricadere: il giovine resiste ancora: ma già vacilla per gl’inganni, che gli suggerisce il nemico. Giovine, dico io, dimmi che vuoi fare? vuoi perdere ora la grazia di Dio, che già hai acquistata e che vale più di tutto il mondo, per questa tua misera soddisfazione? vuoi tu stesso scriverti la sentenza di morte eterna, e condannarti ad ardere per sempre nell’inferno? «No», tu mi dici, «non voglio dannarmi, voglio salvarmi; se farò questo peccato, appresso me lo confesserò». Ecco il primo inganno del tentatore. Dunque mi dici che appresso te lo confesserai; ma frattanto già perdi l’anima. Dimmi se avessi in mano una gioia, che valesse mille ducati, la butteresti tu in un2 fiume con dire: appresso farò diligenza e spero di ritrovarla? Tu hai in mano questa bella gioia dell’anima tua che Gesu-Cristo l’ha comprata col suo sangue, e tu la butti volontariamente nell’inferno (poiché peccando secondo la presente giustizia già resti dannato) e dici: Ma spero di ricuperarla colla confessione? Ma se poi non la ricuperi? Per ricuperarla vi bisogna un vero pentimento, il quale è dono di Dio; se Dio questo pentimento non te lo dà? E se viene la morte, e ti leva il tempo di confessarti?

Dici che non farai passare una settimana, e te lo confesserai. E

  • 218 –
    chi ti promette questa settimana di tempo? Dici che te lo confesserai domani, e chi ti promette questo domani? Scrive S. Agostino:3 «Crastinum Deus non promisit, fortasse dabit, et fortasse non dabit». Questo giorno di domani non te l’ha promesso Dio; forse te lo darà e forse te lo negherà, come l’ha negato a tanti, i quali si son posti vivi a letto la sera, e la mattina si son trovati morti di subito. Quanti nello stesso atto del peccato il Signore l’ha fatti morire, e l’ha mandati all’inferno? E se fa lo stesso con te, come potrai più rimediare alla tua ruina eterna? Sappi che con quest’inganno di dire, «poi me lo confesso», il demonio ne ha portati migliaia e migliaia di cristiani all’inferno, poiché difficilmente si trova un peccatore, sì disperato, che voglia proprio dannarsi; tutti allorché peccano, peccano colla speranza di confessarsi, ma così poi tanti miserabili si son dannati, ed ora non possono più rimediarvi.

Ma tu dici: «Ora non mi fido4 di resistere a questa tentazione». Ecco il secondo inganno del demonio, il quale ti fa apparire che tu non hai forza di resistere alla passione presente. Primieramente bisogna che sappi che Dio (come dice l’Apostolo) è fedele, e non permette mai che noi siam tentati oltre le nostre forze: «Fidelis autem Deus est, qui non patietur vos tentari supra id quod potestis» (1. Cor. 10. 13). Di più io ti dimando: Se ora non ti fidi5 di resistere, come ti fiderai appresso? Appresso il nemico non lascerà di tentarti ad altri peccati, ed allora egli sarà fatto assai più forte contra di te, e tu più debole. Se dunque non ti fidi ora di spegner questa fiamma, come ti fiderai di spegnerla, dopo ch’ella sarà fatta più grande? Dici: Dio mi darà l’aiuto suo. Ma Dio questo aiuto già presentemente te lo dà; perché tu con questo aiuto non vuoi resistere? Speri forse che Dio abbia da accrescerti gli aiuti e le grazie, dopo che tu hai accresciuti i peccati? E se vuoi al presente maggior aiuto e forza, perché non lo domandi a Dio? Dubiti forse della fedeltà di Dio, che ha promesso di dare tutto ciò che gli si cerca? «Petite et dabitur vobis» (Matth. 7. 7). Iddio non può mancare, ricorri a Lui, ed egli ti darà quella forza che ti bisogna per resistere. «Deus impossibilia non iubet», parla il concilio di Trento,6 «sed iubendo monet et facere quod possis, et petere

  • 219 –
    quod non possis, et adiuvat ut possis» (Sess. 6. c. 13). Dio non comanda cose impossibili, ma dando i precetti, ci ammonisce a fare quel che possiamo coll’aiuto attuale che ci dà; quando7 quell’aiuto non ci bastasse a resistere, ci esorta a cercare maggior aiuto, e chiedendolo8 allora ben Egli ce lo darà.

Preghiera910
Dunque, mio Dio, perché Voi siete stato così buono con me, io sono stato così ingrato con Voi? Abbiamo fatto a gara, io a fuggire da Voi, e Voi a venirmi appresso: Voi a farmi bene, ed io a farvi male. Ah mio Signore, s’altro non fosse, la sola bontà che avete avuta con me mi dovrebbe innamorare di Voi; mentre, dopo ch’io ho accresciuti i peccati, Voi avete accresciute le grazie. E dove meritava io la luce che ora mi date? Signore mio, ve ne ringrazio con tutto il cuore e spero di venire a ringraziarvene per tutta l’eternità in paradiso. Io spero al11 vostro sangue di salvarmi, e lo spero certo, giacché mi avete usate tante misericordie. Spero intanto che mi darete forza di non tradirvi più. Io propongo colla grazia vostra di morir prima mille volte, che tornare ad offendervi. Basta quanto v’ho offeso. Nella vita che mi resta, io vi voglio amare. E come non amerò un Dio, che dopo d’esser morto per me, mi ha sopportato con tanta pazienza, con tante ingiurie, che gli ho fatte? Dio dell’anima mia, me ne pento con tutto il cuore; vorrei morirne di dolore. Ma se per lo passato vi ho voltate le spalle, ora v’amo sopra ogni cosa, v’amo più di me stesso. Eterno Padre, per li meriti di Gesu-Cristo soccorrete un misero peccatore, che vi vuole amare.

Maria speranza mia, aiutatemi Voi; impetratemi la grazia di ricorrere sempre al vostro Figlio, ed a Voi, ogni volta che il demonio mi tenta ad offenderlo di nuovo.

PUNTO II

Dice: «Dio è di misericordia». Ecco il terzo inganno comune de’ peccatori, per cui moltissimi si dannano. Scrive un dotto autore1 che ne manda più all’inferno la misericordia di Dio, che non ne manda la giustizia; perché questi miserabili, confidano temerariamente alla2 misericordia, non lasciano di peccare, e così si perdono. Iddio è di misericordia, chi lo nega; ma ciò non ostante, quanti ogni giorno Dio ne manda all’inferno! Egli è misericordioso, ma è ancora giusto, e perciò è obbligato a castigare chi l’offende. Egli usa misericordia, ma a chi? a chi lo teme. «Misericordia sua super timentes se… Misertus est Dominus timentibus se» (Ps. 102. 11. 13). Ma con chi lo disprezza e si abusa della sua misericordia per più disprezzarlo, Egli usa giustizia. E con ragione; Dio perdona il peccato, ma non può perdonare la volontà di peccare. Dice S. Agostino3 che chi pecca col pensiero di pentirsene dopo d’aver peccato, egli non è penitente, ma è uno schernitore di Dio: «Irrisor est, non poenitens». Ma all’incontro ci fa sapere l’Apostolo che Dio non si fa burlare: «Nolite errare, Deus non irridetur» (Gal. 6. 7).Sarebbe un burlare Dio offenderlo come piace, e quanto piace, e poi pretendere il paradiso.

«Ma siccome Dio m’ha usate tante misericordie per lo passato, e non m’ha castigato, così spero che mi userà misericordia per l’avvenire». Ecco il quarto inganno. Dunque perché Dio ha avuta compassione di te, per questo ti ha da usare sempre misericordia, e non ti ha da castigare mai? Anzi no, quanto più sono state le misericordie, che

  • 221 –
    Egli t’ha usate, tanto più devi tremare, che non ti perdoni più e ti castighi, se di nuovo l’offendi. «Ne dicas: Peccavi, et quid accidit mihi triste? Altissimus enim est patiens redditor» (Eccli. 5. 4). Non dire (avverte l’Ecclesiastico), ho peccato e non ho avuto alcun castigo; perché Dio sopporta; ma non sopporta sempre. Quando giunge il termine da Lui stabilito delle misericordie, che vuol usare ad un peccatore, allora gli dà il castigo tutto insieme de’ suoi peccati. E quanto più l’ha aspettato a penitenza, tanto più lo punisce, come dice S. Gregorio:4 «Quos diutius exspectat, durius damnat».

Se dunque tu vedi, fratello mio, che molte volte hai offeso Dio, e Dio non t’ha mandato all’inferno, dei dire: «Misericordiae Domini, quia non sumus consumti» (Thren. 3. 22). Signore, ti ringrazio, che non m’hai mandato all’inferno, com’io meritava. Pensa, quanti per meno peccati de’ tuoi si son dannati. E con questo pensiero cerca di compensare l’offese, che hai fatte a Dio, colla penitenza e con altre opere buone. Questa pazienza, che Dio ha avuta con te, dee animarti, non già a più disgustarlo, ma a più servirlo ed amarlo, vedendo ch’egli ha fatte a te tante misericordie, che non ha fatte agli altri.

Preghiera5
Gesù mio crocifisso, mio Redentore e mio Dio, ecco il traditore a’ piedi vostri. Mi vergogno di comparirvi avanti. Quante volte io v’ho burlato? quante volte v’ho promesso di non offendervi più, ma le promesse mie sono stati tutti tradimenti; mentre quando è venuta l’occasione, mi sono scordato di Voi e di nuovo vi ho voltate le spalle. Vi ringrazio che a quest’ora non mi fate star nell’inferno, ma mi tenete a’ piedi vostri, e m’illuminate e mi chiamate al vostro amore. Sì che vi voglio amare, mio Salvatore e mio Dio, e non vi voglio più disprezzare. Basta quanto m’avete sopportato. Vedo che non potete più sopportarmi. Povero me, se dopo tante grazie io tornassi ad offendervi! Signore, io risolutamente voglio mutar vita; e quanto v’ho offeso, tanto vi voglio amare. Mi consolo che ho che fare con una bontà infinita, qual siete Voi. Mi pento sopra ogni male

  • 222 –
    di avervi così disprezzato, e vi prometto tutto il mio amore per l’avvenire. Perdonatemi Voi per li meriti della vostra passione: scordatevi dell’ingiurie che vi ho fatte, e datemi forza d’esservi fedele nella vita che mi resta. V’amo, mio sommo bene, e spero di sempre amarvi. Caro mio Dio, non voglio lasciarvi più.

O Madre di Dio Maria, legatemi con Gesu-Cristo, ed ottenetemi la grazia di non partirmi più da’ piedi suoi; in Voi confido.

PUNTO III

«Ma io son giovine; Dio compatisce la gioventù; appresso mi darò a Dio». Siamo al quinto inganno. Sei giovine? ma non sai che Dio non conta gli anni: ma conta i peccati di ciascuno? Sei giovine? ma quanti peccati hai fatti? Vi saranno molti vecchi, che non saranno giunti a far neppure la decima parte de’ peccati da te commessi. E non sai che ‘l Signore ha stabilito il numero e la misura de’ peccati, che a ciascun vuol perdonare? «Dominus patienter exspectat», dice la Scrittura, «ut eas, cum iudicii dies advenerit, in plenitudine peccatorum puniat» (2. Machab. 6. 14). Viene a dire che Dio ha pazienza ed aspetta sino a certo segno, ma quando è già piena la misura de’ peccati, ch’egli ha determinata di perdonare, non più perdona, e castiga il peccatore, o con mandargli subito la morte nello stato in cui si trova di dannazione, o pure l’abbandona nel suo peccato, il quale castigo è peggior della morte. «Auferam sepem eius, et erit in direptionem» (Isa. 5. 5). Se voi avete un territorio e l’avete circondato di siepe, l’avete coltivato per più anni, e vi avete fatte molte spese, e vedete che ‘l territorio con tutto ciò non vi rende alcun frutto; voi che fate? ne togliete la siepe, e lo lasciate in abbandono. Così tremate, che Dio non faccia con voi. Se voi seguirete a peccare, anderete perdendo il rimorso della coscienza, non penserete più né all’eternità, né all’anima vostra, perderete quasi ogni luce, perderete il timore: ecco tolta la siepe, ed ecco già arrivato l’abbandono di Dio.

Veniamo all’ultimo inganno. Voi dite: «È vero che con questo peccato io perdo la grazia di Dio, e resto condannato all’inferno, e può già essere che per questo peccato mi danno; ma può essere ancora ch’io appresso mi confessi e mi salvi». Sì signore, io te lo concedo che può essere che ancora ti salvi, perché finalmente io non son profeta,

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    perciò non posso dire per certo che dopo questo peccato Dio non ti userà più misericordia. Ma non mi puoi negare che dopo tante grazie che ‘l Signore t’ha fatte, se ora lo torni ad offendere, è molto facile che resti perduto. Così parlano le Scritture: «Cor durum male habebit in novissimo» (Eccli. 3. 27). Il cuore ostinato in morte anderà male. «Qui malignantur, exterminabuntur» (Ps. 36. 9). I maligni finalmente saranno esterminati dalla divina giustizia. «Quae seminaverit homo, haec et metet» (Gal. 6. 8). Chi semina peccati, in fine non raccoglierà che pene e tormenti. «Vocavi, et renuistis… in interitu vestro ridebo, et subsannabo vos» (Prov. 1. 24).1 Vi ho chiamati, dice Dio, e voi vi siete burlati di me; nella vostra morte io mi burlerò di voi. «Mea est ultio, et ego retribuam in tempore» (Deut. 32. 35). Ame spetta la vendetta de’ peccati, ed io te la renderò, quando giungerà il tempo. Così dunque parlano le Scritture de’ peccatori ostinati. Così cerca2 la giustizia e la ragione. Tu mi dici: «Ma può essere che con tutto questo pure mi salvi». Ed io ritorno a dire che sì signore, può essere: ma che pazzia, dico, è l’appoggiare la salute eterna dell’anima ad un «può essere», e ad un «può essere» poi così diffícile? È negozio questo da metterlo in sì gran pericolo?

Preghiera3
Caro mio Redentore, io prostrato a’ vostri piedi vi ringrazio che dopo tanti peccati non mi avete abbandonato. Quanti che meno di me v’hanno offeso, non avranno la luce, che al presente Voi a me donate! Vedo che proprio mi volete salvo, ed io principalmente per darvi gusto voglio salvarmi, voglio venire a cantare in cielo eternamente queste tante misericordie, che mi avete usate. Io spero che a quest’ora già m’abbiate perdonato; ma se mai io mi trovassi ancora in disgrazia vostra, perché non ho saputo pentirmi come dovea delle offese, che vi ho fatte, ora me ne pento con tutta l’anima mia, me ne dispiace sopra ogni male. Perdonatemi Voi per pietà, ed accrescete sempre più in me il dolore d’aver offeso Voi, mio Dio così buono. Datemi dolore, e datemi amore. Io v’amo sopra ogni cosa, ma v’amo

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    troppo poco, voglio amarvi assai; e quest’amore a Voi lo domando, e da Voi lo spero. Esauditemi, Gesù mio; Voi avete promesso di esaudir chi vi prega.

O Madre di Dio Maria, tutti mi dicono che Voi non lasciate partire sconsolato chi a Voi si raccomanda. O speranza mia dopo Gesù, a Voi ricorro, e in Voi confido; raccomandatemi al vostro Figlio e salvatemi.

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CONSIDERAZIONE XXIV – DEL GIUDIZIO PARTICOLARE

«Omnes enim nos manifestari oportet ante tribunal Christi» (2. Cor. 5. 10).

PUNTO I

Consideriamo la comparsa, l’accusa, l’esame e la sentenza. E parlando prima della comparsa dell’anima dinanzi al giudice, è comune sentenza de’ Teologi che il giudizio particolare si fa nel punto stesso che l’uomo spira; e che nel luogo medesimo dove l’anima si separa dal corpo, ella è giudicata da Gesu-Cristo, il quale non manderà, ma verrà Egli stesso a giudicar la di lei causa. «Qua hora non putatis, Filius hominis veniet» (Luca 12. 40). «Veniet nobis in amore (dice S. Agostino),1 impiis in tremore». Oh quale spavento avrà chi vedrà la prima volta il Redentore, e lo vedrà sdegnato! «Ante faciem indignationis eius quis stabit?» (Naum 1. 6). Ciò considerando il P. Luigi da Ponte,2 tremava in tal modo, che facea tremare anche la cella dove stava. il V.P. Giovenale Ancina,3 sentendo cantare la «Dies illa», al pensiero del terrore che avrà l’anima in dovere esser presentata al giudizio, risolse di lasciar il mondo, come in effetto lo lasciò. Il vedere lo sdegno del giudice sarà l’avviso della condanna: «Indignatio regis, nuntii mortis» (Prov. 16. 14). Dice S. Bernardo4 che allora l’anima patirà più in vedere

  • 226 –
    Gesù sdegnato, che nello stare nel medesimo inferno: «Mallet esse in inferno».

Alle volte si son veduti i rei sudar freddo, in esser presentati avanti a qualche giudice di terra. Pisone5 comparendo in senato colla veste da reo, sentì tanta confusione che volontariamente si uccise. Che pena è ad un figlio,6 o ad un vassallo vedere il padre, o il principe gravemente sdegnato? Oh qual altra pena maggiore proverà quell’anima in vedere Gesu-Cristo da lei in vita disprezzato! «Videbunt in quem transfixerunt» (Zach. 12. 10).7 Quell’agnello che in vita ha avuta tanta pazienza, l’anima poi lo vedrà irato, senza speranza più di placarlo; ciò la indurrà a pregare i monti a caderle sopra, e così nasconderla dal furore dell’agnello sdegnato. «Montes cadite super nos, abscondite nos ab ira Agni» (Apoc. 6. 16).8 Dice S. Luca parlando del giudizio: «Tunc videbunt Filium hominis» (21. 27). Il vedere il giudice in forma d’uomo, oh qual pena apporterà al peccatore! perché dalla vista di tal uomo morto per la sua salute, si sentirà maggiormente rimproverare la sua ingratitudine. Quando il Salvatore ascese al cielo, dissero gli angeli a’ discepoli: «Hic Iesus qui assumptus est a vobis in coelum, sic veniet, quemadmodum vidistis eum euntem in coelum» (Act. 1. 11). Verrà dunque il giudice a giudicare colle stesse piaghe, colle quali si partì dalla terra. «Grande gaudium intuentium! grandis timor exspectantium»,9 dice Ruperto.10 Quelle piaghe consoleranno i giusti, ma spaventeranno i peccatori. Allorché Giuseppe disse a’ fratelli: «Ego sum Ioseph, quem vendidistis»,

  • 227 –
    dice la Scrittura che quelli per lo terrore si tacquero, e perderono la parola: «Non poterant respondere fratres, nimio terrore perterriti» (Gen. 45. 3). Or che risponderà il peccatore a Gesu-Cristo? Forse avrà animo di cercargli11 pietà; quando primieramente dovrà rendergli conto del disprezzo ch’ha fatto della pietà usatagli? «Qua fronte (Eusebio Emisseno)12 misericordiam petes, primum de misericordiae contemtu iudicandus?» Che farà dunque, dice S. Agostino;13 dove fuggirà, quando vedrà di sopra il giudice sdegnato, di sotto l’inferno aperto, da un lato i peccati che l’accusano, dall’altro i demoni accinti ad eseguir la pena, e di dentro la coscienza che rimorde? «Superius erit iudex iratus, inferius horrendum chaos, a dextris peccata accusantia, a sinistris daemonia ad supplicium trahentia, intus conscientia urens? quo fugiet peccator sic comprehensus?»
  • 228 –
    Affetti e preghiere
    O Gesù mio, voglio chiamarvi sempre Gesù; il vostro nome mi consola e mi dà animo, ricordandomi che voi siete il mio Salvatore, il quale siete morto per salvarmi. Eccomi a’ piedi vostri, io confesso che sono reo di tanti inferni, per quante volte vi ho offeso con peccato mortale. Io non merito perdono; ma Voi siete morto per perdonarmi. «Recordare Iesu pie, quod sum causa tuae viae».14 Presto Gesù mio, perdonatemi, prima di venire a giudicarmi. Allora non vi potrò più cercare15 pietà: ora posso domandarvela, e la spero. Allora le vostre piaghe mi spaventeranno, ma ora mi dan confidenza. Caro mio Redentore, mi pento più d’ogni male di aver offesa la vostra bontà infinita. Propongo prima di accettare ogni pena, ogni perdita, che perdere la grazia vostra. V’amo con tutto il mio cuore. Abbiate pietà di me: «Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam».16
    O Maria Madre di misericordia, o avvocata de’ peccatori, ottenetemi Voi un gran dolore de’ miei peccati, il perdono e la perseveranza nel divino amore. Io v’amo, Regina mia, ed in Voi confido.

PUNTO II

Considera l’accusa e l’esame. «Iudicium sedit, et libri aperti sunt» (Dan. 9).1 Due saranno questi libri, il Vangelo e la coscienza. Nel Vangelo si leggerà quel che il reo doveva fare, nella coscienza quel che ha fatto: «Videbit unusquisque quod fecit», S. Girolamo.2 Nella bilancia

  • 229 –
    della divina giustizia non si peseranno allora le ricchezze, la dignità3 e la nobiltà delle persone, ma solamente l’opere. «Appensus es in statera (disse Daniele al re Baltassarre),4 et inventus es minus habens» (Dan. 5. 27). Commenta il P. Alvarez:5 «Non aurum, non opes in stateram veniunt, solus rex appensus est». Verranno allora gli accusatori, e per prima il demonio. «Praesto erit diabolus (dice S. Agostino)6 ante tribunal Christi, et recitabit verba professionis tuae. Obiiciet nobis in faciem omnia quae fecimus, in qua die, in qua hora peccavimus» (S. Aug. Cont. Iul. tom. 6). «Recitabit verba professionis tuae», viene a dire che presenterà le stesse nostre promesse, alle quali poi abbiamo7 mancato; ed addurrà tutte le colpe, segnando il giorno e l’ora in cui l’abbiamo commesse. Indi dirà al giudice, come scrive S. Cipriano:8 «Ego pro istis nec alapas, nec flagella sustinui». Signore, io per questo reo non ho patito niente, ma esso ha lasciato Voi che siete morto per salvarlo, per farsi schiavo mio; ond’esso a me tocca. Accusatori saranno anche gli angeli custodi, come dice
  • 230 –
    Origene:9 «Unusquisque Angelorum testimonium perhibet, quot annis circa eum laboraverit, sed ille monita sprevit» (Orig. Hom. 66). Sicché allora: «Omnes amici eius spreverunt eam» (Ier. 51).10 Accusatrici saranno le mura, tra le quali quel reo avrà peccato! «Lapis de pariete clamabit» (Abac. 2. 11). Accusatrice sarà la stessa coscienza: «Testimonium reddente illis conscientia ipsorum in die, cum iudicabit Deus» (Rom. 2).11 Gli stessi peccati allora, dice S. Bernardo,12 parleranno, «et dicent: Tu nos fecisti, opera tua sumus, non te deseremus» (Lib. Medit. cap. 2). Accusatrici finalmente saranno, come dice il Grisostomo,13 le piaghe di Gesu-Cristo: «Clavi de te conquerentur: cicatrices contra te loquentur: crux Christi contra te perorabit» (Chrysost. Hom. in Matth.). Indi si verrà all’esame.

Dice il Signore: «Ego in die illa scrutabor Ierusalem in lucernis» (Soph. 1. 12).14 La lucerna, dice il Mendoza,15 penetra tutti gli angoli della casa: «Lucerna omnes angulos permeat». E Cornelio a Lapide,16

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    spiegando la parola «in lucernis», dice che allora Dio metterà avanti al reo gli esempi de’ santi e tutt’i lumi ed ispirazioni che gli ha dato in vita; ed anche tutti gli anni che gli ha concessi a far bene. «Vocavit adversum me tempus» (Thren. 1. 15). Sicché allora avrai da render conto d’ogni occhiata. «Exigitur a te usque ad ictum oculi», S. Anselmo.17 «Purgabit filios Levi, et colabit eos» (Malach. 3. 3). Siccome si cola l’oro, separandone la scoria, così si avranno da esaminare le opere buone, le confessioni, le comunioni ecc. «Cum accepero tempus, ego iustitias iudicabo» (Ps.74. 3). In somma, dice S. Pietro che nel giudizio il giusto appena si salverà: «Si iustus vix salvabitur, impius et peccator ubi parebunt?» (1. Petr. 4. 18). Se ha da rendersi conto d’ogni parola oziosa, qual conto si renderà di tanti mali pensieri acconsentiti? di tante parole disoneste? S. Gregorio:18 «Si de verbo otioso ratio poscitur, quid de verbo impuritatis?» Specialmente dice il Signore (parlando degli scandalosi che gli han rubate l’anime): «Occuram eis quasi ursa raptis catulis» (Osea 13. 8). Parlando poi dell’opere dirà il giudice: «Date ei de fructu manuum suarum» (Prov. 31).19 Pagatelo secondo le opere che ha fatte.

Affetti e preghiere
Ah Gesù mio, se voleste ora pagarmi secondo l’opere che ho fatte, non mi toccherebbe altro che l’inferno. Oh Dio quante volte io stesso m’ho scritta la mia condanna a quel luogo di tormenti! Vi ringrazio della pazienza, che avete avuta in tanto sopportarmi. Oh Dio, se ora dovessi comparire al vostro tribunale, qual conto vi renderei della vita mia? «Non intres in iudicium cum servo tuo».20 Deh Signore,

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    aspettatemi un altro poco, non mi giudicate ancora. Se ora voleste giudicarmi, che ne sarebbe di me? Aspettatemi; giacché mi avete usate tante misericordie sinora, usatemi quest’altra, datemi un gran dolore de’ miei peccati. Mi pento, o sommo bene, d’avervi tante volte disprezzato. Vi amo sopra ogni cosa. Eterno Padre, perdonatemi per amore di Gesu-Cristo, e per li meriti suoi concedetemi la santa perseveranza. Gesù mio, tutto spero al21 vostro sangue.

Maria SS. in Voi confido. «Eia ergo advocata nostra, illos tuos misericordes oculos ad nos converte».22 Guardate le mie miserie ed abbiate pietà di me.

PUNTO III

In somma l’anima per conseguir la salute eterna, ha da trovarsi nel giudizio colla vita fatta conforme alla vita di Gesu-Cristo. «Quos praescivit, et praedestinavit conformes fieri imaginis Filii sui» (Rom. 8. 29). Ma ciò era quello che faceva tremare Giobbe.1 «Quid faciam, cum surrexerit ad iudicandum Deus? et cum quaesierit, quid respondebo illi?» Filippo II,2 avendogli un suo domestico detta una bugia, lo rimproverò dicendogli: «Così m’inganni?» Quel miserabile ritornato in casa, se ne morì di dolore. Che farà, che risponderà il peccatore a Gesu-Cristo giudice? Farà quel che fece colui del Vangelo, che venne senza la veste nuziale, tacque, non sapendo che rispondere. «At ille obmutuit» (Matth. 22. 12). Lo stesso peccato gli otturerà la bocca: «Omnis iniquitas oppilabit os suum» (Psal. 106. 42). Dice S. Basilio3 che ‘l peccatore allora sarà più tormentato dal rossore,

  • 233 –
    che dallo stesso fuoco dell’inferno: «Horridior, quam ignis, erit pudor».

Ecco finalmente il giudice darà la sentenza. «Discede a me, maledicte, in ignem aeternum».4 Oh che tuono terribile sarà questo! «Oh quam terribiliter personabit tonitruum illud!» Il Cartusiano.5 Dice S. Anselmo:6 «Qui non tremit ad tantum tonitruum, non dormit, sed mortuus est». E soggiunge Eusebio7 che sarà tanto lo spavento de’ peccatori in sentirsi proferir la condanna, che se potessero morire, di nuovo morirebbero: «Tantus terror invadet malos, cum viderint iudicem sententiam proferentem, ut nisi essent immortales, iterum morerentur». Allora, dice S. Tommaso da Villanova,8 non si dà più luogo a preghiere; né vi sono più intercessori, a cui ricorrere: «Non ibi precandi locus; nullus intercessor assistet, non amicus, non pater». A chi allora dunque ricorreranno? Forse a Dio, che han così disprezzato? «Quis te eripiet, Deusne ille, quem contempsisti?»9 (S. Basil. Orat. 4. de Poenit.).

  • 234 –
    Forse a’ santi? a Maria? No, perché allora: «Stellae (che sono i santi avvocati) cadent de coelo; et luna (ch’è Maria) non dabit lumen suum» (Matth. 24).10 Dice S. Agostino:11 «Fugiet a ianua paradisi Maria» (Serm. 3. ad Fratres).

Oh Dio, esclama S. Tommaso da Villanova,12 e con qual’indifferenza sentiamo parlar del giudizio, quasi a noi non potesse toccar la sentenza di condanna! o come noi non avessimo ad esser giudicati! «Heu quam securi haec dicimus, et audimus, quasi nos non tangeret haec sententia, aut quasi dies ille nunquam esset venturus!» (Conc. I. de Iudic.). E qual pazzia, soggiunge lo stesso santo,13 è lo star sicuro in cosa di tanto pericolo! «Quae est ista stulta securitas in discrimine tanto!» Non dire, fratello mio, ti avverte S. Agostino:14 Eh che Dio vorrà proprio mandarmi all’inferno? «Nunquid Deus vere damnaturus est?» Nol dire, dice il santo, perché anche gli ebrei non sel persuadevano d’esser esterminati; tanti dannati non sel credevano d’esser mandati all’inferno; ma poi è venuta la fine del castigo: «Finis venit, venit finis: nunc immittam furorem meum in te, et iudicabo» (Ez. 7. 6).15 E così ancora, dice S. Agostino, avverrà anche a te: «Veniet

  • 235 –
    iudicii dies, et invenies verum, quod minatus est Deus». Al presente a noi sta di sceglier la sentenza che vogliamo: «In potestate nostra (dice S. Eligio)16 datur, qualiter iudicemur». E che abbiamo da fare? aggiustare i conti prima del giudizio: «Ante iudicium para iustitiam» (Eccli. 18. 19). Dice S. Bonaventura17 che i mercanti prudenti, per non fallire, spesso rivedono ed aggiustano i conti. «Iudex ante iudicium placari potest, in iudicio non potest», S. Agostino.18 Diciamo dunque al Signore, come diceva S. Bernardo:19 «Volo iudicatus praesentari, non iudicandus». Giudice mio, voglio che ora in vita mi giudicate e mi punite,20 or ch’è tempo di misericordia, e mi potete perdonare; perché dopo morte sarà tempo di giustizia.

Affetti e preghiere
Mio Dio, se non vi placo ora, allora non sarà più tempo di placarvi. Ma come vi placherò io, che tante volte ho disprezzata la vostra amicizia per miseri gusti brutali? Io ho pagato d’ingratitudine il vostro immenso amore. Qual soddisfazione mai degna può dare una creatura per le offese fatte al suo Creatore? Ah mio Signore, vi ringrazio che la vostra misericordia mi ha dato già il modo di placarvi e di soddisfarvi. Vi offerisco il sangue e la morte di Gesù vostro Figlio, ed ecco che già vedo placata e soprabbondantemente soddisfatta la vostra giustizia. È necessario a ciò anche il mio pentimento. Sì, mio Dio, mi pento con tutt’il22 cuore di tutte le ingiurie che v’ho fatte. Giudicatemi dunque ora, o mio Redentore. Io detesto tutt’i disgusti che vi ho dati sopra ogni male. V’amo sopra ogni cosa con tutt’il mio cuore; e propongo di sempre amarvi; e di morire prima che più offendervi. Voi avete promesso di perdonar chi si pente; via su giudicatemi ora, ed assolvetemi da’ peccati.23 Accetto la pena che merito, ma restituitemi nella vostra grazia, e conservatemi in questa sino alla morte. Così spero.

O Maria Madre mia, vi ringrazio di tante misericordie che m’avete impetrate; deh seguite a proteggermi sino alla fine.

CONSIDERAZIONE XXV – DEL GIUDIZIO UNIVERSALE

«Cognoscetur Dominus iudicia faciens» (Ps. 9. 17).

PUNTO I

Al presente, se ben si considera, non v’è nel mondo persona più disprezzata di Gesu-Cristo. Si fa più conto d’un villano che non si fa conto di Dio; perché si teme che quel villano, vedendosi troppo offeso, mosso a sdegno, si vendichi: ma a Dio si fanno ingiurie, e se gli replicano alla libera, come se Dio non potesse vendicarsi, quando vuole. «Et quasi nihil possit facere Omnipotens, aestimabant eum» (Iob. 22. 17). Ma perciò il Redentore ha destinato un giorno, che sarà il giorno del giudizio universale (chiamato appunto dalle Scritture, «Dies Domini»),1 nel quale Gesu-Cristo vorrà farsi conoscere per quel gran Signore ch’Egli è. «Cognoscetur Dominus iudicia faciens» (Psal. 9. 17). Quindi un tal giorno si chiama non più giorno di misericordia e di perdono, ma «Dies irae, dies tribulationis, et angustiae, dies calamitatis, et miseriae» (Soph. 1. 15). Sì, perché allora giustamente vorrà il Signore risarcirsi l’onore, che han cercato di torgli i peccatori in questa terra. Vediamo come avverrà il giudizio di questo gran giorno.

Prima di venire il giudice, «Ignis ante Ipsum praecedet» (Psal. 96. 3). Verrà fuoco dal cielo, che brucerà la terra e tutte le cose di questa terra. «Terra, et quae in ipsa sunt opera, exurentur» (2. Petr. 3. 10). Sicché palagi, chiese, ville, città, regni, tutti han da diventare un mucchio di cenere. Dee purgarsi col fuoco questa casa appestata di peccati. Ecco il fine che avran da avere tutte le ricchezze, le pompe e le delizie di questa terra. Morti che saranno gli uomini, suonerà la tromba e tutti risorgeranno. «Canet enim tuba, et mortui resurgent» (1. Cor. 15. 52). Dice S. Girolamo (in Matth. cap. 5):2 «Quoties diem

  • 238 –
    iudicii considero, contremisco; semper videtur illa tuba insonare auribus meis: Surgite, mortui, venite ad iudicium». Al suono di questa tromba scenderanno l’anime belle de’ beati ad unirsi coi loro corpi, con cui han servito a Dio in questa vita; e l’anime infelici de’ dannati saliranno dall’inferno ad unirsi con quei corpi maledetti, co’ quali hanno offeso Dio.

Oh che differenza ci sarà allora tra i corpi de’ beati e quelli dei dannati. Ibeati compariranno belli, candidi, risplendenti più che il sole. «Tunc iusti fulgebunt sicut sol» (Matth. 13. 43). Oh felice chi in questa vita sa mortificar la sua carne, con negarle i piaceri vietati; e per tenerla più a freno, le nega anche i gusti leciti del senso, la maltratta, come han fatto i santi! Oh quanto allora se ne troverà contento, come un S. Pietro d’Alcantara, che dopo morte disse a S. Teresa:3 «O felix poenitentia, quae tantam mihi promeruit gloriam!» All’incontro i corpi de’ reprobi compariranno deformi, neri e puzzolenti.

  • 239 –
    O che pena avrà allora il dannato in riunirsi col suo corpo! Corpo maledetto, dirà l’anima, che per contentare te io son perduta. E ‘l corpo dirà: Anima maledetta, e tu che avevi in mano la ragione, perché mi hai conceduti quelli4 gusti, che han fatto perdere te e me per tutta l’eternità.

Affetti e preghiere
Ah Gesù mio e mio Redentore, che un giorno avete da essere5 il giudice mio, perdonatemi prima che arrivi questo giorno. «Non avertas faciem tuam a me».6 Ora mi siete padre, e qual padre ricevete in grazia vostra un figlio, che ritorna pentito ai piedi vostri.7 Padre mio, vi cerco8 perdono, vi ho offeso a torto, vi ho lasciato a torto; non ve lo meritavate, come io vi ho trattato; me ne pento, me ne addoloro con tutto il cuore; perdonatemi. «Non avertas faciem tuam a me»: non mi voltate la faccia, non mi discacciate, come io meriterei. Ricordatevi del sangue, che per me avete sparso, ed abbiate pietà di me. Gesù mio, io non voglio altro giudice che voi. Dicea S. Tommaso da Villanova:9 «Libenter illius iudicium subeo, qui pro me mortuus est, et ne me damnaret, ad crucem se damnari permisit». E ciò lo disse prima S. Paolo: «Quis est, qui condemnet? Christus Iesus, qui mortuus est» (Rom. 8).10
Padre mio, io vi amo, e per l’avvenire non voglio partirmi più da’ piedi vostri. Scordatevi delle ingiurie che vi ho fatte, e datemi un grande amore verso la vostra bontà. Io desidero d’amarvi più di quanto vi ho offeso; ma se Voi non mi aiutate, io non posso amarvi.

Aiutatemi, Gesù mio, fatemi vivere grato al vostro amore, acciocché in quel giorno mi ritrovi nella valle tra ‘l numero de’ vostri amanti.

O Maria, Regina ed avvocata mia, aiutatemi ora, perché se mi perdo, in quel giorno non potrete aiutarmi più. Voi pregate per tutti,

  • 240 –
    pregate anche per me, che mi vanto di esser vostro servo divoto, e tanto in voi confido.

PUNTO II

Risorti che saranno gli uomini, sarà loro intimato dagli angeli che vadano tutti alla valle di Giosafat, per essere ivi giudicati: «Populi, populi in valle concisionis, quia iuxta est dies Domini» (Ioel. 3. 14). Radunati poi che saranno ivi, verranno gli angeli e segregheranno i reprobi dagli eletti. «»Exibunt angeli, et separabunt malos de medio iustorum» (Matth. 13. 49). I giusti resteranno alla destra e i dannati saran cacciati alla sinistra. Che pena sarebbe a taluno il vedersi discacciato dalla conversazione o dalla chiesa! Ma quale altra pena sarà allora il vedersi discacciare dalla compagnia dei santi: «Quomodo putas impios confundendos, quando, segregatis iustis, fuerint derelicti!» (Auct. op. imperf. hom. 54). Dice il Grisostomo1 che se i dannati non avessero altra pena, questa sola confusione basterebbe a fare il loro inferno: «Et si nihil ulterius paterentur, ista sola verecundia sufficeret eis ad poenam» (In Matth. cap. 54). Il figlio sarà separato dal padre, il marito dalla moglie, il padrone dal servo: «Unus assumetur, et alter relinquetur» (Matth.24. 40).2 Dimmi, fratello mio, qual luogo pensi che allora ti toccherà? Vorresti trovarti alla destra? lascia dunque la via, che ti porta alla sinistra.

Ora in questa terra son tenuti per fortunati i principi, i ricchi, e son disprezzati i santi, che vivono poveri ed umili. O fedeli, che amate Dio, non vi accorate, in vedervi sì vilipesi e tribolati in questa terra: «Tristitia vertetur in gaudium» (Io. 16. 20). Allora voi sarete chiamati i veri fortunati, e avrete l’onore di esser dichiarati della

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    corte di Gesu-Cristo. Oh che bella figura che farà allora un S. Pietro di Alcantara,3 il quale fu vilipeso quasi apostata! un S. Giovanni di Dio,4 che fu trattato da pazzo! un S. Pietro Celestino,5 che avendo rinunziato il papato, morì dentro una carcere! Oh quali onori avranno allora tanti martiri straziati da’ carnefici! «Tunc laus erit unicuique a Deo» (1. Cor. 4. 5). Ed oh che figura orribile all’incontro farà un Erode, un Pilato, un Nerone! e tanti altri grandi della terra, ma dannati! Oh amanti del mondo, alla valle, alla valle vi aspetto. Ivi senza dubbio muterete sentimenti. Ivi piangerete la vostra pazzia. Miseri, che per fare una breve comparsa sulla scena di questa terra, avrete poi a far ivi la parte di dannati nella tragedia del giudizio. Gli eletti dunque saran collocati alla destra; anzi per loro maggior gloria (secondo dice l’Apostolo) saranno sollevati in aria sovra le nubi, per andare cogli angeli ad incontro a Gesu-Cristo, che ha da venire dal cielo: «Rapiemur cum illis in nubibus obviam Domino in aëra» (1. Thess. 4. 6). E i dannati come tanti capretti destinati al macello, saran confinati alla sinistra, ad aspettare il loro giudice, che dovrà far la pubblica condanna di tutti i suoi nemici.

Ma ecco già si aprono i cieli, vengono gli angeli ad assistere al giudizio, e portano i segni della passione di Gesu-Cristo: «Veniente Domino ad iudicium (dice S. Tommaso),6 signum crucis, et alia passionis indicia demonstrabuntur» (Opusc. 2. c. 244). Specialmente comparirà la croce: «Et tunc parebit signum Filii hominis in coelo, et tunc plangent omnes tribus terrae» (Matth. 24. 30). Dice Cornelio7

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    a Lapide: Oh come allora al veder la croce piangeranno i peccatori, che in vita non fecer conto della loro salute eterna, che tanto costò al Figlio di Dio! «Plangent qui salutem suam, quae Christo tam cara stetit, neglexerint». Allora dice il Grisostomo:8 «Clavi de te conquerentur, cicatrices contra te loquentur, crux Christi contra te perorabit» (Hom. 20. in Matth.). Assisteranno ancora come assessori a questo giudizio i santi Apostoli e tutti i loro imitatori, che insieme con Gesu-Cristo giudicheranno le genti: «Fulgebunt iusti, iudicabunt nationes» (Sap. 3. 7). Verrà ancora ad assistere la Regina de’ santi e degli angeli, Maria Santissima. In fine verrà l’eterno giudice in un trono di maestà e di luce. «Et videbunt Filium hominis venientem in nubibus coeli, cum virtute multa et maiestate» (Matth. 24. 31). «A facie eius cruciabuntur populi» (Ioel. 2. 6). La vista di Gesu-Cristo consolerà gli eletti, ma a’ reprobi ella apporterà più pena che lo stesso inferno: «Damnatis (dice S. Girolamo)9 melius esset inferni poenas, quam Domini praesentiam ferre». Dicea S. Teresa:10 Gesù mio, datemi ogni pena, e non mi fate vedere la vostra faccia sdegnata con me in quel giorno. E S. Basilio:11 «Superat omnem poenam confusio ista». Allora avverrà quel che predisse S. Giovanni che i dannati pregheranno i monti a cader loro sopra e nasconderli dalla vista del loro giudice irato: «Dicent autem montibus: Cadite super
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    nos, et abscondite nos a facie sedentis super thronum, et ab ira Agni» (Apoc. 6. 6).12
    Affetti e preghiere
    O caro mio Redentore, o agnello di13 Dio, che siete venuto al mondo, non già a castigare, ma a perdonare i peccati, deh perdonatemi presto, prima che venga quel giomo, in cui mi avete da essere14 giudice. Allora la vista di Voi agnello, che avete avuto tanta pazienza con me in sopportarmi, se mai mi perdessi, sarebbe l’inferno del mio inferno. Deh replico, perdonatemi presto, cacciatemi colla vostra mano pietosa dal precipizio, dove mi trovo caduto per li miei peccati. Mi pento, o sommo bene, di avervi offeso, e tanto offeso. Vi amo giudice mio, che tanto mi avete amato. Deh per li meriti della vostra morte datemi una grazia grande, che mi muti da peccatore in santo. Voi avete promesso di esaudir chi vi prega: «Clama ad me et exaudiam te» (Iob. 33. 3). Io non vi chiedo beni di terra, domando la grazia vostra, il vostro amore, e non altro. Esauditemi, Gesù mio, per quell’amore, che mi portaste morendo per me sulla croce. Amato giudice mio, io sono il reo, ma un reo che vi ama più di se stesso. Abbiate pietà di me.

Maria Madre mia, presto, aiutatemi presto, ora è tempo che potete aiutarmi. Voi non mi avete abbandonato, quando io vivea scordato di Voi e di Dio, soccorretemi ora che sto risoluto di volervi sempre servire, e di non offendere più il mio Signore. O Maria, Voi siete la speranza mia.

PUNTO III

Ma ecco già comincia il giudizio. Si aprono i processi, che saranno le coscienze di ciascuno: «Iudicium sedit et libri aperti sunt» (Dan. 7. 10). I testimoni contro i reprobi saranno per prima i demoni che diranno (secondo S. Agostino):1 «Aequissime Deus, iudica esse

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    meum qui tuus esse noluit» Saran per secondo le proprie coscienze: «Testimonium reddente illis conscientia ipsorum» (Rom. 2. 15). Di più saran testimoni che grideranno vendetta, le stesse mura di quella casa dove i peccatori hanno offeso Dio. «Lapis de pariete clamabit» (Habac. 2. 11). Testimonio sarà finalmente lo stesso giudice, ch’è stato presente a tutte le offese a Lui fatte. «Ego sum iudex, et testis, dicit Dominus» (Ier. 29. 23). Dice S. Paolo che allora il Signore «illuminabit abscondita tenebrarum» (1. Cor. 4. 5). Farà vedere a tutti gli uomini i peccati de’ reprobi più segreti e vergognosi, che in vita sono stati nascosti ancora a’ confessori. «Revelabo pudenda tua in facie tua» (Nahum 3. 5). I peccati degli eletti, vuole il Maestro delle sentenze2 con altri che allora non si manifesteranno, ma si troveranno coverti,3 secondo quel che disse Davide: «Beati quorum remissae sunt iniquitates, et quorum tecta sunt peccata» (Ps. 31. 1). All’incontro, dice S. Basilio4 che i peccati de’ reprobi si vedranno da tutti con un’occhiata,
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    come in un quadro: «Unico intuitu singula peccata velut in pictura noscentur» (Lib. I. de Ver. Virg.). Dice S. Tommaso (Opusc. 60):5 Se nell’orto di Getsemani in dire Gesu-Cristo, «Ego sum», caddero a terra tutti i soldati ch’eran venuti a prenderlo; che sarà quand’egli sedendo da giudice dirà a’ dannati: Ecco io sono quello che Voi avete così disprezzato? «Quid faciet iudicaturus, qui hoc fecit iudicandus?»

Ma via su, già si viene alla sentenza. Si volterà prima Gesu-Cristo agli eletti e dirà loro quelle dolci parole: «Venite, benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi» (Matth. 25. 34). S. Francesco d’Assisi6 in essergli rivelato ch’era predestinato, non capiva in sé per la consolazione; qual gaudio sarà sentirsi dire allora dal giudice: Venite, figli benedetti, venite al regno; non vi sono più pene per voi, non vi è più timore, già siete e sarete salvi in eterno. Io vi benedico il sangue che sparsi per voi, e vi benedico le lagrime che voi avete sparse per li vostri peccati: andiamo su al paradiso, dove staremo sempre insieme per tutta l’eternità. Benedirà anche Maria SS. i divoti suoi, e l’inviterà a venir seco in cielo, e così cantando «Alleluia, alleluia», entreranno gli eletti in trionfo al paradiso a possedere, a lodare, ed amare Dio in eterno.

All’incontro i dannati rivolti a Gesu-Cristo gli diranno: E noi miseri che ce ne abbiamo da fare? E voi, dirà l’eterno giudice, giacché avete rinunziata e disprezzata la mia grazia, «discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. ibid.).7 «Discedite», spartitevi da me, ch’io non voglio vedervi, né sentirvi più. «Maledicti», andate ed andate maledetti, giacché avete disprezzata la mia benedizione. E dove, Signore, hanno da andare questi miserabili? «In ignem», nell’inferno a bruciare in anima e corpo. E per quanti anni, o per quanti secoli? Che anni, che secoli! «In ignem aeternum», per tutta l’eternità, mentre Dio sarà Dio. Dopo questa sentenza dice S. Efrem9 che i reprobi si licenzieranno dagli angeli, da’ santi, da’ congiunti e dalla divina Madre: «Valete iusti, vale crux, vale paradise. Valete patres ac filii, nullum siquidem vestrum visuri sumus ultra. Vale tu quoque Dei Genitrix Maria» (S. Ephr. de Variis torm. inf.). E così in mezzo alla valle si aprirà poi un gran fossa, dove caderanno insieme demonii e dannati, i quali si sentiranno oh Dio dietro le spalle chiudere quelle porte, che non si avranno da aprire, mai, mai, mai più in eterno. O peccato maledetto, a qual fine infelice avrai un giorno da condurre tante povere anime! O anime infelici, a cui sta riservata una fine così lagrimevole!

Affetti e preghiere
Ah mio Salvatore e Dio, quale sarà la sentenza che mi toccherà in quel giorno? Se ora, Gesù mio, mi dimandaste conto della vita mia, che altro potrei rispondervi, se non dirvi che merito mille inferni? Sì, è vero, caro mio Redentore, merito mille inferni; ma sappiate che v’amo, e v’amo più di me stesso; e delle offese che v’ho fatte ne ho tal dolore, che mi contenterei d’aver patito ogni male, prima che avervi disgustato. Voi condannate, o Gesù mio, i peccatori ostinati, ma non quelli che si pentono e vi vogliono amare. Eccomi a’ piedi vostri pentito, fatemi sentire che mi perdonate. Ma già mel fate sentire per lo profeta: «Convertimini ad me, et convertar ad vos» (Zach. 1. 3). Io lascio tutto, rinunzio a tutti i gusti e beni del mondo, e mi converto e mi abbraccio a Voi, amato mio Redentore. Deh ricevetemi nel vostro santo amore; ma infiammatemi tanto ch’io non pensi più a separarmi da Voi. Gesù mio, salvatemi, e la salute mia sia l’amarvi sempre, e sempre lodare le vostre misericordie. «Misericordias Domini in aeternum cantabo».
Maria speranza, rifugio e Madre mia, aiutatemi ed ottenetemi la santa perseveranza. Niuno mai si è perduto, che a Voi è ricorso. A Voi mi raccomando, abbiate pietà di me.

CONSIDERAZIONE XXVI – DELLE PENE DELL’INFERNO

«Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46).

PUNTO I

Due mali fa il peccatore, allorché pecca, lascia Dio sommo bene, e si rivolta alle creature: «Duo enim mala fecit populus meus, me dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas; cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas» (Ier. 2. 13). Perché dunque il peccatore si volta alle creature con disgusto di Dio, giustamente nell’inferno sarà tormentato dalle stesse creature, dal fuoco e da’ demonii, e questa è la pena del senso. Ma perché la sua colpa maggiore, dove consiste il peccato, è il voltare le spalle a Dio, perciò la pena principale che sarà nell’inferno, sarà la pena del danno. Ch’é1 la pena d’aver perduto Dio.

Consideriamo prima la pena del senso. È di fede che vi è l’inferno. In mezzo alla terra vi è questa prigione riservata al castigo de’ ribelli di Dio. Che cosa è questo inferno? è il luogo de’ tormenti. «In hunc locum tormentorum», così chiamò l’inferno l’Epulone dannato (Luca 16. 28). Luogo di tormenti, dove tutti i sensi e le potenze del dannato hanno da avere il lor proprio tormento; e quanto più alcuno in un senso avrà offeso Dio, tanto più in quel senso avrà da esser tormentato: «Per quae peccat quis, per haec et torquetur» (Sap. 11. 17). «Quantum in deliciis fuit, tantum date illi tormentum» (Apoc. 18. 7).2 Sarà tormentata la vista colle tenebre. «Terram tenebrarum, et opertam mortis caligine» (Iob. 10. 21). Che compassione fa il sentire che un pover’uomo sta chiuso in una fossa oscura per mentre vive, per 40-50 anni di vita! L’inferno è una fossa chiusa da tutte le parti dove non entrerà mai raggio di sole o d’altra luce. «Usque in aeternum non videbit lumen» (Psal. 48. 20). Il fuoco che sulla terra illumina, nell’inferno sarà tutt’oscuro. «Vox Domini intercidentis flammam

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    ignis» (Psal. 28. 7). Spiega S. Basilio:3 Il Signore dividerà dal fuoco la luce, onde tal fuoco farà solamente l’officio di bruciare, ma non d’illuminare; e lo spiega più in breve Alberto Magno:4 «Dividet a calore splendorem». Lo stesso fumo che uscirà da questo fuoco, componerà quella procella di tenebre, di cui parla S. Giacomo, che accecherà gli occhi de’ dannati: «Quibus procella tenebrarum servata est in aeternum» (Iac. 2. 13).5 Dice S. Tommaso (3. p. q. 97. n. 4),6 che a’ dannati è riservato tanto di luce solamente, quanto basta a più tormentarli. «Quantum sufficit ad videndum illa, quae torquere possunt». Vedranno in quel barlume di luce la bruttezza degli altri reprobi e de’ demoni, che prenderanno forme orrende per più spaventarli.

Sarà tormentato l’odorato. Che pena sarebbe trovarsi chiuso in una stanza con un cadavere fracido? «De cadaveribus eorum ascendit foetor» (Is. 34. 3). Il dannato ha da stare in mezzo a tanti milioni d’altri dannati, vivi alla pena, ma cadaveri per la puzza che mandano. Dice S. Bonaventura7 che se un corpo d’un dannato fosse cacciato

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    dall’inferno, basterebbe a far morire per la puzza tutti gli uomini. E poi dicono alcuni pazzi: Se vado all’inferno, non sono solo. Miseri! quanti più sono nell’inferno, tanto più penano. «Ibi (dice S. Tommaso)8 miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit» (S. Thom. Suppl. q. 89. a. 1). Più penano (dico) per la puzza, per le grida e per la strettezza; poiché staran nell’inferno l’un sopra l’altro, come pecore ammucchiate in tempo d’inverno: «Sicut oves in inferno positi sunt» (Psal. 48. 15). Anzi più, staran come uve spremute sotto il torchio dell’ira di Dio. «Et ipse calcat torcular vini furoris irae Dei» (Apoc. 19. 15). Dal che ne avverrà poi la pena dell’immobilità. «Fiant immobiles quasi lapis» (Exod. 15. 16). Sicché il dannato siccome caderà nell’inferno nel giorno finale, così avrà da restare senza cambiare più sito e senza poter più muovere né un piede, né una mano, per mentre Dio sarà Dio.

Sarà tormentato l’udito cogli urli continui e pianti di quei poveri disperati. I demonii faranno continui strepiti. «Sonitus terroris semper in aure eius» (Iob. 15. 21). Che pena è quando si vuol dormire e si sente un infermo che continuamente si lamenta, un cane che abbaia, o un fanciullo che piange? Miseri dannati, che han da sentire di continuo per tutta l’eternità quei rumori e le grida di quei tormentati! Sarà tormentata la gola colla fame; avrà il dannato una fame canina: «Famem patientur ut canes» (Psal. 58. 15). Ma non avrà mai una briciola di pane. Avrà poi una tale sete, che non gli basterebbe tutta l’acqua del mare; ma non ne avrà neppure una stilla: una stilla ne domandava l’Epulone,9 ma questa non l’ha avuta ancora, e non l’avrà mai, mai.

Affetti e preghiere
Ah mio Signore, ecco a’ piedi vostri chi ha fatto tanto poco conto della vostra grazia e de’ vostri castighi. Povero me, se Voi, Gesù mio,

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    non aveste avuto di me pietà, da quanti anni starei in quella fornace puzzolente, dove già vi stanno ad ardere tanti pari miei! Ah mio Redentore, come pensando a ciò non ardo del vostro amore? come potrò per l’avvenire pensare ad offendervi di nuovo! Ah non sia mai, Gesu-Cristo mio, fatemi prima mille volte morire. Giacché avete cominciato, compite l’opera. Voi mi avete cacciato dal lezzo di tanti miei peccati, e con tanto amore mi avete chiamato ad amarvi; deh fate ora che questo tempo che mi date, io lo spenda tutto per Voi. Quanto desidererebbero i dannati un giorno, un’ora del tempo che a me concedete; ed io che farò? seguirò a spenderlo in cose di vostro disgusto? No, Gesù mio, non lo permettete, per li meriti di quel sangue, che sinora m’ha liberato dall’inferno. V’amo, o sommo bene, e perché v’amo mi pento di avervi offeso; non voglio più offendervi, ma sempre amarvi.

Regina e Madre mia Maria, pregate Gesù per me, ed ottenetemi il dono della perseveranza e del suo santo amore.

PUNTO II

La pena poi che più tormenta il senso del dannato, è il fuoco del l’inferno, che tormenta il tatto. «Vindicta carnis impii ignis, et vermis» (Eccli. 7. 19). Che perciò il Signore nel giudizio ne fa special menzione: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 41).1 Anche in questa terra la pena del fuoco è la maggior2 di tutte; ma vi è tanta differenza dal fuoco nostro a quello dell’inferno, che dice S. Agostino3 che ‘l nostro sembra dipinto. «In eius comparatione

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    noster hic ignis depictus est». E S. Vincenzo Ferreri dice che a confronto il nostro4 è freddo. La ragione è,5 perché il fuoco nostro è creato per nostro utile, ma il fuoco dell’inferno è creato da Dio a posta per tormentare. «Longe alius (dice Tertulliano)6 est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit». Lo sdegno di Dio accende questo fuoco vendicatore. «Ignis succensus est in furore meo» (Ier. 15. 14). Quindi da Isaia il fuoco dell’inferno è chiamato spirito d’ardore: «Si abluerit Dominus sordes… in spiritu ardoris» (Is. 4).7 Il dannato sarà mandato non al fuoco, ma nel fuoco: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum». Sicché il misero sarà circondato dal fuoco, come un legno dentro una fornace. Si troverà il dannato con un abisso di fuoco da sotto,8 un abisso di sopra, e un abisso d’intorno. Se tocca, se vede, se respira; non tocca, non vede, né respira altro che fuoco. Starà nel fuoco come il pesce nell’acqua. Ma questo fuoco non solamente starà d’intorno al dannato, ma entrerà anche dentro le sue viscere a tormentarlo. Il suo corpo diventerà tutto di fuoco, sicché bruceranno le viscere dentro del ventre, il cuore dentro del petto, le cervella dentro il capo, il sangue dentro le vene, anche le midolla dentro l’ossa: ogni dannato diventerà in se stesso una fornace di fuoco. «Pone eos ut clibanum ignis» (Ps. 20. 10). Taluni non possono soffrire di camminare per una via battuta dal sole, di stare in una stanza chiusa con una braciera,9 non soffrire una scintilla, che svola da una candela; e poi non temono quel fuoco, che divora, come dice Isaia:
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    «Quis poterit habitare de vobis cum igne devorante?» (Is. 33. 14). Siccome una fiera divora un capretto, così il fuoco dell’inferno divora il dannato; lo divora, ma senza farlo mai morire. Siegui pazzo, dice S. Pier Damiani10 (parlando al disonesto), siegui11 a contentare la tua carne, che verrà un giorno in cui le tue disonestà diventeranno tutte pece nelle tue viscere, che farà più grande e più tormentosa la fiamma che ti brucerà nell’inferno: «Venit dies, imo nox, quando libido tua vertetur in picem, qua se nutriat perpetuus ignis in tuis visceribus» (S. P. Dam. Epist. 6). Aggiunge S. Girolamo (Epist. ad Pam.)12 che questo fuoco porterà seco tutti i tormenti e dolori che si patiscono in questa terra; dolori di fianco e di testa, di viscere, di nervi: «In uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores». In questo fuoco vi sarà anche la pena del freddo. «Ad nimium calorem transeat ab aquis nivium» (Iob. 24. 19). Ma sempre bisogna intendere che tutte le pene di questa terra sono un’ombra, come dice il Grisostomo,13 a paragone delle pene dell’inferno: «Pone ignem, pone ferrum, quid, nisi umbra ad illa tormenta?»

Le potenze anche avranno il lor proprio tormento. Il dannato sarà tormentato nella memoria, col ricordarsi del tempo che ha avuto in questa vita per salvarsi, e l’ha speso per dannarsi; e delle grazie che ha ricevute da Dio, e non se ne ha voluto servire. Nell’intelletto, col pensare al gran bene che ha perduto, paradiso e Dio; e che a questa perdita non vi è più rimedio. Nella volontà, in vedere che gli sarà negata sempre ogni cosa che domanda. «Desiderium peccatorum peribit» (Ps. 111. 10). Il misero non avrà mai niente di quel che desidera, ed avrà sempre tutto quello che abborrisce, che saranno le sue

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    pene eterne. Vorrebbe uscir da’ tormenti, e trovar pace, ma sarà sempre tormentato, e non avrà mai pace.

Affetti e preghiere
Ah Gesù mio, il vostro sangue e la vostra morte sono la speranza mia. Voi siete morto, per liberare me dalla morte eterna. Ah Signore, e chi più ha partecipato de’ meriti della vostra passione, che io miserabile, il quale tante volte mi ho meritato l’inferno? Deh non mi fate vivere più ingrato a tante grazie che mi avete fatte. Voi m’avete liberato dal fuoco dell’inferno, perché non volete ch’io arda in quel fuoco di tormento, ma arda del dolce fuoco dell’amor vostro. Aiutatemi dunque, acciocché io possa compiacere il vostro desiderio. Se ora stessi nell’inferno, non vi potrei più amare; ma giacché posso amarvi, io vi voglio amare. V’amo bontà infinita, v’amo mio Redentore, che tanto mi avete amato. Come ho potuto vivere tanto tempo scordato di Voi! Vi ringrazio che Voi non vi siete scordato di me. Se di me vi foste scordato, o starei al presente nell’inferno, o non avrei dolore de’ miei peccati. Questo dolore che mi sento nel cuore di avervi offeso, questo desiderio che provo di amarvi assai, son doni della vostra grazia, che ancora mi assiste. Ve ne ringrazio, Gesù mio. Spero per l’avvenire di dare a Voi la vita che mi resta. Rinunzio a tutto. Voglio solo pensare a servirvi e darvi gusto. Ricordatemi sempre l’inferno che mi ho meritato, e le grazie che mi avete fatte; e non permettete ch’io abbia un’altra volta a voltarvi le spalle, ed a condannarmi da me stesso a questa fossa di tormenti.

O Madre di Dio, pregate per me peccatore. La vostra intercessione m’ha liberato dall’inferno, con questa ancora liberatemi, o Madre mia, dal peccato, che solo può condannarmi di nuovo all’inferno.

PUNTO III

Ma tutte queste pene son niente a rispetto della pena del danno. Non fanno l’inferno le tenebre, la puzza, le grida e ‘l fuoco; la pena che fa l’inferno è la pena di aver perduto Dio. Dice S. Brunone:1 «Addantur

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    tormenta tormentis, ac Deo non priventur» (Serm. de Iud. fin.). E S. Gio. Grisostomo:2 «Si mille dixeris gehennas, nihil par dices illius doloris» (Hom. 49. ad Pop.). Ed aggiunge S. Agostino3 che se i dannati godessero la vista di Dio, «nullam poenam sentirent, et infernus ipse verteretur in paradisum» (S. Aug. to. 9. de Tripl. hab.). Per intendere qualche cosa di questa pena, si consideri che se taluno perde (per esempio) una gemma, che valea 100 scudi, sente gran pena, ma se valea 200 sente doppia pena: se 400 più pena. In somma quanto cresce il valore della cosa perduta, tanto cresce la pena. Il dannato qual bene ha perduto? un bene infinito, ch’è Dio; onde dice S. Tommaso4 che sente una pena in certo modo infinita: «Poena damnati est infinita, quia est amissio boni infiniti» (D. Th. 1. 2. q. 87. a. 4).

Questa pena ora solo si teme da’ santi. «Haec amantibus, non contemnentibus poena est», dice S. Agostino.5 S. Ignazio di Loiola dicea:6 Signore, ogni pena sopporto, ma questa no, di star privo di Voi. Ma questa pena niente si apprende da’ peccatori, che si contentano di vivere i mesi e gli anni senza Dio, perché i miseri vivono fra

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    le tenebre. In morte non però han da conoscere il gran bene che perdono. L’anima in uscire da questa vita, come dice S. Antonino,7 subito intende ch’ella è creata per Dio: «Separata autem anima a corpore intelligit Deum summum bonum et ad illud esse creatam». Onde subito si slancia per andare ad abbracciarsi col suo sommo bene; ma stando in peccato, sarà da Dio discacciata. Se un cane vede la lepre, ed uno lo tiene con una catena, che forza fa il cane per romper la catena ed andare a pigliar la preda? L’anima in separarsi dal corpo, naturalmente è tirata a Dio, ma il peccato la divide da Dio, e la manda lontana all’inferno. «Iniquitates vestrae diviserunt inter vos, et Deum vestrum» (Is. 59. 2).Tutto l’inferno dunque consiste in quella prima parola della condanna: «Discedite a me, maledicti». Andate, dirà Gesu-Cristo, non voglio che vediate più la mia faccia. «Si mille quis ponat gehennas, nihil tale dicturus est, quale est exosum esse Christo» (Chrysost. hom. 24. in Matth.).8 Allorché Davide9 condannò Assalonne a non comparirgli più davanti, fu tale questa pena ad Assalonne che rispose: Dite a mio padre, che o mi permetta di vedere la sua faccia o mi dia la morte (2. Reg. 14. 24).10 Filippo II11 ad un grande che vide stare irriverente in chiesa, gli disse: Non mi comparite più davanti. Fu tanta la pena di quel grande, che giunto alla casa se ne morì di dolore. Che sarà, quando Dio in morte intimerà al reprobo: Va via che io non voglio vederti più. «Abscondam faciem ab eo, et invenient eum omnia mala» (Deut. 31. 17). Voi (dirà Gesù a’ dannati nel giorno finale) non siete più miei, io non sono più vostro. «Voca nomen eius, non populus meus, quia vos non populus meus, et ego non ero vester» (Osea 1. 9).
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    Che pena è ad un figlio, a cui gli muore il padre, o ad una moglie quando le muore lo sposo, il dire: Padre mio, sposo mio, non t’ho da vedere più. Ah se ora udissimo un’anima dannata che piange, e le chiedessimo: Anima, perché piangi tanto? Questo solo ella risponderebbe: Piango, perché ho perduto Dio, e non l’ho da vedere più. Almeno potesse la misera nell’inferno amare il suo Dio, e rassegnarsi alla sua volontà. Ma no; se potesse ciò fare, l’inferno non sarebbe inferno; l’infelice non può rassegnarsi alla volontà di Dio, perché è fatta nemica della divina volontà. Né può amare più il suo Dio, ma l’odia e l’odierà per sempre; e questo sarà il suo inferno, il conoscere che Dio è un bene sommo e il vedersi poi costretto ad odiarlo, nello stesso tempo che lo conosce degno d’infinito amore. «Ego sum ille nequam privatus amore Dei», così rispose quel demonio, interrogato chi fosse da S. Caterina da Genova.12 Il dannato odierà e maledirà Dio, e maledicendo Dio, maledirà anche i beneficii che gli ha fatti, la creazione, la redenzione, i sagramenti, specialmente del battesimo e della penitenza, e sopra tutto il SS. Sagramento dell’altare. Odierà tutti gli angeli e santi ma specialmente l’angelo suo custode e i santi suoi avvocati, e più di tutti la divina Madre; ma principalmente maledirà le tre divine Persone, e fra queste singolarmente il Figlio di Dio, che un giorno è morto per la di lei salute, maledicendo le sue piaghe, il suo sangue, le sue pene e la sua morte.

Affetti e preghiere
Ah mio Dio, Voi dunque siete il mio sommo bene, bene infinito, ed io volontariamente tante volte v’ho perduto. Sapeva io già

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    che col mio peccato vi dava un gran disgusto, e che perdeva la vostra grazia, e l’ho fatto? Ah che se non vi vedessi trafitto in croce, o Figlio di Dio, morire per me, non avrei più animo di cercarvi13 e di sperare da Voi perdono. Eterno Padre, non guardate me, guardate questo amato Figlio, che vi cerca14 per me pietà; esauditelo, e perdonatemi. A quest’ora dovrei star nell’inferno da tanti anni senza speranza di potervi più amare, e di ricuperare la vostra grazia perduta. Dio mio, mi pento sopra ogni male di quest’ingiuria che v’ho fatta, di rinunziare alla vostr’amicizia e di disprezzare il vostro amore per li gusti miserabili di questa terra. Oh fossi morto prima mille volte! Come ho potuto essere così cieco e così pazzo! Vi ringrazio, Signor mio, che mi date tempo di poter rimediare al mal fatto. Giacché per misericordia vostra sto fuori dell’inferno, e vi posso amare, Dio mio, vi voglio amare. Non voglio più differire di convertirmi tutto a Voi. V’amo bontà infinita, v’amo15 mia vita, mio tesoro, mio amore, mio tutto. Ricordatemi sempre, o Signore, l’amore che mi avete portato, e l’inferno dove dovrei stare; acciocché questo pensiero mi accenda sempre a farvi atti d’amore e a dirvi sempre: io v’amo, io v’amo, io v’amo.

O Maria Regina, speranza e Madre mia, se stessi nell’inferno, neppure potrei amar più Voi. V’amo Madre mia, e a Voi confido di non lasciare più d’amar Voi e ‘l mio Dio. Aiutatemi, pregate Gesù per me.

CONSIDERAZIONE XXVII – DELL’ETERNITÀ DELL’INFERNO

«Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46).

PUNTO I

Se l’inferno non fosse eterno, non sarebbe inferno. Quella pena che non dura molto, non è gran pena. A quell’infermo si taglia una postema, a quell’altro si foca una cancrena; il dolore è grande, ma perché finisce tra poco, non è gran tormento. Ma qual pena sarebbe, se quel taglio o quell’operazione di fuoco continuasse per una settimana, per un mese intero?1 Quando la pena è assai lunga, ancorché sia leggiera, come un dolore d’occhi, un dolore di mole, si rende insopportabile. Ma che dico dolore? anche una commedia, una musica che durasse troppo, o fosse per tutto un giorno, non potrebbe soffrirsi per lo tedio. E se durasse un mese? un anno? Che sarà l’inferno? dove non si ascolta sempre la stessa commedia, o la stessa musica: non vi è solo un dolore d’occhi, o di mole: non si sente solamente il tormento d’un taglio, o di un ferro rovente, ma vi sono tutti i tormenti, tutti i dolori; e per quanto tempo? per tutta l’eternità: «Cruciabuntur die ac nocte in saecula saeculorum» (Apoc. 20. 10).

Quest’eternità è di fede; non è già qualche opinione, ma è verità attestataci da Dio in tante Scritture: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 25. 41). «Et hi ibunt in supplicium aeternum» (Ibid. num. 46). «Poenas dabunt in interitu aeternas» (2. Thess. 1. 9). «Omnis igne salietur» (Marc. 9. 48). Siccome il sale conserva le cose, così il fuoco dell’inferno nello stesso tempo che tormenta i dannati, fa l’officio di sale conservando loro la vita. «Ignis ibi consumit (dice S. Bernardo),2 ut semper reservet» (Medit. cap. 3).

Or qual pazzia sarebbe quella di taluno, che per pigliarsi una giornata di spasso, si volesse condannare a star chiuso in una fossa per

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    venti, o trenta anni? Se l’inferno durasse cent’anni; che dico cento? durasse non più che due o tre anni, pure sarebbe una gran pazzia, per un momento di vil piacere, condannarsi a due o tre anni di fuoco. Ma non si tratta di trenta, di cento, né di mille, né di cento mila anni; si tratta d’eternità, si tratta di patire per sempre gli stessi tormenti, che non avranno mai da finire, né da alleggerirsi un punto. Hanno avuto ragione dunque i santi, mentre stavano in vita, ed anche in pericolo di dannarsi, di piangere e tremare. Il B. Isaia3 anche mentre stava nel deserto tra digiuni e penitenze, piangeva dicendo: Ah misero me, che ancora non sono libero dal dannarmi! «Heu me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber!»

Affetti e preghiere
Ah mio Dio, se mi aveste mandato all’inferno, come già più volte l’ho meritato, e poi me ne aveste cacciato per vostra misericordia, quanto ve ne sarei restato obbligato? ed indi qual vita santa avrei cominciato a fare? Ed ora che con maggior misericordia Voi mi avete preservato dal cadervi, che farò Tornerò ad offendervi e provocarvi a sdegno, affinché proprio mi mandiate ad ardere in quella carcere de’ vostri ribelli, dove tanti già ardono per meno peccati de’ miei? Ah mio Redentore, così ho fatto per lo passato; in vece di servirmi del tempo che mi davate per piangere i miei peccati, l’ho speso a più sdegnarvi. Ringrazio la vostra bontà infinita, che tanto mi ha sopportato. S’ella non era infinita, e come mai avrebbe potuto soffrirmi? Vi ringrazio dunque di avermi con tanta pazienza aspettato sinora; e vi ringrazio sommamente della luce che ora mi date, colla quale mi fate conoscere la mia pazzia e il torto che vi ho fatto in oltraggiarvi con tanti miei peccati. Gesù mio, li detesto e me ne pento con tutto il cuore; perdonatemi per la vostra passione; ed assistetemi colla vostra grazia, acciocché più non vi offenda. Giustamente or debbo temere che ad un altro peccato mortale Voi mi abbandoniate. Ah Signor

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    mio, vi prego, mettetemi avanti gli occhi questo giusto timore, allorché il demonio mi tenterà di nuovo ad offendervi. Dio mio, io vi amo, né vi voglio più perdere; aiutatemi colla vostra grazia.

Aiutatemi, o Vergine SS., fate ch’io sempre ricorra a Voi nelle mie tentazioni, acciocché non perda più Dio. Maria, Maria4 Voi siete la speranza mia.

PUNTO II

Chi entra una volta nell’inferno, di là non uscirà più in eterno. Questo pensiero facea tremare Davide,1 dicendo: «Neque absorbeat me profundum, neque urgeat super me puteus os suum» (Ps. 68. 16). Caduto ch’è il dannato in quel pozzo di tormenti, si chiude la bocca e non si apre più. Nell’inferno v’è porta per entrare, ma non v’è porta per uscire: «Descensus erit (dice Eusebio Emisseno),2 ascensus non erit». E così spiega le parole del Salmista: «Neque urgeat os suum; quia cum susceperit eos, claudetur sursum, et aperietur deorsum». Fintanto che il peccatore vive, sempre può avere speranza di rimedio, ma colto ch’egli sarà dalla morte in peccato, sarà finita per lui ogni speranza. «Mortuo homine impio, nulla erit ultra spes» (Prov. 11. 7). Almeno potessero i dannati lusingarsi con qualche falsa speranza, e così trovare qualche sollievo alla loro disperazione. Quel povero impiagato, confinato in un letto, è stato già disperato da’ medici di poter guarire; ma pure si lusinga, e si consola con dire: Chi sa se appresso si troverà qualche medico e qualche rimedio che mi sani. Quel misero condannato alla galea in3 vita anche si consola, dicendo: Chi sa che può succedere, e mi libero da queste catene. Almeno (dico) potesse il dannato dire similmente così, chi sa se un giorno uscirò da questa prigione; e così potesse ingannarsi almeno con

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    questa falsa speranza. No, nell’inferno non v’è alcuna speranza né vera né falsa, non vi è «chi sa». «Statuam contra faciem» (Ps. 49. 21). Il misero si vedrà sempre innanzi agli occhi scritta la sua condanna, di dover sempre stare a piangere in quella fossa di pene: «Alii in vitam aeternam, et alii in opprobrium, ut videant semper» (Dan. 12. 2). Onde il dannato non solo patisce quel che patisce in ogni momento, ma soffre in ogni momento la pena dell’eternità, dicendo: Quel che ora patisco, io l’ho da patire per sempre. «Pondus aeternitatis sustinet», dice Tertulliano.4
    Preghiamo dunque il Signore, come pregava S. Agostino:5 «Hic ure, hic seca, hic non parcas, ut in aeternum parcas». I castighi di questa vita passano. «Sagittae tuae transeunt, vox tonitrui tui in rota» (Ps. 76. 18). Ma i castighi dell’altra vita non passano mai. Di questi temiamo; temiamo di quel tuono («vox tonitrui tui in rota»), s’intende di quel tuono della condanna eterna, che uscirà dalla bocca del giudice nel giudizio contro i reprobi: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum».6 E dice, «in rota»; la ruota è figura dell’eternità, a cui non si trova termine. «Eduxi gladium meum de vagina sua irrevocabilem» (Ez. 21. 5). Sarà grande il castigo dell’inferno, ma ciò che più dee atterrirci, è che sarà castigo irrevocabile.

Ma come, dirà un miscredente, che giustizia è questa? castigare un peccato che dura un momento con una pena eterna? Ma come (io rispondo) può aver l’ardire un peccatore per un gusto d’un momento offendere un Dio d’infinita maestà? Anche nel giudizio umano (dice S. Tommaso, I. 2. q. 87. a. 3)7 la pena non si misura secondo

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    la durazione del tempo, ma secondo la qualità del delitto: «Non quia homicidium in momento committitur, momentanea poena punitur». Ad un peccato mortale un inferno è poco: all’offesa d’una maestà infinita si dovrebbe un castigo infinito, dice S. Bernardino da Siena:8 «In omni peccato mortali infinita Deo contumelia irrogatur; infinitae autem iniuriae infinita debetur poena». Ma perché, dice l’Angelico9 la creatura non è capace di pena infinita nell’intensione, giustamente fa Dio che la sua pena sia infinita nella estensione.

Oltreché questa pena dee esser necessariamente eterna, prima perché il dannato non può più soddisfare per la sua colpa. In questa vita intanto può soddisfare il peccator penitente, in quanto gli sono applicati i meriti di Gesu-Cristo; ma da questi meriti è escluso il dannato; onde non potendo egli placare più Dio, ed essendo eterno il suo peccato, eterna dee essere ancora la sua pena. «Non dabit Deo placationem suam, laborabit in aeternum» (Ps. 48. 8). Quindi dice il Belluacense (lib. 2. p. 3):10 «Culpa semper poterit ibi puniri, et nunquam poterit expiari»; poiché al dire di S. Antonino11 «ibi peccator poenitere non potest»;12 e perciò il Signore starà sempre con esso sdegnato. «Populus cui iratus est Dominus usque in aeternum» (Malach. 1. 4). Di più il dannato, benché Dio volesse perdonarlo, non vuol esser perdonato, perché la sua volontà è ostinata e confermata

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    nell’odio contro Dio. Dice Innocenzo III:13 «Non humiliabuntur reprobi, sed malignitas odii in illis excrescet» (Lib. 3. de Cont. mundi c. 10). E S. Girolamo:14 «Insatiabiles sunt in desiderio peccandi» (In Proverb. 27). Ond’è che la piaga del dannato è disperata, mentre ricusa anche il guarirsi. «Factus est dolor eius perpetuus, et plaga desperabilis renuit curari» (Ier. 15. 18).15
    Affetti e preghiere
    Dunque, mio Redentore, se a quest’ora io fossi dannato, siccome ho meritato, starei ostinato nell’odio contro di Voi, mio Dio, che siete morto per me? Oh Dio, e qual inferno sarebbe questo, odiare Voi che mi avete tanto amato, e siete una bellezza infinita, una bontà infinita, degna d’infinito amore! Dunque, se ora stessi nell’inferno, starei in uno stato sì infelice, che neppure vorrei il perdono ch’ora Voi m’offerite? Gesù mio, vi ringrazio della pietà che m’avete usata, e giacché ora posso essere perdonato, e posso amarvi, io voglio esser perdonato e voglio amarvi. Voi m’offerite il perdono, ed io ve lo domando, e lo spero per li meriti vostri. Io mi pento di tutte l’offese che v’ho fatte, o bontà infinita, e Voi perdonatemi. Io v’amo con tutta l’anima mia. Ah Signore, e che male Voi mi avete fatto, che avessi ad odiarvi come mio nemico per sempre? E quale amico ho avuto io mai, che ha fatto e patito per me, quel che avete fatto e patito Voi, o Gesù mio? Deh non permettete ch’io cada più in disgrazia vostra, e perda il vostro amore; fatemi prima morire, ch’abbia a succedermi questa somma ruina.

O Maria, chiudetemi sotto il vostro manto, e non permettete ch’io n’esca più a ribellarmi contro Dio e contro Voi.

PUNTO III

La morte in questa vita è la cosa più temuta da peccatori, ma nell’inferno sarà la più desiderata. «Quaerent mortem, et non invenient; et desiderabunt mori, et mors fugiet ab eis» (Apoc. 9. 6). Onde scrisse S. Girolamo:1 «O mors quam dulcis esses, quibus tam amara fuisti!» (Ap. S. Bon. Soliloq.). Dice Davide2 che la morte si pascerà de’ dannati: «Mors depascet eos» (Psal. 48. 15). Spiega S. Bernardo3 che siccome la pecora pascendosi dell’erba, si ciba delle frondi, ma lascia le radici, così la morte si pasce de’ dannati, gli uccide ogni momento, ma lascia loro la vita per continuare ad ucciderli colla pena in eterno: «Sicut animalia depascunt herbas, sed remanent radices; sic miseri in inferno corrodentur a morte, sed iterum reservabuntur ad poenas». Sicché dice S. Gregorio4 che il dannato muore ogni momento senza mai morire: «Flammis ultricibus traditus semper morietur» (Lib. Mor. c. 12). Se un uomo muore ucciso dal dolore, ognuno lo compatisce; almeno il dannato avesse chi lo compatisse. No, muore il misero per lo dolore ogni momento, ma non ha, né avrà mai chi lo compatisca. Zenone imperadore,5 chiuso in una fossa, gridava: Apritemi

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    per pietà. Non fu da niuno inteso, onde fu ritrovato morto da disperato, poiché si avea mangiate le stesse carni delle sue braccia. Gridano i presciti dalla fossa dell’inferno, dice S. Cirillo Alessandrino,6 ma niuno viene a cacciarneli, e niuno ne ha compassione: «Lamentantur, et nullus eripit; plangunt et nemo compatitur».

E questa loro miseria per quanto tempo durerà? per sempre, per sempre. Narrasi negli Esercizi spirituali del P. Segneri Iuniore (scritti dal Muratori)7 che in Roma essendo dimandato il demonio, che stava nel corpo d’un ossesso, per quanto tempo doveva star nell’inferno; rispose con rabbia, sbattendo la mano su d’una sedia: «Sempre, sempre». Fu tanto lo spavento, che molti giovani del Seminario Romano, che ivi si trovavano, si fecero una confessione generale, e mutarono vita a questa gran predica di due parole: «Sempre, sempre». Povero Giuda! son passati già mille e settecento anni che sta nell’inferno, e l’inferno suo ancora è da capo. Povero Caino! egli sta nel fuoco da cinque mila e 700 anni, e l’inferno suo è da capo. Fu interrogato un altro demonio,8 da quanto tempo era andato all’inferno, e rispose: «Ieri». Come ieri, gli fu detto, se tu sei dannato da cinque mila e più anni? Rispose di nuovo: Oh se sapessivo9 9a che viene a dire eternità, bene intendereste che cinque mila anni non sono a paragone

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    neppure un momento. Se un angelo dicesse ad un dannato: Uscirai dall’inferno, ma quando son passati tanti secoli, quante sono le goccie dell’acqua, le frondi degli alberi e le arene del mare, il dannato farebbe più festa, che un mendico in aver la nuova10 d’esser fatto re. Sì, perché passeranno tutti questi secoli, si moltiplicheranno infinite volte, e l’inferno sempre sarà da capo. Ogni dannato farebbe questo patto con Dio: Signore, accrescete la pena mia quanto volete; fatela durare quanto vi piace; metteteci termine, e son contento. Ma no, che questo termine non vi sarà mai. La tromba della divina giustizia non altro suonerà nell’inferno che «sempre, sempre, mai, mai».

Dimanderanno i dannati ai demoni: A che sta la notte? «Custos, quid de nocte?» (Is. 21. 11). Quando finisce? quando finiscono queste tenebre, queste grida, questa puzza, queste fiamme, questi tormenti? E loro è risposto: «Mai, mai». E quanto dureranno? «Sempre, sempre». Ah Signore, date luce a tanti ciechi, che pregati a non dannarsi, rispondono: All’ultimo, se vado all’inferno, pazienza. Oh Dio, essi non hanno pazienza di sentire un poco di freddo, di stare in una stanza troppo calda, di soffrire una percossa; e poi avranno pazienza di stare in un mar di fuoco, calpestati da’ diavoli e abbandonati da Dio e da tutti per tutta l’eternità!

Affetti e preghiere
Ah Padre delle misericordie, Voi non abbandonate chi vi cerca. «Non dereliquisti quaerentes te, Domine» (Psal. 9. 11). Io per lo passato vi ho voltate tante volte le spalle, e Voi non mi avete abbandonato: non mi abbandonate ora che vi cerco. Mi pento, o sommo bene, di aver fatto tanto poco conto della vostra grazia, che l’ho cambiata per niente. Guardate le piaghe del vostro Figlio, udite le sue voci, che vi pregano a perdonarmi, e perdonatemi. E Voi, mio Redentore, ricordatemi sempre le pene che avete patito per me,11 l’amore, che mi avete portato, e l’ingratitudine mia, per cui tante volte mi ho meritato l’inferno: acciocché io pianga sempre il torto che vi ho fatto, e viva sempre ardendo del vostro amore. Ah Gesù mio, come non arderò del vostro amore, pensando che da tanti anni dovrei ardere nell’inferno, e seguire ad ardere per tutta l’eternità, e che Voi siete morto per liberarmene, e con tanta pietà me ne avete liberato? Se fossi nell’inferno, ora vi odierei, e vi avrei da odiare per sempre; ma ora v’amo, e voglio amarvi per sempre. Così spero al12 sangue vostro. Voi mi amate, ed io ancora v’amo. Voi mi amerete sempre, se io13 non vi lascio. Ah mio Salvatore, salvatemi da questa disgrazia ch’io abbia a lasciarvi, e poi fatene di me quel che volete. Io merito ogni castigo, ed io l’accetto, acciocché mi liberiate dal castigo d’esser privo del vostro amore.

O Maria rifugio mio, quante volte io stesso mi son condannato all’inferno, e Voi me ne avete liberato? Deh liberatemi ora dal peccato, che solo può privarmi della grazia di Dio e portarmi all’inferno.

CONSIDERAZIONE XXVIII – RIMORSI DEL DANNATO

«Vermis eorum non moritur» (Marc. 9. 47).

PUNTO I

Per questo verme che non muore, spiega S. Tommaso1 che s’intende il rimorso di coscienza, dal quale eternamente sarà il dannato tormentato nell’inferno. Molti saranno i rimorsi2 con cui la coscienza roderà il cuore de’ reprobi, ma tre saranno i rimorsi3 più tormentosi: il pensare al poco per cui si son dannati: al poco che dovean fare per salvarsi: e finalmente al gran bene che han perduto. Il primo rimorso4 dunque che avrà il dannato sarà il pensare per quanto poco s’è perduto. Dopo che Esaù ebbesi cibato di quella minestra di lenticchie, per cui avea5 venduta la sua primogenitura, dice la Scrittura che per lo dolore e rimorso della perdita fatta si pose ad urlare: «Irrugiit clamore magno» (Gen. 27. 34). Oh quali altri urli e ruggiti darà il dannato pensando che per poche soddisfazioni momentanee e avvelenate si ha perduto un regno eterno di contenti, e si ha da vedere eternamente condannato ad una continua morte! Onde piangerà assai più amaramente, che non piangeva Gionata, allorché videsi condannato a morte da Saulle suo padre, per essersi cibato d’un poco di mele.6 «Gustans gustavi paulum mellis, et ecce morior» (1. Reg. 14. 43). Oh Dio, e qual pena apporterà al dannato il vedere allora la causa della sua dannazione? Al presente che cosa a noi sembra la nostra vita passata, se non un sogno, un momento? Or che pareranno a chi sta nell’inferno quelli cinquanta, o sessanta anni di vita, che avrà vivuti in questa terra, quando si troverà7 nel fondo dell’eternità, in cui saranno già passati cento e mille milioni d’anni, e vedrà che la sua

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    eternità allora comincia! Ma che dico cinquanta anni di vita? cinquanta anni tutti forse di gusti? e che forse il peccatore vivendo senza Dio, sempre gode ne’ suoi peccati? quando durano i gusti del peccato? durano momenti; e tutto l’altro tempo per chi vive in disgrazia di Dio, è tempo di pene e8 di rancori. Or che pareranno quelli momenti di piaceri al povero dannato? e specialmente che parerà quell’uno ed ultimo peccato fatto, per lo quale s’è perduto? Dunque (dirà) per un misero gusto brutale ch’è durato un momento, e appena avuto è sparito come vento, io avrò da stare ad ardere in questo fuoco, disperato ed abbandonato da tutti, mentre Dio sarà Dio per tutta l’eternità!

Affetti e preghiere
Signore, illuminatemi a conoscere l’ingiustizia che v’ho usata in offendervi, e ‘l castigo eterno che con ciò mi ho meritato. Mio Dio, sento una gran pena di avervi offeso, ma questa pena mi consola; se Voi mi aveste mandato all’inferno, come io ho meritato, questo rimorso sarebbe l’inferno del mio inferno, pensando per quanto poco mi son dannato; ma ora questo rimorso (dico) mi consola, perché mi dà animo a sperare il perdono da Voi, che avete promesso di perdonare chi si pente. Sì, mio Signore, mi pento di avervi oltraggiato, abbraccio questa dolce pena, anzi vi prego ad accrescermela e a conservarmela sino alla morte, acciocché io9 pianga sempre amaramente i disgusti che v’ho dati. Gesù mio, perdonatemi; o mio Redentore, che per avere pietà di me, non avete avuta pietà di Voi, condannandovi a morire10 di dolore, per liberarmi dall’inferno, abbiate pietà di me. Fate dunque che il rimorso di avervi offeso mi tenga continuamente addolorato, e nello stesso tempo m’infiammi tutto d’amore verso di Voi, che tanto mi avete amato, e con tanta pazienza mi avete sofferto, ed ora invece di castighi, mi arricchite di lumi e di grazie; ve ne ringrazio, Gesù mio, e v’amo; v’amo più di me stesso, v’amo con tutt’il cuore. Voi non sapete disprezzare chi v’ama. Io v’amo, non mi discacciate dalla vostra faccia. Ricevetemi dunque nella vostra grazia, e non permettete ch’io v’abbia da perdere più.

  • 272 –
    Maria Madre mia, accettatemi per vostro servo, e stringetemi a Gesù vostro Figlio. Pregatelo che mi perdoni, che mi doni il suo amore e la grazia della perseveranza sino alla morte.

PUNTO II

Dice S. Tommaso1 che questa sarà la pena principale de’ dannati, il vedere che si son perduti per niente, e che con tanta facilità poteano acquistarsi la gloria del paradiso, se voleano: «Principaliter dolebunt, quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam». Il secondo rimorso2 dunque della coscienza sarà il pensare al poco che dovean fare per salvarsi. Comparve a S. Umberto3 un dannato e gli disse che quest’appunto era la maggiore4 afflizione, che cruciavalo nell’inferno, il pensiero del poco per cui s’era dannato, e del poco che avrebbe avuto a fare per salvarsi. Dirà allora il misero: S’io mi mortificava a non guardare quell’oggetto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell’occasione, quel compagno, quella conversazione, non mi sarei dannato. Se mi fossi confessato ogni settimana, se avessi frequentata la Congregazione, se avessi letto ogni giorno quel libretto spirituale, se mi fossi raccomandato a Gesu-Cristo ed a Maria, non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo,

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    ma non l’ho eseguito; o pure l’ho cominciato a fare, e poi l’ho lasciato, e perciò mi son perduto.

Accresceranno la pena di questo rimorso gli esempi, che avrà avuti degli altri suoi buoni amici e compagni; e più l’accresceranno i doni che Dio gli avea concessi per salvarsi: doni di natura, come buona sanità, beni di fortuna, talenti che ‘l Signore gli avea dati affin di bene impiegarli, e farsi santo: doni poi di grazia, tanti lumi, ispirazioni, chiamate, e tanti anni conceduti a rimediare il mal fatto: ma vedrà che in questo stato miserabile, al quale è arrivato, non v’è più tempo da rimediare. Sentirà l’Angelo del Signore che grida e giura: «Et Angelus, quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum… quia tempus non erit amplius» (Apoc. 10. 6). Oh che spade crudeli saranno tutte queste grazie ricevute al cuore del povero dannato, allorché vedrà esser finito già il tempo di poter più dar riparo alla sua eterna ruina. Dirà dunque piangendo cogli altri suoi compagni disperati: «Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus» (Ier. 8. 20). Dirà: Oh se le fatiche che ho fatte per dannarmi, l’avessi spese per Dio, mi troverei fatto un gran santo; ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene, che mi tormenteranno in eterno? Ah che questo pensiero crucierà il dannato più che il fuoco, e tutti gli altri tormenti dell’inferno; il dire: Io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice.

Affetti e preghiere
Ah Gesù mio, e come avete potuto tanto sopportarmi? io tante volte v’ho voltate le spalle, e Voi non avete lasciato di venirmi appresso. Io tante volte vi ho offeso, e Voi mi avete perdonato; vi ho tornato ad offendere, e Voi avete ritornato a perdonarmi. Deh fatemi parte di quel dolore, che sentiste nell’orto di Getsemani de’ peccati miei, che allora vi fecero sudar sangue. Mi pento, Redentor mio caro, di aver così malamente pagato il vostro Cuore.5 O gusti miei maledetti, vi detesto e maledico, voi mi avete fatta perdere la grazia del mio Signore. Amato mio Gesù, ora io v’amo sopra ogni cosa, rinunzio a tutte le soddisfazioni illecite e propongo prima di morir mille volte, che di offendervi più. Deh per quell’affetto con cui mi

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    amaste sulla croce ed offeriste la vostra vita divina per me, datemi luce e forza di resistere alle tentazioni, e di ricorrere al vostro aiuto, quando sarò tentato.

O Maria speranza mia, Voi tutto potete appresso Dio, impetratemi la santa perseveranza: ottenetemi ch’io più non mi divida dal suo santo amore.

PUNTO III

Il terzo rimorso del dannato sarà il vedere il gran bene, che ha perduto. Dice S. Giovanni Grisostomo1 che i presciti saranno più tormentati dalla perdita fatta del paradiso, che dalle stesse pene dell’inferno: «Plus coelo torquentur, quam gehenna». Disse l’infelice principessa Elisabetta regina d’Inghilterra:2 Diami Dio quarant’anni di

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    regno, ed io gli rinunzio il paradiso. Ebbe la misera questi quarant’anni di regno, ma ora che l’anima sua ha lasciato questo mondo, che dice? certamente che non la sente così; oh come ora se ne troverà afflitta e disperata, pensando che per quarant’anni di regno terreno, posseduto fra timori ed angustie, ha perduto eternamente il regno del cielo.

Ma quello che più affliggerà in eterno il dannato, sarà il vedere che ha perduto il cielo e ‘l sommo bene ch’è Dio, non già per sua mala sorte, o per malevolenza altrui, ma per propria colpa. Vedrà ch’egli è stato creato per lo paradiso; vedrà che Dio ha dato in mano di lui l’elezione a procurarsi, o la vita, o la morte eterna. «Ante hominem vita, et mors… quod placuerit ei dabitur illi» (Eccli. 15. 18). Sicché vedrà essere stato in mano sua, se voleva, il rendersi eternamente felice, e vedrà ch’egli da se stesso ha voluto precipitarsi in quella fossa di tormenti, dalla quale non potrà più uscirne, né vi sarà mai alcuno che procurerà di liberarnelo. Vedrà salvati tanti suoi compagni, che si saran trovati negli stessi, e forse maggiori pericoli di peccare, ma perché han saputo contenersi con raccomandarsi a Dio, o pure se vi son caduti, perché han saputo presto risorgere e darsi a Dio, si son salvati; ma egli perché non ha voluta finirla, è andato infelicemente a finir nell’inferno, in quel mare di tormenti, senza speranza di potervi più rimediare.

Fratello mio, se per lo passato ancora voi siete stato così pazzo, che avete voluto perdere il paradiso e Dio per un gusto miserabile, procurate di darvi3 presto rimedio ora ch’è tempo. Non vogliate seguire ad esser pazzo. Tremate di andare a piangere4 la vostra pazzia in eterno. Chi sa se questa considerazione che leggete, è l’ultima chiamata che vi fa Dio. Chi sa se ora non mutate vita, ad un altro peccato mortale che farete, il Signore v’abbandoni, e per questo poi vi manderà a penare eternamente tra quella ciurma di pazzi, che ora stanno all’inferno, e confessano il loro errore («ergo erravimus»),5 ma lo confessano disperati, vedendo che al loro errore non v’è più rimedio. Quand’il6 demonio vi tenta a peccare di nuovo, ricordatevi dell’inferno, e ricorrete a Dio, alla SS. Vergine; il pensier dell’inferno vi libererà dall’inferno. «Memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis» (Eccli. 7),7perché il pensier dell’inferno vi farà ricorrere a Dio.

Affetti e preghiere
Ah mio sommo bene, e quante volte io vi ho perduto per niente, ed ho meritato di perdervi per sempre! ma mi consola il sentire quel che dice il vostro profeta: «Laetetur cor quaerentium Dominum» (Psal. 104. 25).8 Non debbo dunque sconfidare di ricuperarvi, Dio mio, se di cuore vi cerco. Sì, mio Signore, ora sospiro la vostra grazia più ch’ogni altro bene. Mi contento d’esser privato di tutto, anche della vita, prima che vedermi privo del vostro amore. V’amo, mio Creatore, sopra ogni cosa, e perché v’amo, mi pento di avervi offeso. Dio mio, da me perduto e disprezzato, presto perdonatemi; e fate ch’io vi ritrovi,9 poiché non voglio perdervi più. Se mi ricevete di nuovo alla vostra amicizia, voglio lasciar tutto e ridurmi ad amare Voi solo; così spero alla10 vostra misericordia. Padre eterno, esauditemi per amore di Gesu-Cristo; perdonatemi e datemi la grazia di non separarmi più da Voi; che se di nuovo io volontariamente vi perdo, giustamente debbo temere che Voi m’abbandonate.11
O Maria, o paciera de’ peccatori, fatemi far pace con Dio, e poi tenetemi stretto sotto il vostro manto, acciocché io12 non lo perda più.

CONSIDERAZIONE XXIX – DEL PARADISO

«Tristitia vestra vertetur1 in gaudium» (Io. 16. 20).

PUNTO I

Procuriamo al presente di soffrir con pazienza le afflizioni di questa vita, offerendole a Dio in unione delle pene che patì Gesu-Cristo per nostro amore; e facciamoci animo colla speranza del paradiso. Finiranno un giorno tutte queste angustie, dolori, persecuzioni, timori; e salvandoci, diventeranno per noi gaudii e contenti nel regno de’ beati. Così ci fa animo il Signore: «Tristitia vestra vertetur in gaudium» (Io. 16. 20). Consideriamo dunque oggi qualche cosa del paradiso. Ma che diremo di questo paradiso, se neppure i santi più illuminati han saputo darci ad intendere le delizie, che Dio riserva a’ suoi servi fedeli? Davide2 altro non seppe dirne che ‘l paradiso è un bene troppo desiderabile: «Quam dilecta tabernacula tua, Domine virtutum!» (Ps. 83. 2). Ma voi almeno, S. Paolo mio, voi che aveste la sorte d’essere stato rapito a vedere il cielo («Raptus in paradisum»), diteci qualche cosa di ciò che avete veduto. No, dice l’Apostolo, ciò che ho veduto, non è possibile spiegarlo. Son le delizie del paradiso: «Arcana verba, quae non licet homini loqui» (2. Cor. 12. 4).3 Sono sì grandi che non possono spiegarsi, se non si godono. Altro io non posso dirvi, dice l’Apostolo, che «oculus non vidit, nec auris audivit, neque in cor hominis ascendit, quae praeparavit Deus iis, qui diligunt illum» (1. Cor. 2. 9). Niun uomo in terra ha vedute mai, né udite, né comprese le bellezze, le armonie, i contenti, che Dio ha preparati a coloro che l’amano.

Non possiamo noi esser capaci de i beni del paradiso, perché non abbiamo altre idee, che de’ beni di questa terra. Se i cavalli avessero mai il discorso, e sapessero che il padrone sposandosi ha preparato un gran banchetto, s’immaginerebbero che il banchetto non consisterebbe

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    in altro, che in buona paglia, buona avena ed orzo: perché i cavalli non hanno idea d’altri cibi che di questi. Così pensiamo noi de i beni del paradiso. È bello il vedere in tempo d’està4 nella notte il cielo stellato: è gran delizia in tempo di primavera trovarsi in una marina, quando il mare è placido, in cui vi si vedono5 dentro scogli vestiti d’erba, e pesci che guizzano: è gran delizia il trovarsi in un giardino pieno di frutti e fiori,6 circondato da fontane che scorrono, e con uccelli che van volando e cantando d’intorno. Dirà taluno: Oh che paradiso! Che paradiso? che paradiso? altri sono i beni del paradiso. Per intendere qualche cosa in confuso del paradiso, si consideri ch’ivi sta un Dio onnipotente, impegnato a deliziare le anime che ama. Dice S. Bernardo:7 Vuoi sapere che cosa vi è in paradiso? «Nihil est quod nolis, totum est quod velis». Ivi non vi è cosa che dispiaccia, e vi è tutto quello che piace.

Oh Dio, che dirà l’anima in entrare in quel regno beato! Immaginiamoci che muoia quella verginella, o quel giovine, ch’essendosi consagrato all’amore di Gesu-Cristo, arrivata la morte, lascia già questa terra. L’anima è presentata al giudizio, il giudice l’abbraccia e le dichiara ch’è salva. Le viene ad incontro8 l’Angelo Custode, e se ne rallegra; ella lo ringrazia dell’assistenza fattale, e l’Angelo poi le dice: Via su, anima bella, allegramente già sei salva, vieni a vedere la faccia del tuo Signore. Ecco l’anima già passa le nubi, le sfere, le stelle: entra nel cielo. Oh Dio, che dirà nel metter piede la prima volta in quella patria beata, e in dar la prima occhiata a quella città di delizie! Gli angeli e i santi le verranno ad incontro,9 e giubilando le daranno il benvenuto. Ivi che consolazione avrà in incontrarsi co’ suoi parenti, o amici entrati già prima in paradiso, e co’ suoi santi avvocati! Vorrà l’anima allora genuflettersi avanti di loro per venerarli, ma le diranno quei santi: «Vide ne faceris, conservus tuus sum» (Apoc. 22. 9). Indi sarà portata a baciare i piedi a Maria ch’è la Regina del paradiso. Qual tenerezza sentirà l’anima in conoscere10 di vista la prima volta quella divina Madre, che tanto l’ha aiutata a salvarsi! poiché

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    allora vedrà l’anima tutte le grazie, che le ha ottenute Maria, dalla quale poi si vedrà amorosamente abbracciata. Indi dalla stessa Regina sarà l’anima condotta a Gesù, che la riceverà come sposa e le dirà: «Veni de Libano, sponsa mea, veni, coronaberis» (Cant. 4. 8).Sposa mia, allegramente, son finite le lagrime, le pene e i timori; ricevi la corona eterna, ch’io t’ho acquistata col mio sangue. Gesù stesso poi la porterà a ricever la benedizione dal suo Padre divino, che abbracciandola la benedirà dicendole: «Intra in gaudium Domini tui» (Matth. 25. 21). Ella sarà11 beata della medesima beatitudine ch’Egli gode.

Affetti e preghiere
Ecco, mio Dio a’ piedi vostri un ingrato, creato da Voi per lo paradiso, ma egli tante volte per miseri piaceri ve l’ha rinunziato in faccia, contentandosi d’esser condannato all’inferno. Ma spero che Voi già m’abbiate perdonato tutte l’ingiurie che v’ho fatto, delle quali sempre di nuovo mi pento, e voglio pentirmene sino alla morte; e voglio che sempre Voi di nuovo me le torniate a perdonare. Ma oh Dio, che benché Voi m’abbiate già perdonato, sempre non però sarà vero ch’io ho avuto l’animo di amareggiare Voi, mio Redentore, che per condurmi al vostro regno avete data la vita. Ma sia sempre lodata e benedetta la vostra misericordia, o Gesù mio, che con tanta pazienza m’avete sopportato; e in vece di castighi avete accresciute verso di me le grazie, i lumi e le chiamate. Vedo, caro mio Salvatore, che proprio mi volete salvo, mi volete nella vostra patria ad amarvi eternamente, ma volete ch’io prima v’ami in questa terra. Sì, che voglio amarvi. Ancorché non vi fosse paradiso, io voglio amarvi, finché vivo, con tutta l’anima, con tutte le mie forze. Mi basti il sapere che Voi, mio Dio, desiderate esser amato da me. Gesù mio, assistemi con la vostra grazia, non mi abbandonate. L’anima mia è eterna, dunque sto nella sorte o di amarvi, o di odiarvi in eterno? No, io in eterno voglio amarvi, e voglio amarvi assai in questa vita, per amarvi assai nell’altra. Disponete di me come vi piace, castigatemi qui come volete, non mi private del vostro amore, e poi fatene di me quel che vi piace. Gesù mio, i meriti vostri sono la speranza mia.

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    O Maria, nella vostra intercessione io tutto confido. Voi m’avete liberato dall’inferno, quand’io stava in peccato; ora che voglio amar Dio, Voi mi avete da salvare e da far santo.

PUNTO II

Entrata che sarà l’anima nella beatitudine di Dio, «nihil est quod nolit», non avrà cosa più che l’affanni. «Absterget Deus omnem lacrimam ab oculis eorum, et mors ultra non erit; neque luctus, neque clamor, neque dolor erit ultra; quia prima abierunt. Et dixit qui sedebat in throno: Ecce nova facio omnia» (Apoc. 21. 4).1 Nel paradiso non vi sono più infermità, non povertà, né incomodi: non vi sono più vicende di giorni e di notti, né di freddo o di caldo. Ivi è un continuo giorno sempre sereno, una continua primavera sempre deliziosa. Ivi non vi sono più persecuzioni o invidie; in quel regno d’amore tutti s’amano teneramente, e ciascuno gode del bene dell’altro come fosse suo. Non vi sono più timori, perché l’anima confermata in grazia non può più peccare e perdere il suo Dio. «Ecce nova facio omnia». Ogni cosa è nuova, ed ogni cosa consola e sazia. «Totum est quod velis». Ivi sarà contentata la vista, in rimirare quella città di perfetta bellezza: «Urbs perfecti decoris» (Thren. 2. 15).2 Che delizia sarebbe vedere una città, dove il pavimento delle vie fosse di cristallo, i palagi d’argento con i soffitti d’oro, e tutt’adorni di festoni di fiori? Oh quanto sarà più bella la città del paradiso! Che sarà poi vedere que’ cittadini tutti vestiti alla regale, poiché tutti sono re, come parla S. Agostino:3 «Quot cives tot reges!» Che sarà veder Maria,

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    che comparirà più bella che tutto il paradiso! Che sarà poi vedere l’Agnello divino, lo sposo Gesù! Santa Teresa4 appena vide una volta una mano di Gesu-Cristo, rimase5 stupida per tanta bellezza. Sarà contentato l’odorato con quegli odori, ma odori di paradiso. Sarà contentato l’udito colle armonie celesti. S. Francesco6 intese una volta da un angelo una sola arcata di viola, ed ebbe a morirne per la dolcezza. Che sarà sentir tutt’i santi e gli angeli cantare a coro le glorie di Dio! «In saecula saeculorum laudabunt te» (Ps. 83. 5). Che sarà udir Maria che loda Dio! La voce di Maria in cielo, dice S. Francesco di Sales,7 sarà come d’un uscignuolo8 in un bosco, che supera il
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    canto di tutti gli altri uccellini, che vi sono. In somma ivi son tutte le delizie, che possono desiderarsi.

Ma queste delizie sinora considerate sono i minori beni del paradiso. Il bene che fa il paradiso è il sommo bene ch’è Dio. «Totum quod exspectamus (dice S. Agostino),9 duae syllabae sunt, Deus». Il premio che il Signore ci promette, non sono solamente le bellezze, le armonie e gli altri gaudi di quella città beata: il premio principale è Dio medesimo, cioè il vedere e l’amare Dio da faccia a faccia. «Ego ero merces tua magna nimis» (Gen. 15. 1).10 Dice S. Agostino11 che se Dio facesse veder la sua faccia a’ dannati, «continuo infernus ipse in amoenum converteretur paradisum» (Tom. 9. de Tripl. habit.). E soggiunge che se ad un’anima uscita da questa vita stesse ad eleggere o di veder Dio e star nelle pene dell’inferno, o pure di non vederlo ed esser liberata dall’inferno, «eligeret potius videre Dominum, et esse in illis poenis».12
Questo gaudio di vedere e amar Dio da faccia a faccia, da noi in questa vita non può comprendersi; ma argomentiamone qualche cosa dal saper13 per prima che l’amor divino è così dolce, che anche in questa vita è giunto a sollevar da terra non solo l’anime, ma ancora i corpi de’ santi. S. Filippo Neri14 fu una volta rapito in aria con tutto lo scanno a cui s’afferrò. S. Pietro d’Alcantara15 fu anche alzato

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    da terra abbracciato ad un albero svelto sin dalle radici. In oltre sappiamo che i santi martiri per la dolcezza dell’amor divino giubilavano negli stessi tormenti. S. Vincenzo mentr’era tormentato, parlava in modo (dice S. Agostino)16 che «alius videbatur pati, alius loqui». S. Lorenzo stando sulla graticola sul fuoco, insultava il tiranno: «Versa, et manduca»; sì, dice lo stesso S. Agostino,17 perché Lorenzo, «hoc igne (del divino amore) accensus non sentit incendium». In oltre, che dolcezze prova un peccatore in questa terra, anche in piangere i suoi peccati! Onde dicea S. Bernardo:18 «Si tam dulce est flere pro te, quid erit gaudere de te». Che suavità19 poi non prova un’anima, a cui nell’orazione se le scopre con un raggio di luce la divina bontà, le misericordie che l’ha usate e l’amore che l’ha portato e porta Gesu-Cristo! si sente allora l’anima struggere, e venir meno per l’amore. E pure in questa terra noi non vediamo Dio com’è: lo vediamo allo scuro. «Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem» (1. Cor. 13. 12). Al presente noi abbiamo una benda avanti gli occhi, e Dio sta sotto la portiera della fede, e non si fa da noi vedere; che sarà quando dagli occhi nostri si toglierà la benda, e s’alzerà la portiera, e vedremo Dio da faccia a faccia? vedremo quant’è bello Dio, quant’è grande, quant’è giusto, quant’è perfetto, quant’è amabile e quant’amoroso.
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    Affetti e preghiere
    Ah mio sommo bene, io sono quel misero, che vi ho voltate le spalle, ed ho rinunziato al vostro amore. Perciò non sarei più degno né di vedervi, né di amarvi. Ma Voi siete quegli,20 che per aver compassione di me, non avete avuto21 compassione di Voi, condannandovi a morir di dolore svergognato su d’un legno infame. La vostra morte dunque mi dà a sperare, che un giorno avrò da vedere e godere la vostra faccia, con amarvi allora con tutte le mie forze. Ma ora che sto in pericolo di perdervi per sempre, ora che mi trovo di avervi già perduto co’ miei peccati, che farò nella vita che mi resta? seguiterò ad offendervi? No, Gesù mio, io detesto con tutto l’odio l’offese che v’ho fatte; mi dispiace sommamente di avervi ingiuriato, e v’amo con tutto il cuore. Discaccerete22 da Voi un’anima, che si pente e v’ama? No, già so quel che Voi avete detto, che non sapete, amato mio Redentore, discacciar niuno che viene pentito a’ piedi vostri: «Eum qui venit ad me, non eiiciam foras» (Io. 6. 37). Gesù mio, io lascio tutto, e mi converto a Voi; v’abbraccio, vi stringo al mio cuore; abbracciatemi e stringetemi al vostro Cuore ancora Voi. Ardisco di parlare così, perché parlo e tratto con una bontà infinita: parlo con un Dio, che si è contentato di morire per amor mio. Caro mio Salvatore, datemi perseveranza nel vostro amore.

Cara Madre mia Maria, per quanto amate Gesu-Cristo ottenetemi questa perseveranza. Così spero, così sia.

PUNTO III

In questa terra la maggior pena che affligge l’anime che amano Dio, e sono in desolazione, è il timore di non amare e di non essere amate da Dio. «Nescit homo, utrum amore an odio dignus sit» (Eccle. 9. 1). Ma nel paradiso l’anima è sicura ch’ella ama Dio, e ch’è amata da Dio; vede ch’ella è felicemente perduta nell’amor del suo Signore, e che ‘l Signore la tiene abbracciata come figlia cara, e vede che

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    quest’amore non si scioglierà mai più in eterno. Accrescerà le beate fiamme all’anima il meglio conoscere che farà allora, quale amore è stato di Dio l’essersi fatto uomo, e morire per lei!1 quale amore l’istituzione del SS. Sagramento, un Dio farsi cibo d’un verme! Vedrà allora anche l’anima distintamente tutte le grazie che Dio le ha fatte in liberarla da tante tentazioni e pericoli di perdersi; ed allora vedrà che quelle tribolazioni, infermità, persecuzioni e perdite, ch’ella chiamava disgrazie e castighi di Dio, sono state tutte amore e tiri della divina provvidenza per condurla al paradiso. Vedrà specialmente la pazienza che ha avuta Dio in sopportarla dopo tanti peccati, e le misericordie che le ha usate, donandole tanti lumi e tante chiamate d’amore. Vedrà lassù di quel monte beato tante anime dannate nell’inferno per meno peccati de’ suoi, ed ella si vedrà già salva, che possiede Dio, ed è sicura di non avere più a perdere quel sommo bene per tutta l’eternità.

Sempre dunque il beato goderà quella felicità, che per tutta l’eternità in ogni momento gli sarà sempre nuova, come se quel momento fosse la prima volta in cui la godesse. Sempre desidererà quel gaudio, e sempre l’otterrà: sempre contenta, sempre sitibonda: sempre sitibonda, e sempre saziata; sì, perché il desiderio del paradiso non porta pena, e ‘l possesso non porta tedio. In somma siccome i dannati sono vasi pieni d’ira, i beati sono vasi pieni di contento, in modo che non hanno più che desiderare. Dice S. Teresa2 che anche in questa terra, quando Iddio introduce un’anima nella cella del vino, cioè del suo divino amore, la rende felicemente ubbriaca, talmente ch’ella perde l’affetto a tutte le cose terrene. Ma in entrare in paradiso, oh quanto più perfettamente, come dice Davide,3 gli eletti «inebriabuntur ab ubertate domus tuae» (Ps. 35. 9). Allora avverrà che

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    l’anima in vedere alla scoverta,4 e in abbracciarsi col suo sommo bene, resterà talmente inebriata d’amore, che felicemente si perderà in Dio, cioè affatto si scorderà di se stessa, e non penserà d’allora5 in poi che ad amare, a lodare e benedire quell’infinito bene, che possiede.

Quando dunque ci affliggono le croci di questa vita, confortiamoci a sopportarle pazientemente colla speranza del paradiso. S. Maria Egizziaca,6 dimandata in fine della sua vita dall’Abbate7 Zosimo,8 come avea potuto soffrire di vivere per tanti anni in quel deserto? Rispose: «Colla speranza del paradiso». S. Filippo Neri, essendogli offerta la dignità cardinalizia, buttò la berretta in aria dicendo: «Paradiso, paradiso». Fra Egidio Francescano9 in sentir nominare paradiso, era sollevato in aria per lo contento. Così parimenti ancora noi, quando ci vediamo angustiati dalle miserie di questa terra, alziamo gli occhi al cielo e consoliamoci, sospirando e dicendo: «Paradiso, paradiso».10 Pensiamo, che, se saremo fedeli a Dio, finiranno un giorno tutte queste pene, miserie e timori, e saremo ammessi in quella patria beata, dove saremo pienamente felici, mentre Dio sarà Dio. Ecco che ci aspettano i santi, ci aspetta Maria; e Gesù sta colla corona in mano, per renderci re11 di quel regno eterno.

Affetti e preghiere
Caro mio Salvatore, Voi mi avete insegnato a pregarvi: «Adveniat regnum tuum»:12 così dunque ora vi prego, venga il tuo regno

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    nell’anima mia, sicché Voi la possediate tutta, ed ella possegga13 Voi sommo bene. O Gesù mio, Voi non avete niente risparmiato per salvarmi, e per acquistarvi il mio amore; salvatemi dunque, e la salute mia sia l’amarvi per sempre in questa e nell’altra vita. Io tante volte vi ho voltato le spalle, e con tutto ciò Voi mi fate sapere che non isdegnerete di tenermi abbracciato in paradiso per tutta l’eternità con tanto amore, come s’io non mai vi avessi offeso; ed io sapendo ciò potrò amare altri che Voi, vedendo che volete darmi il paradiso, dopo che tante volte m’ho meritato l’inferno? Ah mio Signore, non vi avessi mai offeso! Oh se tornassi a nascere, vorrei sempre amarvi! Ma il fatto è fatto. Or altro non posso che donare a Voi questa vita che mi resta. Sì, a Voi tutta la dono; tutto mi consagro al vostro amore. Uscite del mio cuore, affetti terreni, date luogo al mio Dio, che vuol possederlo tutto. Sì possedetemi tutto, o mio Redentore, mio amore, mio Dio. Da ogg’innanzi non voglio pensare che a compiacervi. Aiutatemi colla vostra grazia; così spero ai meriti vostri. Accrescete sempre più in me l’amor vostro e ‘l desiderio di darvi gusto. Paradiso, paradiso! Quando sarà, Signore, che vi vedrò da faccia a faccia? e mi abbraccerò con Voi, senza timore di avervi più a perdere? Ah mio Dio, tenetemi le mani sopra, acciocché non vi offenda più.

O Maria, quando sarà che mi vedrò a’ piedi vostri in paradiso? Soccorretemi, Madre mia, non permettete ch’io mi danni e che vada a star lontano da Voi e dal vostro Figlio.

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CONSIDERAZIONE XXX – DELLA PREGHIERA

«Petite, et dabitur vobis… omnis enim qui petit, accipit» (Luc. 11. 10).1
PUNTO I

Non solo in questo, ma in mille luoghi dell’antico e nuovo Testamento promette Dio di esaudir chi lo prega. «Clama ad me, et exaudiam te» (Iob. 33. 3): Volgiti a me, ed io ti esaudirò. «Invoca me, et eruam te» (Ps. 49. 15):2 Chiamami, ed io ti libererò da’ pericoli. «Si quid petieritis me in nomine meo, hoc faciam» (Io. 14. 14):3 Quel che mi domanderai per li meriti miei, tutto farò. «Quodcunque volueritis, petetis, et fiet nobis» (Io. 15. 7): Cercate quanto volete, basta che lo cerchiate, e vi sarà conceduto. E tanti altri passi simili. Quindi disse Teodoreto4 che l’orazione è una ma può ottenere tutte le cose: «Oratio cum sit una, omnia potest». Dice S. Bernardo5 che quando noi preghiamo, il Signore6 o ci darà la grazia richiesta, o un’altra per noi più utile. «Aut dabit quod petimus, aut quod nobis noverit esse utilius» (Serm. 5. in Fer. 4. Ciner.). Intanto ci fa animo a pregare il profeta, assicurandoci che Dio è tutto pietà verso coloro che lo chiamano

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    in aiuto: «TuDomine suavis, et mitis, et multae misericordiae omnibus invocantibus te» (Ps. 85).7 E maggior animo ci fa S. Giacomo dicendo:8 «Si quis vestrum indiget sapientia, postulet a Deo, qui dat omnibus affluenter, nec improperat» (Epist. 1. 5).9 Dice questo apostolo che quando il Signore è pregato, allarga le mani e dona più di ciò che gli si domanda, «dat omnibus affluenter, nec improperat», né ci rimprovera i disgusti che gli abbiamo dati; quando è pregato, par che si dimentichi di tutte l’offese che gli abbiamo fatte.

Diceva S. Giovanni Climaco10 che la preghiera in certo modo fa violenza a Dio a concederci quanto gli cerchiamo: «Oratio pie Deo vim infert». Violenza, ma violenza che gli è cara, e da noi la desidera. «Haec vis grata Deo», scrisse Tertulliano.11 Sì, perché (siccome parla S. Agostino)12 ha più desiderio Dio di far bene a noi, che noi di riceverlo: «Plus vult ille tibi beneficia elargiri, quam tu accipere concupiscas». E la ragione di ciò si è, perché Dio di sua natura è bontà infinita: «Deus cuius natura bonitas», scrive S. Leone.13 E perciò ha un sommo desiderio di far parte a noi de’ suoi beni. Quindi dicea S. Maria Maddalena de’ Pazzi14 che Dio resta quasi obbligato a quell’anima, che lo prega, mentre così gli apre la via a contentare il suo desiderio

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    di dispensare a noi le sue grazie. E Davide15 dicea che questa bontà del Signore in esaudire subito chi lo prega, facea conoscergli ch’Egli era il suo vero Dio: «In quacunque die invocavero te, ecce cognovi quia Deus meus es tu» (Ps. 55. 10).16 A torto taluni si lamentano (avverte S. Bernardo)17 che manchi loro il Signore; molto più giustamente si lamenta il Signore che molti a lui mancano, lasciando di venire a cercargli18 le grazie: «Multi queruntur deesse sibi gratiam, sed multo iustius gratia quereretur deesse sibi multos». E di ciò appunto par che si lamentasse un giorno il Redentore co’ suoi discepoli: «Usque modo non petistis quidquam in nomine meo; petite et accipietis, ut gaudium vestrum sit plenum» (Io. 16. 24).19 Non vi lamentate di me (par che dicesse), se non siete stati pienamente felici, lamentatevi di voi, che non mi aveterichieste le grazie; chiedetemele da oggi avanti e sarete contenti.

Da ciò i monaci antichi conclusero nelle loro conferenze non esservi esercizio più utile per salvarsi, che ‘l sempre pregare e dire: Signore, aiutatemi: «Deus, in adiutorium meum intende».20 Il Ven. P. Paolo Segneri21 dicea di se stesso che nelle sue meditazioni prima

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    tratteneasi in fare affetti, ma poi conoscendo la grande efficacia della preghiera, procurava per lo più di trattenersi in pregare. Facciamo noi sempre lo stesso. Abbiamo un Dio che troppo ci ama, ed è sollecito della nostra salute, e perciò sta sempre pronto ad esaudir chi lo prega. I principi della terra, dice il Grisostomo22 a pochi danno udienza, ma Dio la dà ad ognun che la vuole: «Aures principis paucis patent, Dei vero omnibus volentibus» (Lib. 2. de Orat. ad Deum).

Affetti e preghiere
Eterno Dio, io vi adoro e ringrazio di quanti beneficii mi avete fatti, d’avermi creato e redento per mezzo di Gesu-Cristo, d’avermi fatto cristiano, d’avermi aspettato quand’io stava in peccato, e d’avermi tante volte perdonato. Ah mio Dio, io non sarei mai caduto in offendervi, se nelle tentazioni fossi a Voi ricorso. Vi ringrazio della luce colla quale ora mi fate conoscere, che tutta la mia salute consiste nel pregarvi e domandarvi le grazie. Ecco vi prego in nome di Gesu-Cristo a donarmi un gran dolore de’ miei peccati, la santa perseveranza nella vostra grazia, una buona morte, il paradiso; ma sopra tutto il sommo dono del vostro amore ed una perfetta rassegnazione nella vostra ss. volontà. Io già so che non le23 merito queste grazie, ma Voi l’avete promesse a chi ve le domanda per li meriti di Gesu-Cristo; io per li meriti di Gesu-Cristo a Voi le chiedo, e le spero.

O Maria, le vostre preghiere ottengono quanto dimandano, pregate Voi per me.

PUNTO II

Consideriamo in oltre la necessità della preghiera. Dice S. Gio. Grisostomo1 che siccome il corpo è morto senza l’anima, così l’anima è morta senza orazione. Dice similmente che come l’acqua è necessaria alle piante per non seccare, così l’orazione è necessaria a noi per non perderci. «Non minus quam arbores aquis, precibus indigemus» (Tom. 1. Hom. 77).2 Dio vuol salvi tutti: «Omnes homines vult salvos fieri» (1. Tim. 2. 4). E non vuole che alcuno si perda: «Patienter agit propter vos, nolens aliquos perire, sed omnes ad poenitentiam reverti» (2. Petr. 3. 9). Ma vuole che noi gli domandiamo le grazie necessarie per salvarci; poiché da una parte non possiamo osservare i divini precetti e salvarci senza l’attuale aiuto del Signore; e dall’altra Egli non vuole darci le grazie (ordinariamente parlando), se non ce le3 cerchiamo. Che perciò disse il sagro Concilio di Trento che Dio non impone precetti impossibili, poiché o ci dona la grazia prossima ed attuale ad osservarli, oppure ci dà la grazia di cercargli4 questa grazia attuale: «Deus impossibilia non iubet, sed iubendo monet et facere quod possis, et petere quod non possis, et adiuvat ut possis» (Sess. 6. cap. 11).5 Mentre insegna S. Agostino6 che eccettuate le prime grazie, come sono la chiamata alla fede, o alla penitenza, tutte l’altre (e specialmente la perseveranza) Dio non le concede se non a chi prega: «Constat alia Deus dare etiam non orantibus, sicut initium fidei; alia nonnisi orantibus praeparasse, sicut usque in finem perseverantiam» (De dono persev. cap. 6).

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    Da ciò concludono i Teologi7 con S. Basilio, S. Agostino, S. Gio. Grisostomo, Clemente Alessandrino ed altri che la preghiera agli adulti è necessaria di necessità di mezzo. Sicché senza pregare è impossibile ad ognuno il salvarsi. E ciò dice il dottissimo Lessio8 doversi tener di fede: «Fide tenendum est orationem adultis ad salutem esse necessariam, ut colligitur ex Scripturis» (De Iust. lib. 2. cap. 37. n. 9).

Le Scritture son chiare. «Oportet semper orare» (Luc. 18. 1). «Orate, ut non intretis in tentationem» (Io. 4. 2).9 «Petite, et accipiets» (Io. 16. 24). «Sine intermissione orate» (1. Thess. 5. 17). Or le suddette parole: «Oportet, orate, petite», secondo la sentenza comune de’ dottori con S. Tommaso (2. p. qu. 39. a. 5)10 importano precetto, che obbliga sotto colpa grave specialmente in tre casi: 1. quando l’uomo sta in peccato; 2. quando è in pericolo di morte; 3. quando è in grave pericolo di peccare; e ordinariamente poi insegnano i dottori che chi per un mese, o al più due non prega, non è scusato da peccato mortale (vedi Lessio nel luogo cit.). La ragione è, perché la preghiera è un mezzo, senza di cui non possiamo ottenere gli aiuti necessari a salvarci da’ peccati.11
«Petite, et accipietis». Chi cerca ottiene; dunque, dice S. Teresa,12 chi non cerca non ottiene. E prima lo disse S. Giacomo: «Non

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    habetis, propter quod non postulatis» (Iac. 4. 2). E specialmente è necessaria la preghiera, per ottenere la virtù della continenza. «Et ut scivi, quia aliter non possum esse continens, nisi Deus det… adii Dominum, et deprecatus sum» (Sap. 8. 21). Concludiamo questo punto. Chi prega, certamente si salva; chi non prega, certamente si danna. Tutti coloro che si son salvati, si son salvati col pregare. Tutti coloro che si son dannati, si son dannati per non pregare; e questa è, e sarà per sempre la loro maggior disperazione nell’inferno, l’aversi potuto così facilmente salvare col pregare, ed ora non essere più a tempo di farlo.

Affetti e preghiere
Ah mio Redentore, e come ho potuto per lo passato vivere così scordato di Voi? Voi stavate apparecchiato a farmi tutte le grazie ch’io vi avessi cercate, aspettavate solo ch’io ve le domandassi; ma io non ho pensato ad altro che a contentare i miei sensi, poco importandomi di restar privo del vostro amore e delle vostre grazie. Signore, scordatevi di tante mie ingratitudini e abbiate pietà di me; perdonatemi tanti disgusti che vi ho dati e datemi perseveranza. Datemi la grazia di cercarvi13 sempre il vostro aiuto per non offendervi, o Dio dell’anima mia. Non permettete che in ciò io sia trascurato, come sono stato per lo passato. Datemi luce e forza di sempre raccomandarmi a Voi, e specialmente quando i nemici mi tentano di nuovo ad offendervi. Fatemi, Dio mio, questa grazia per li meriti di Gesu-Cristo, e per l’amor14 che gli portate. Basta, Signor mio, quanto v’ho offeso; voglio amarvi in questa vita che mi resta. Datemi il vostro santo amore, e questo mi ricordi di cercarvi15 aiuto, sempre che mi troverò in pericolo di perdervi col peccato.

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    Maria speranza mia, da Voi spero la grazia di raccomandarmi sempre a Voi, ed al vostro Figlio nelle mie tentazioni. Esauditemi, Regina mia, per quanto amate Gesu-Cristo.

PUNTO III

Consideriamo per ultimo le condizioni della preghiera. Molti pregano e non ottengono, perché non pregano come si dee. «Petitis et non accipitis, eo quod male petatis» (Iac. 4. 3). Per ben pregare primieramente vi bisogna umiltà. «Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam» (Iac. 4. 6).Dio non esaudisce le domande1 de’ superbi, ma all’incontro non fa partire da sé le preghiere degli umili senza esaudirle. «Oratio humiliantis se nubes penetrabit, et non discedet, donec Altissimus aspiciat» (Eccli. 35. 21). E ciò, benché per lo passato sieno stati peccatori. «Cor contritum et humiliatum Deus non despicies» (Ps. 50).2 Per secondo vi bisogna confidenza. «Nullus speravit in Domino, et confusus est» (Eccli. 2. 11). A tal fine ci insegnò Gesu-Cristo che cercando3 le grazie a Dio non lo chiamiamo con altro nome che di Padre (Pater noster); acciocché lo preghiamo con quella confidenza, con cui ricorre un figlio al proprio padre. Chi cerca4 dunque con confidenza ottiene tutto: «Omnia quaecunque orantes petitis, credite quia accipietis, et evenient vobis» (Marc. 11).5 E chi può temere, dice S. Agostino,6 ch’abbia a mancargli ciò che gli viene promesso dalla stessa verità ch’è Dio? «Quis falli metuit, dum promittit veritas?» Non è Dio come gli uomini, dice la Scrittura, che promettono e poi mancano, o perché mentiscono allorché promettono, o pure perché poi mutano volontà: «Non est Deus quasi homo, ut mentiatur, nec ut mutetur; dixit ergo, et non faciet?» (Num. 23).7 E perché mai, soggiunge8 lo stesso S. Agostino,9 tanto ci esorterebbe

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    il Signore a chieder le grazie, se non ce le volesse concedere? «Non nos hortaretur ut peteremus nisi dare vellet» (De Verb. Dom. Serm. 5). Col promettere Egli si è obbligato a concederci le grazie che gli domandiamo: «Promittendo debitorem se fecit»10 (S. Aug. ibid. Serm. 2).11
    Ma dirà colui: Io son peccatore e perciò non merito d’esser esaudito. Ma risponde S. Tommaso12 che la preghiera in impetrar le grazie non si appoggia a’ nostri meriti, ma alla divina pietà: «Oratio in impetrando non innititur nostris meritis, sed soli divinae misericordiae» (2. 2. qu. 178. a. 2. ad 1). «Omnis qui petit accipit» (Luc. 11. 10). Commenta l’autor dell’Opera imperfetta:13 «Omnis sive iustus, sive peccator sit» (Hom. 18). Ma in ciò il medesimo nostro Redentore ci tolse ogni timore, dicendo: «Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis» (Io. 16. 23). Peccatori, (come dicesse) se voi non avete merito, l’ho io appresso mio Padre: cercate dunque in nome mio, ed io vi prometto che avrete quanto dimandate. Qui non però bisogna intendere che tal promessa non è fatta per le grazie temporali, come di sanità, di beni di fortuna e simili, poiché queste grazie molte volte il Signore giustamente ce le nega, perché vede che ci nocerebbero alla salute eterna. «Quid infirmo sit utile, magis novit medicus, quam aegrotus», dice S. Agostino14 (to. 3. c. 212). E soggiunge,15 che Dio16 nega ad alcuno per misericordia
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    quel che concede ad un altro per ira: «Deus negat propitius, quae concedit iratus». Onde le grazie temporali debbon da noi cercarsi sempre con condizione, se giovano all anima. Ma all’incontro le spirituali, come il perdono, la perseveranza, l’amor divino e simili debbon chiedersi assolutamente con fiducia ferma di ottenerle. «Si vos cum sitis mali (disse Gesu-Cristo), nostis bona data dare filiis vestris, quanto magis Pater vester de coelo dabit spiritum bonum petentibus se?» (Lucae 11. 13).

Bisogna sopra tutto17 la perseveranza in pregare. Dice Cornelio a Lapide (in Luc. cap. 11)18 che il Signore «vult nos esse perseverantes in oratione usque ad importunitatem». E ciò significano quelle Scritture: «Oportet semper orare» (Luc. 11).19 «Vigilate omni tempore orantes» (Luc. 21. 36). «Sine intermissione orate» (1. Thess. 5. 17). Ciò significano ancora quelle parole replicate: «Petite, et accipietis; quaerite, et invenietis; pulsate, et aperietur vobis» (Luc. 11. 9).20 Bastava l’aver detto «petite»; ma no, volle il Signore farc’intendere che dobbiamo fare come i mendici, che non lasciano di cercare21 d’insistere e di bussare la porta sin tanto che non han la limosina. E specialmente la perseveranza finale è una grazia che non si ottiene senza una continua orazione. Questa perseveranza non si può meritare da noi, ma colle preghiere, dice S. Agostino,22 che in certo modo si merita: «Hoc Dei donum suppliciter emereri potest: idest supplicando impetrari» (De dono persev. cap. 6). Preghiamo dunque sempre, e non lasciamo di pregare, se vogliamo salvarci. E chi è confessore, o predicatore, non lasci mai di esortare a pregare, se vuole veder salvate

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    l’anime. E come dice S. Bernardo,23 ricorriamo ancora sempre all’intercessione di Maria: «Quaeramus gratiam, et per Mariam quaeramus; quia quod quaerit invenit et frustrari non potest» (Serm. de Aquaeduct.).

Affetti e preghiere
Mio Dio, io spero che già mi abbiate perdonato, ma i nemici non lasceranno di combattermi sino alla morte; se non mi aiutate, tornerò a perdermi. Deh per li meriti di Gesu-Cristo vi cerco24 la santa perseveranza. «Ne permittas me separari a Te».25 E la stessa grazia vi cerco26 per tutti coloro che ora stanno in grazia vostra. Io sto certo, fidato sulla vostra promessa che mi darete la perseveranza, se io seguirò a domandarvela. Ma di questo io temo, temo nelle tentazioni di lasciare di ricorrere a Voi, e così di nuovo io ricada. Vi cerco27 dunque la grazia di non lasciar mai di pregare. Fate che nelle occasioni di ricadere, sempre io a Voi mi raccomandi ed invochi in mio aiuto i nomi ss. di Gesù e di Maria. Dio mio, così propongo e così spero di fare colla vostra grazia. Esauditemi per amore di Gesu-Cristo.

O Maria, Madre mia, impetratemi che ne’ pericoli di perdere Dio, sempre io ricorra a Voi e al vostro Figlio.

CONSIDERAZIONE XXXI – DELLA PERSEVERANZA

«Qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit» (Matth. 24. 13).

PUNTO I

Dice S. Girolamo1 che molti cominciano bene, ma pochi son quelli che perseverano: «Incipere multorum est, perseverare paucorum» (Lib. I. contra Iovin.). Cominciò bene un Saulle, un Giuda, un Tertulliano; ma poi finirono male, perché non perseverarono nel bene. «Non quaeruntur in christianis initia, sed finis» (S. Hieron. Ep. ad Fur.). Il Signore (siegue a dire il santo)2 non richiede solamente i principii della buona vita, ma anche il fine; il fine è quello che otterrà il premio. Dice S. Bonaventura3 che alla sola perseveranza si dà la corona: «Sola perseverantia coronatur». Che perciò S. Lorenzo Giustiniani4 chiamava la perseveranza la porta del cielo: «coeli ianuam». Dunque non può entrare in paradiso, chi non trova la porta per entrarvi. Fratello mio, voi al presente avete lasciato il peccato, e giustamente sperate d’essere stato perdonato. Siete dunque amico di Dio, ma sappiate che non ancora siete salvo. E quando sarete salvo? Quando avrete perseverato sino alla fine: «Qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit».5 Avete cominciata la buona vita, ringraziate il Signore;

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    ma vi avverte S. Bernardo6 che a chi comincia è solamente promesso il premio, ma poi solamente vien dato a chi persevera: «Incohantibus praemium promittitur, perseverantibus datur» (Serm. 6. de Modo bene viv.). Non basta correre al pallio, ma bisogna correre sino a prenderlo: «Sic currite, ut comprehendatis», dice l’Apostolo (1. Cor. 9. 24).

Or già avete posta la mano all’aratro, avete principiato a viver bene; ma ora piucché mai temete e tremate. «Cum metu et tremore vestram salutem operamini» (Philip. 2. 12). E perché? perché se (non voglia mai Dio) vi voltate a guardare indietro e ritornate alla mala vita, Dio vi dichiarerà escluso dal paradiso.7 «Nemo mittens manum ad aratrum, et respiciens retro, aptus est regno Dei» (Luc. 9. 62). Ora per grazia del Signore fuggite le male occasioni, frequentate i sagramenti,8 fate ogni giorno la meditazione; beato voi se seguite a far così, e così facendo vi troverà Gesu-Cristo, quando verrà a giudicarvi: «Beatus ille servus, quem cum venerit Dominus eius, invenerit sic facientem» (Matth. 24. 46). Ma non credete che ora che vi siete posto a servire a Dio, sian quasi finite, o mancate le tentazioni; udite quel che vi dice lo Spirito Santo: «Fili, accedens ad servitutem Dei, praepara animam tuam ad tentationem» (Eccli. 2. 1). Sappiate che or più che mai dovete apparecchiarvi alle battaglie; perché i nemici, il mondo, il demonio e la carne or più che mai si armeranno a combattervi, per farvi perdere quanto avete acquistato. Dice Dionisio Cartusiano9 che quanto più alcuno si dà a Dio, tanto più l’inferno cerca di abbatterlo: «Quanto quis fortius nititur Deo servire, tanto acrius contra eum saevit adversarius». E ciò sta abbastanza espresso nel Vangelo di S. Luca,10 dove si dice: «Cum immundus spiritus exierit ab homine, quaerens requiem et non inveniens, dicit: Revertar in domum meam, unde exivi. Tunc vadit, et assumit septem alios spiritus nequiores se, et ingressi habitant ibi; et fiunt novissima eorum

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    peiora prioribus» (Luc. 11. 24). Il demonio quando è discacciato da un’anima, non trova riposo e mette tutta l’opera per ritornare ad entrarvi, chiama anche compagni in aiuto, e se gli riesce di rientrarvi, sarà assai più grande per quell’anima la seconda ruina, che non fu la prima.

Andate dunque considerando di qual’armi avete ad avvalervi, per difendervi da questi nemici e conservarvi in grazia di Dio. Per non esser vinto dal demonio, non v’è altra difesa che l’orazione. Dice S. Paolo che noi non abbiamo a combattere contra uomini come noi di carne e sangue, ma contra i principi dell’inferno: «Non est nobis colluctatio adversus carnem et sanguinem, sed adversus principes et potestates» (Eph. 6. 12). E vuole con ciò avvertirci che noi non abbiamo forze da resistere a tali potenze, onde abbiamo bisogno che Dio ci aiuti. Coll’aiuto divino potremo tutto: «Omnia possum in eo qui me confortat» (Phil. 4. 13): così egli dicea, e così dobbiamo dire ciascuno di noi. Ma quell’aiuto non si dona, se non a chi lo domanda coll’orazione. «Petite, et accipietis».11 Non ci fidiamo dunque de’ nostri propositi; se mettiamo a12 questi confidenza, sarem perduti: tutta la confidenza, quando siam tentati dal demonio, mettiamola all’aiuto13 di Dio con raccomandarci allora a Gesu-Cristo ed a Maria SS. E specialmente dobbiamo ciò fare, quando siam tentati contro la castità, poiché questa tentazione fra tutte è la più terribile, ed è quella con cui il demonio riporta più vittorie. Noi non abbiamo forza di conservar la castità. Iddio ce l’ha da dare. Dicea Salomone: «Et ut scivi quoniam aliter non possum esse continens, nisi Deus det… adii Dominum, et deprecatus sum illum» (Sap. 8. 21). Bisogna dunque in tale tentazione subito ricorrere a Gesu-Cristo ed alla sua santa Madre, invocando allora spesso i loro SS. nomi di Gesù, e di Maria. Chi fa così, vincerà; chi non fa così, sarà perduto.

Affetti e preghiere
«Ne proiicias me a facie tua».14 Ah mio Dio, non mi discacciate dalla vostra faccia. Già so che Voi non mi abbandonerete mai, s’io

  • 305 –
    non sono il primo ad abbandonarvi; ma di questo io tremo per la sperienza della mia debolezza. Signore, Voi m’avete da dar fortezza che mi bisogna contro l’inferno, che pretende di vedermi di nuovo fatto suo schiavo. Ve la cerco15 per amore di Gesu-Cristo. Stabilite, o mio Salvatore, fra me e Voi una pace perpetua, che non abbia più a rompersi in eterno. E perciò datemi il vostro santo amore. «Qui non diligit, manet in morte».16 Chi non v’ama, è morto. Da questa morte infelice Voi m’avete da salvare, o Dio dell’anima mia. Io ero perduto, già lo sapete. Tutta è stata vostra bontà il ridurmi a questo stato in cui mi vedo, e spero di stare in grazia vostra. Deh non permettete, Gesù mio, per quella morte amara che soffriste per me, ch’io l’abbia volontariamente da tornare a perdere. Io v’amo sopra ogni cosa. Spero di vedermi sempre ligato17 da questo santo amore, per così legato morire, e legato vivere in eterno.

O Maria, Voi vi chiamate la madre della perseveranza. Questo gran dono per Voi si dispensa: a Voi lo domando,18 e per Voi lo spero.

PUNTO II

Vediamo ora, come si ha da vincere il mondo. È un gran nemico il demonio, ma peggiore è il mondo. Se ‘l demonio non s’avvalesse del mondo e degli uomini cattivi (per cui s’intende il mondo), non riporterebbe le vittorie che ottiene. Il Redentore non tanto ci avvertì a guardarci da’ demoni, quanto dagli uomini: «Cavete autem ab hominibus» (Matth. 10. 17). Gli uomini spesso son peggiori de’ demonii, perché i demonii fuggono all’orazione e all’invocarsi i nomi SS. di Gesù e di Maria; ma i mali compagni se tentano alcuno a peccare, e quegli risponde qualche parola spirituale, essi non fuggono, ma più lo tentano e lo deridono, chiamandolo uomo vile, senza creanza, che non vale a niente; e quand’altro non possono dire, lo chiamano ippocrita che finge santità. E certe anime deboli, per non sentire questi rimproveri o derisioni, miseramente si accompagnano con quei ministri di Lucifero e tornano al vomito. Fratello mio, persuadetevi,

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    che se volete viver bene, avete da esser senza meno burlato e vilipeso da’ malvagi. «Abominantur impii eos, qui in recta sunt via» (Prov. 29. 27). Chi vive male, non può vedere coloro che vivon bene; e perché? perché la loro vita è loro un continuo rimprovero, e perciò vorrebbero che tutti l’imitassero, per non avere la pena del rimorso che loro cagiona1 la buona vita degli altri. Non v’è rimedio (dice l’Apostolo), chi serve Dio ha da essere perseguitato dal mondo. «Omnes qui pie volunt vivere in Christo Iesu, persecutionem patientur» (2. Tim. 3. 12). Tutt’i santi sono stati perseguitati. Chi più santo di Gesu-Cristo? e ‘l mondo lo perseguitò, sino a farlo morir2 svenato in una croce.

Non v’è riparo a ciò, perché le massime del mondo sono tutte contrarie a quelle di Gesu-Cristo. Quel ch’è stimato dal mondo, da Gesu-Cristo è chiamata pazzia: «Sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum» (1. Cor. 3. 19). All’incontro il mondo chiama pazzia ciò, ch’è stimato da Gesu-Cristo, come sono le croci, i dolori, i disprezzi. «Verbum enim crucis pereuntibus quidem stultitia est» (1. Cor. 1. 18). Ma consoliamoci, che se i cattivi ci maledicono e ci vituperano, Iddio ci benedice e ci loda. «Maledicent illi, et tu benedices» (Ps. 108. 28). Non ci basta forse l’esser lodati da Dio, da Maria, da tutti gli angeli, da’ santi e da tutti gli uomini da bene?3 Lasciamo dunque lor4 dire a’ peccatori quello che vogliono, e seguitiamo noi a dar gusto a Dio, ch’è così grato e fedele con chi lo serve. Con quanta maggior ripugnanza e contraddizione faremo il bene, tanto sarà maggiore il gusto di Dio e ‘l merito nostro. Figuriamoci, come nel mondo non vi fosse altro che Dio e noi. Quando questi malvagi ci burlano, raccomandiamoli al Signore; ed all’incontro ingraziamo Dio, che dà luce a noi, che non dona a questi miserabili, e seguiamo il nostro cammino. Non ci vergogniamo di comparir cristiani, perché se noi ci vergogniamo di Gesu-Cristo, Egli si protesta che si vergognerà pur5 di noi e di tenerci alla sua destra nel giorno del giudizio: «Nam qui me erubuerit, et meum sermonem, hunc Filius hominis erubescet, cum venerit in maiestate sua» (Luc. 9. 26).

Se vogliamo salvarci, bisogna che ci risolviamo a patire e a farci forza, anzi violenza. «Arcta est via, quae ducit ad vitam». (Matth. 7. 14). «Regnum coelorum vim patitur, et violenti rapiunt illud»

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    (Idem. 11. 12). Chi non si fa forza, non si salva. Non ci è rimedio, poiché abbiamo da andare contro la nostra natura ribelle, se vogliamo praticare il bene. Specialmente dobbiamo farci forza al principio, per estirpare i mal’abiti6 ed acquistare i buoni; perché fatto poi il buon abito, si rende facile, anzi dolce l’osservanza della divina legge. Disse il Signore a S. Brigida7 che chi nel praticar la virtù con pazienza, ed animo soffrisce8 le prime punture delle spine, dopo le spine gli diventeranno rose. Sta attento dunque, cristiano mio, Gesu-Cristo ora ti dice quel che disse al paralitico: «Ecce sanus factus es, iam noli peccare, ne deterius tibi contingat» (Io. 5. 14). Intendi (ripiglia S. Bernardo),9 se per disgrazia ricadi, sappi che la tua ruina sarà peggiore di tutte le tue prime cadute: «Audis: recidere quam incidere esse deterius». Guai dice il Signore a coloro, che prendono la via di Dio, e poi la lasciano. «Vae, filii desertores» (Is. 30. 1). Questi tali son puniti, come ribelli della luce: «Ipsi fuerunt rebelles lumini» (Iob. 24. 13). E ‘l castigo di questi ribelli che sono stati favoriti da Dio d’una gran luce, e poi gli sono infedeli, è il restar ciechi, e così finir la vita ne’ loro peccati: «Si autem averterit se iustus a iustitia sua… nunquid vivet? omnes iustitiae eius, quas fecerat, non recordabuntur… in peccato morietur» (Ezech. 18. 24).

Affetti e preghiere
Ah mio Dio, un tal castigo già io più volte me l’ho meritato, mentre più volte ho lasciato il peccato per mezzo della luce, che Voi mi avete data, e poi miseramente vi sono10 ritornato. Ringrazio infinitamente la vostra misericordia di non avermi abbandonato nella cecità, con lasciarmi affatto privo di luce, come io meritava. Troppo dunque, o Gesù mio, io vi sono obbligato; e troppo ingrato vi sarei se ritornassi a voltarvi le spalle. No, mio Redentore, «misericordias Domini in aeternum cantabo».11 Io spero nella vita che mi resta, e per

  • 308 –
    tutta l’eternità di cantar sempre e lodare le vostre grandi12 misericordie, con amarvi sempre, e non vedermi più privo della vostra grazia. Le ingratitudini che per lo passato vi ho usate, e che ora detesto e maledico sopra ogni male, mi serviranno per farmi piangere sempre amaramente i torti che vi ho fatti, e per più accendermi ad amar Voi, che dopo tante offese da me ricevute, mi avete fatte grazie così grandi. Sì che v’amo, o mio Dio, degno d’infinito amore. D’ogg’innanzi13 Voi avete da esser l’unico amor mio, l’unico mio bene. O Eterno Padre per li meriti di Gesu-Cristo vi domando la perseveranza finale nella vostra grazia e nel vostro amore. Io già so che Voi me la concederete, sempre ch’io ve la chiederò. Ma chi m’assicura ch’io sarò attento a chiedervi questa perseveranza? Per questo, Dio mio, vi domando la perseveranza e la grazia di sempre cercarvela.

O Maria avvocata mia, rifugio e speranza mia, ottenetemi Voi colla vostra intercessione la costanza di domandare sempre a Dio la perseveranza finale. Ve ne prego ad ottenermela per quanto amate Gesu-Cristo.

PUNTO III

Veniamo al terzo nemico, ch’è il peggiore di tutti, cioè la carne; e vediamo come abbiamo a difendercene. Per prima, coll’orazione; ma ciò l’abbiam già considerato di sopra. Per secondo col fuggir l’occasione, e questo vogliamo ora ben ponderare. Dice S. Bernardino da Siena1 che il più grande di tutti i consigli, anzi quasi il fondamento della religione, è il consiglio di fuggir le occasioni pericolose:2 «Inter consilia Christi unum celeberrimum, et quasi religionis fundamentum est, fugere peccatorum occasiones» (Tom. I. Serm. 21. a. 3. c. 3). Confessò una volta il demonio costretto dagli esorcismi,3 che tra tutte

  • 309 –
    le prediche quella che più gli dispiace, è la predica della fuga dell’occasione; e con ragione, perché il demonio si ride di tutti i propositi e promesse che fa un peccator che si pente, se colui non lascia l’occasione. L’occasione specialmente in materia di piaceri di senso è come una benda che si mette avanti gli occhi, e non fa vedere più alla persona né propositi fatti, né lumi ricevuti, né verità eterne, in somma la fa scordare di tutto e la rende come cieca. Questa fu la causa della ruina de’ nostri primi progenitori, il non fuggir l’occasione. Dio avea proibito anche di toccare il frutto vietato: «Praecepit nobis Deus (disse Eva al serpente) ne comederemus, et ne tangeremus illud» (Gen. 3).4 Ma l’incauta «vidit, tulit, comedit». Prima cominciò a mirare il pomo, dipoi lo prese in mano, e poi lo mangiò. Chi volontariamente si mette nel pericolo, in quello resterà perduto. «Qui amat periculum, in illo peribit» (Eccli. 3. 27). Dice S. Pietro5 che il demonio «circuit quaerens quem devoret»; onde per rientrare in un’anima da cui è stato discacciato (dice S. Cipriano),6 che fa? va trovando l’occasione: «Explorat an sit pars, cuius aditu penetretur». Se l’anima si lascia indurre a mettersi nell’occasione, già di nuovo entrerà in lei il nemico e la divorerà. Dice in oltre Guerrico Abbate7 che Lazzaro risorse legato, «prodiit ligatus manibus, et pedibus»;8 e risorgendo così, tornò a morire. Povero (vuol dire questo autore) chi risorge dal peccato, ma risorge legato dall’occasione; questi ancorché risorgesse, pure tornerà a morire. Chi dunque vuole salvarsi, bisogna che lasci non solo il peccato, ma anche l’occasione di peccare, cioè quel compagno, quella casa, quella corrispondenza.
  • 310 –
    Ma dirai, ora ho mutata vita e non ci ho più mal fine con quella persona, anzi neppure tentazione. Rispondo: Nella Mauritania9 narrasi esservi certe orse, che vanno a caccia delle scimie; le scimie, vedendo l’orsa, si salvano sugli alberi, e l’orsa si stende sotto l’albero e si finge morta; quando poi vede scese le scimie, s’alza, le afferra e le divora. Così fa il demonio; fa vedere morta la tentazione, ma quando la persona è scesa poi a mettersi nell’occasione, fa sorgere la tentazione che la divora. Oh quante misere anime che frequentavano l’orazione, la comunione, e che poteano chiamarsi sante, col porsi poi all’occasione son rimaste preda10 dell’inferno. Si riferisce nell’Istorie11 ecclesiastiche
  • 311 –
    che una santa matrona, la quale facea l’officio pietoso di seppellire i martiri, una volta ne trovò uno, il quale non era ancora spirato, lo portò in sua casa, quegli guarì; che avvenne? coll’occasione vicina questi due santi (come poteano chiamarsi) prima perderono la grazia di Dio e poi anche la fede.

Ordinò il Signore ad Isaia che predicasse che ogni uomo è fieno: «Clama, omnis caro foenum» (Is. 40. 6).12 Qui riflette il Grisostomo e dice:13 È possibile che ‘l fieno non arda, quando v’è posto il fuoco? «Lucernam in foenum pone, ac tum aude negare, quod foenum exuratur». E così dice poi S. Cipriano,14 è impossibile star nelle fiamme e non bruciare: «Impossibile est flammis circumdari, et non ardere» (De Sing. Cler.). La fortezza nostra, ci avverte il profeta, è come la fortezza della stoppa posta nella fiamma. «Et erit fortitudo vestra ut favilla stupae» (Is. 1. 32). Parimenti dice Salomone, pazzo sarebbe chi pretendesse camminar sulle brace senza bruciarsi: «Nunquid potest homo ambulare super prunas, ut non comburantur plantae eius?» (Prov. 6. 17).15 E così ancora è pazzo chi pretende di porsi all’occasione,16 senza cadere. Bisogna dunque fuggire dal peccato17 come dalla faccia del serpente: «Quasi a facie colubri fuge peccatum» (Eccli. 21. 1). Bisogna fuggire non solo il morso del serpe, dice Galfrido, non solo il toccarlo, ma anche l’accostarsegli vicino: «Fuge etiam tactus, etiam accessum». Ma quella casa, tu dici, quell’amicizia giova

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    agl’interessi miei. Ma se vedi già che quella casa è via dell’inferno per te «via inferi domus eius» (Prov. 7. 27),non ci è rimedio bisogna che la lasci, se vuoi salvarti. Ancorché fosse l’occhio tuo destro, dice il Signore, se vedi che ti è causa di dannarti, bisogna che lo svelli e lo gitti da te lontano. «Si oculus tuus dexter scandalizat te, erue eum, et proiice abs te» (Matth. 5. 30). E si noti la parola «abs te»; bisogna gittarlo non vicino, ma lontano: viene a dire che bisogna togliere ogni occasione. Dicea S. Francesco d’Assisi18 che il demonio tenta d’altra maniera le persone spirituali, che si son date a Dio, di quella che tenta i malviventi; al principio non cerca di legarle con una fune, si contenta legarle con un capello, poi le lega con un filo, poi con uno spago, indi con una fune, e così finalmente le strascina al peccato. E perciò chi vuol esser libero da questo pericolo, bisogna che spezzi a principio tutti i capelli, tutte le occasioni, quei saluti, quei regali, quei biglietti, e simili. E parlando specialmente di chi ha avuto l’abito nel19 vizio impuro, non gli basterà il fuggire le occasioni prossime: s’egli non fuggirà anche le rimote, pure tornerà a cadere.

È necessario a chi vuole veramente salvarsi stabilire e rinnovare continuamente la risoluzione di non volersi più separare da Dio, con andare spesso replicando quel detto de’ santi: «Si perda tutto, e non si perda Dio». Ma non basta il solo risolvere di non volerlo più perdere, bisogna pigliare anche i mezzi per non perderlo. E il primo20 mezzo è il fuggir le occasioni, del che già si è parlato. Il 2. è frequentare i sacramenti della confessione e comunione. In quella casa che spesso si scopa, non ci regnano l’immondezze. Colla confessione si mantiene purgata l’anima, e con essa non solamente s’ottiene la remissione delle colpe, ma ancora l’aiuto per resistere alle tentazioni. La comunione poi si chiama pane celeste, perché siccome il corpo non può vivere senza il cibo terreno, così l’anima non può vivere senza questo cibo celeste. «Nisi manducaveritis carnem Filii hominis, et biberitis eius sanguinem, non habebitis vitam in vobis» (Io. 6. 54). All’incontro a chi spesso mangia questo pane, sta promesso che viverà in eterno:

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    «Si quis manducaverit ex hoc pane, vivet in aeternum» (Io. 6. 52). Che perciò il Concilio di Trento21 chiama la comunione medicina che ci libera da’ peccati veniali, e ci preserva da’ mortali: «Antidotum quo liberamur22 a culpis quotidianis, et a peccatis mortalibus praeservamur» (Trid. Sess. 13. c. 2). Il 3. mezzo è la meditazione, o sia l’orazione mentale. «Memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis» (Eccli. 7. 40). Chi tiene avanti gli occhi le verità eterne, la morte, il giudizio, l’eternità, non caderà in peccato. Iddio nella meditazione c’illumina: «Accedite ad eum, et illuminamini» (Ps. 33. 6). Ivi ci parla e ci fa intendere quel che abbiamo da fuggire e quel che abbiamo da fare. «Ducam eam in solitudinem, et loquar ad cor eius» (Osea 2. 14). La meditazione poi è quella beata fornace, dove si accende il divino amore. «In meditatione mea exardescet ignis» (Ps. 38. 4). In oltre, come già più volte si è considerato, per conservarsi in grazia di Dio è assolutamente necessario il sempre pregare e chiedere le grazie che ci abbisognano; chi non fa l’orazione mentale, difficilmente prega, e non pregando certamente si perderà.

Bisogna dunque pigliare i mezzi per salvarsi e fare una vita ordinata. Nella mattina al levarsi fare gli atti cristiani di ringraziamento, amore, offerta e proposito, colla preghiera a Gesù ed a Maria, che lo preservino in quel giorno da’ peccati. Dopo far la meditazione e sentir la Messa. Nel giorno poi la lezione spirituale, la visita al SS. Sagramento ed alla divina Madre. Nella sera il rosario, e l’esame di coscienza. La comunione più volte la settimana, secondo il consiglio del direttore, che stabilmente dee tenersi. Sarebbe molto utile ancor far gli esercizi spirituali in qualche casa religiosa. Bisogna onorare ancora con qualche ossequio speciale Maria SS. per esempio col digiuno del sabato. Ella si chiama Madre della perseveranza, e la promette a chi la serve: «Qui operantur in me, non peccabunt» (Eccli. 24. 31).23 Sopra tutto bisogna sempre domandare a Dio la santa perseveranza, e specialmente in tempo di tentazioni, invocando allora più spesso i nomi SS. di Gesù e di Maria, finché la tentazione persiste. Se farete così certamente vi salverete: e se non lo farete, certamente vi dannerete.

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    Affetti e preghiere
    Caro mio Redentore vi ringrazio di questi lumi che mi date, e de’ mezzi che mi fate conoscere per salvarmi. Io vi prometto di volerli stabilmente eseguire. Datemi Voi l’aiuto per esservi fedele. Vedo che Voi mi volete salvo, ed io voglio salvarmi, principalmente per compiacere il vostro Cuore, che tanto desidera la mia salute. Non voglio no, mio Dio, resistere più all’amore, che mi portate. Quest’amore ha fatto che mi sopportaste con tanta pazienza, mentre io vi offendeva. Voi mi chiamate al vostro amore, ed io altro non desidero che amarvi. V’amo, bontà infinita, v’amo, bene infinito. Deh vi prego per li meriti di Gesu-Cristo, non permettete ch’io vi sia più ingrato; o fatemi finire d’esservi ingrato, o fatemi finire di vivere. Signore avete cominciata l’opera, compitela ora: «Confirma hoc Deus quod operatus es in nobis».24 Datemi luce, datemi forza, datemi amore.

O Maria, Voi che siete la tesoriera delle grazie, Voi soccorretemi. Dichiaratemi per vostro servo qual io voglio essere; e pregate Gesù per me. Prima i meriti di Gesu-Cristo, e poi le vostre preghiere mi hanno da salvare.25
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CONSIDERAZIONE XXXII – DELLA CONFIDENZA NEL PATROCINIO DI MARIA SANTISSIMA

«Qui invenerit me, inveniet vitam, et hauriet salutem a Domino» (Prov. 8. 35).

PUNTO I

Quanto dobbiamo ringraziare la misericordia del nostro Dio in averci data Maria per avvocata, che colle sue preghiere può ottenerci tutte le grazie che desideriamo. «O certe Dei nostri mira benignitas (esclama S. Bonaventura),1 qui suis reis te Dominam tribuit advocatam, ut auxilio tuo quod volueris valeas impetrare» (In Salve Reg.). Peccatori, fratelli miei, se ci troviamo rei colla divina giustizia e già condannati all’inferno per li nostri peccati, non ci disperiamo, ricorriamo a questa divina Madre, mettiamoci sotto il suo manto, ed ella ci salverà. Buona intenzione ci vuole di voler mutar vita: buona intenzione e confidenza grande in Maria, e saremo salvi. E perché? perché Maria è un’avvocata «potente», un’avvocata «pietosa», un’avvocata «che desidera di salvar tutti».

In primo luogo consideriamo che Maria è un’avvocata «potente», che può tutto appresso il giudice a beneficio de’ suoi divoti. Questo è un privilegio singolare, concedutole dallo stesso giudice ch’è suo Figlio: «Grande privilegium, quod Maria apud Filium sit potentissima» (S. Bonav. in Spec. Lect. 6).2 Dice Gio. Gersone3 (tr. 6. sup. Magn.)

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    che la B. Vergine niente chiede da Dio con volontà assoluta, che non l’ottenga; e ch’ella come regina manda gli angeli ad illuminare, purgare e perfezionare i suoi servi. Perciò la Chiesa affin d’infonderci confidenza verso questa grande avvocata, ce la fa invocare col nome di Vergine potente: «Virgo potens, ora pro nobis». E perché il patrocinio di Maria è così potente? perché Ella è Madre di Dio. «Oratio Deiparae», dice S. Antonino,4 «habet rationem imperii, unde impossibile est eam non exaudiri» (Part. 4. tit. 15. c. 17. c. 4). Le preghiere di Maria, essendo ella madre, hanno una certa ragion di comando appresso Gesu-Cristo: e perciò è impossibile ch’ella, quando prega, non sia esaudita. Dice S. Giorgio5 Arcivescovo di Nicomedia6 che ‘l Redentore, quasi per soddisfare all’obbligo ch’Egli ha a questa madre, per avergli dato l’esser umano, esaudisce tutte le sue dimande: «Filius quasit exsolvens debitum, petitiones tuas implet» (Orat. de Exitu Mar.). Quindi S. Teofilo Vescovo d’Alessandria7 lasciò scritto così: «Il Figliuolo gradisce d’esser pregato da sua Madre, perché vuole accordarle quanto gli domanda, per così ricompensare il favore da
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    lei ricevuto in avergli data la carne». Che perciò il martire S. Metodio esclamava:8 «Euge, euge, quae debitorem habes Filium! Deo enim universi debemus, tibi autem ille debitor est» (Orat. Hyp. Dom.). Rallegrati, rallegrati, o Maria, che hai la sorte di avere per debitore quel Figlio, a cui tutti noi siam debitori, poiché quanto abbiamo, tutto è suo dono.

Quindi dicea Cosma Gerosolimitano9 che l’aiuto di Maria è onnipotente: «Omnipotens auxilium tuum, o Maria». Sì, è onnipotente, lo conferma Riccardo di S. Lorenzo,10 mentr’è giusto che la Madre partecipi della potestà del Figlio; il Figlio dunque ch’è onnipotente ha fatta onnipotente la Madre: «Cum autem eadem sit potestas Filii, et Matris, ab omnipotente Filio omnipotens Mater facta est» (Lib. 4 de Laud. Virg.). Il Figlio è onnipotente per natura, la Madre è onnipotente per grazia; viene a dire ch’Ella ottiene colle sue preghiere quanto dimanda, secondo quel celebre verso: «Quod Deus imperio, tu prece, Virgo, potes».11 E ciò appunto fu rivelato a S. Brigida12 (Rev. lib. I. c. 4). Un giorno questa13 santa intese che Gesù parlando con Maria le disse: «Pete quod vis a me, non enim potest esse inanis petitio tua». Madre mia, cercami14 quanto vuoi, sai che qualunque tua domanda non può non esser da me esaudita. E poi ne soggiunse la ragione: «Quia tu mihi nihil negasti in terris. Ego nihil tibi negabo in coelis».15 Voi

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    niente mi avete negato vivendo in terra, è ragione ch’io niente vi neghi ora che state meco in cielo.

In somma non v’è alcuno, quantunque scelerato,16 che Maria non possa salvarlo colla sua intercessione. «Habes vires iusuperabiles (le dicea S. Gregorio Nicomediense),17 ne clementiam tuam superet multitudo peccatorum. Nihil tuae resistit potentiae; tuam enim gloriam Creator existimat esse propriam» (Orat. de Exitu B. V.). O Madre di Dio, niente può resistere alla vostra potenza, giacché il vostro Creatore stima la gloria vostra come propria. Voi dunque tutto potete, le dice anche S. Pier Damiani,18 mentre potete salvare ancora i disperati. «Nihil tibi impossibile, quae etiam desperatos in spem salutis potes relevare» (Serm. 1. de Nat. B. V.).

Affetti e preghiere
Cara mia Regina e Madre, vi dirò con S. Germano:19 «Voi siete onnipotente per salvare i peccatori e non avete bisogno d’altra raccomandazione appresso Dio, perché siete la Madre della vera vita» (Serm. 3. in Dorm. B. V.). Dunque, Signora mia, s’io ricorro a Voi, non possono tutt’i peccati miei farmi diffidare della salute. Voi ottenete colle vostre preghiere quanto volete: se voi pregate per me, io certamente sarò salvo. Pregate dunque per me miserabile, (vi dirò con

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    S. Bernardo),20 o gran Madre di Dio, perché il vostro Figlio vi ascolta e vi concede quanto voi gli domandate: «Loquere, Domina, quia audit Filius tuus, et quaecunque petieris impetrabis». Io son peccatore è vero, ma voglio emendarmi, e mi vanto di essere vostro servo speciale. Son indegno è vero della vostra protezione, ma io so che Voi non avete mai abbandonato alcuno, che in Voi ha posta la sua confidenza. Voi potete e volete salvarmi, ed io in Voi confido. Quando io era perduto e non pensava a Voi, Voi avete pensato a me, e mi avete ottenuta la grazia di ravvedermi; quanto più debbo ora confidare nella vostra pietà, or che mi son dedicato alla vostra servitù e a Voi mi raccomando e spero? O Maria, pregate per me, e fatemi santo. Ottenetemi la santa perseveranza, ottenetemi un grande amore verso del vostro Figlio e verso Voi, Madre mia così amabile. Io v’amo, Regina mia, e spero d’amarvi sempre. Amatemi ancora Voi, e col vostro amore mutatemi da peccatore in santo.

PUNTO II

Consideriamo in secondo luogo che Maria è un’avvocata quanto potente, altrettanto «pietosa», che non sa negare il suo patrocinio ad ognuno che a lei ricorre. Gli occhi del Signore, dice Davide,1 stan rivolti sopra de’ giusti, ma questa Madre di misericordia (come dice Riccardo di S. Lorenzo)2 tiene gli occhi sopra de’ giusti, come sopra de’ peccatori, acciocché o non cadano, o se mai son caduti, colla sua intercessione ella gli sollevi: «Sed oculi Dominae super iustos et peccatores, sicut oculi matris ad puerum, ne cadat; vel si ceciderit, ut sublevet». Dicea S. Bonaventura3 che guardando Maria gli parea di

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    guardare la stessa misericordia: «Certe Domina, cum te aspicio, nihil nisi misericordiam cerno». Quindi ci esorta S. Bernardo4 a raccomandarci in tutti i nostri bisogni a questa potente avvocata con gran confidenza, poiché ella è tutta dolce e benigna con ognuno che a lei si raccomanda: «Quid ad Mariam accedere trepidat humana fragilitas? nihil austerum in ea, nihil terribile, tota suavis est». Perciò Maria è chiamata uliva: «Quasi oliva speciosa in campis» (Eccli. 24).5 Siccome dall’uliva non esce altro che olio, simbolo della pietà, così dalle mani di Maria non escono che grazie e misericordie, ch’ella6 dispensa a tutti coloro che si ricoverano sotto il suo patrocinio. Onde con ragione Dionisio Cartusiano7 la chiama l’avvocata di tutti i peccatori, che a lei ricorrono: «Advocata omnium iniquorum ad se confugientium». Oh Dio, e qual pena avrà un cristiano che si dannerà, pensando che potea in vita salvarsi con tanta facilità, ricorrendo a questa Madre di misericordia, e non l’ha fatto, e poi non sarà più a tempo di farlo! Disse8 la B. Vergine un giorno a S. Brigida:9 Io son chiamata la Madre della misericordia, e tale io sono, perché tale mi ha fatta la misericordia di Dio: «Ego vocor ab omnibus mater misericordiae, et vere misericordia illius misericordem me fecit» (Rev. lib. 1. cap. 6). Ed in verità chi ci ha data questa avvocata10 a difenderci, se non la misericordia di Dio, perché ci vuole salvi? «Ideo miser erit (soggiunse Maria) qui ad misericordiam, cum possit, non accedit». Misero11 disse, e misero in eterno sarà chi potendo in questa vita raccomandarsi a me, che sono così benigna e pietosa con tutti, infelice non ricorre e si danna.

Forse temiamo, dice S. Bonaventura,12 che cercando aiuto a Maria, ella ce lo neghi? No, dice il santo: «Ipsa enim non misereri ignorat,

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    et miseris non fatisfacere nunquam scivit». No che non sa, né ha saputo mai Maria lasciar di compatire e di aiutare qualunque miserabile che a lei è ricorso. Non sa, né può farlo, perché ella13 ci è stata assegnata da Dio per regina e madre di misericordia: come regina di misericordia ella è tenuta ad aver cura de’ miseri: «Tu Regina misericordiae (le dice S. Bernardo),14 et qui subditi misericordiae, nisi miseri?» Onde il santo poi per umiltà le soggiungea così: Giacché Voi dunque, o Madre di Dio, siete la regina della misericordia, dovete avere più cura di me, che fra tutti sono il peccatore più misero: «Tu regina misericordiae, et ego miserrimus peccator, subditorum maximus; rege nos ergo, o regina misericordiae».15 Come madre poi di misericordia dee attendere a liberar dalla morte i suoi figli infermi, de’ quali la sola sua pietà ne la rende madre. Pertanto S. Basilio16 la chiama, «publicum valetudinarium», pubblico spedale. Gli spedali pubblici son fatti per gl’infermi poveri, e chi è più povero, ha più ragione d’esservi accolto; e così, secondo S. Basilio, Maria dee accogliere con maggior pietà ed attenzione i peccatori più grandi, che a lei ricorrono.

Ma non dubitiamo della pietà di Maria. Un giorno S. Brigida17 intese che ‘l Salvatore diceva alla Madre: «Etiam diabolo misericordiam

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    exhiberes, si humiliter peteret». Lucifero il superbo non si umilierà mai a far questo, ma se il misero si umiliasse a questa divina Madre, e la pregasse ad aiutarlo, Maria colla sua intercessione lo caccerebbe18 dall’inferno. Con ciò volle darci ad intendere Gesu-Cristo ciò che Maria stessa poi disse alla santa che quando ricorre a Lei un peccatore, quantunque sia grande, ella non guarda i peccati che porta, ma l’intenzione con cui viene; che se viene con buona volontà d’emendarsi, ella l’accoglie e lo guarisce da tutte le piaghe che tiene:19 «Quantumcunque homo peccat, si ex vera emendatione ad me reversus fuerit, statim parata sum recipere revertentem: nec attendo quantum peccaverit, sed cum quali voluntate venit. Nam non dedignor eius plagas ungere et sanare; quia vocor, et vere sum mater misericordiae». Quindi ci fa animo S. Bonaventura:20 «Respirate ad illam, perditi peccatores, et perducet vos ad portum» (in Psal. 8). Poveri peccatori perduti, non vi disperate, alzate gli occhi a Maria, e respirate confidando alla21 pietà di questa buona madre. Cerchiamo dunque (dice S. Bernardo)22 la grazia perduta, e cerchiamola per mezzo di Maria: «Quaeramus gratiam, et per Mariam quaeramus» (Serm. de Aquaed.). Questa grazia da noi perduta, ella l’ha ritrovata, dice Riccardo di S. Lorenzo;23 dunque a lei dobbiamo portarci per ricuperarla: «Cupientes invenire gratiam, quaeramus inventricem gratiae» (De Laud. Virg. lib. 2). Quando S. Gabriele andò ad annunziare a Maria la divina maternità, tra l’altre cose le disse: «Ne timeas Maria, invenisti gratiam»
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    (Luc. 1).24 Ma se Maria non fu mai priva della grazia, anzi ne fu sempre piena, come potea dirle ch’ella l’avesse ritrovata? Risponde Ugon Cardinale25 che Maria non ritrovò la grazia per sé, perch’ella sempre l’avea goduta, ma per noi che l’abbiam perduta: onde dice Ugone che dobbiamo a lei andare e dirle: Signora, la roba dee restituirsi a chi l’ha perduta; questa grazia da Voi ritrovata non è già vostra, perché Voi l’avete sempre posseduta; ella è nostra, noi l’abbiamo per nostra colpa perduta, e a noi dunque dovete renderla: «Currant ergo, currant peccatores ad Virginem, qui gratiam amiserant peccando; secure dicant: Redde nobis rem nostram, quam invenisti».

Affetti e preghiere
Ecco, o gran Madre di Dio, a’ piedi vostri un misero peccatore che non una ma più volte ha voluto perdere la grazia divina, che ‘l vostro Figlio gli avea acquistata colla sua morte. O madre di misericordia, vengo a Voi coll’anima tutta piena di ferite e di piaghe, non mi sdegnate per questo, ma movetevi a maggior compassione, ed aiutatemi. Guardate la confidenza che ho in Voi, e non m’abbandonate. Io non vi cerco beni di terra, vi cerco la grazia di Dio e l’amor al vostro Figlio. Madre mia, pregate per me, e non lasciate mai di pregare. I meriti di Gesu-Cristo e la vostra intercessione mi hanno da salvare. Il vostro officio è d’intercedere per li peccatori: dunque «Advocata nostra (vi dirò con S. Tommaso da Villanova)26 officium tuum imple»: fate l’officio vostro, raccomandatemi a Dio, e difendetemi. Non vi è causa, per disperata27 che sia, che si perda quando è

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    difesa da Voi. Voi siete la speranza de’ peccatori, Voi siete la speranza mia. O Maria, io non lascerò di servirvi, d’amarvi e di ricorrere sempre a Voi; e Voi non lasciate mai di soccorrermi, specialmente allora che mi vedete in pericolo di tornare a perdere la grazia di Dio. O Maria, o gran Madre di Dio, abbiate pietà di me.

PUNTO III

Consideriamo in terzo luogo che Maria è un’avvocata così pietosa che non solo aiuta chi a lei ricorre, ma ella stessa va cercando i miseri per difenderli e salvarli. Ecco com’ella chiama tutti, con darci animo a sperare ogni bene, se a lei ricorriamo: «In me omnis spes vitae et virtutis: transite ad me omnes» (Eccli. 24. 25).1Commenta questo passo il divoto Pelbarto:2 «Vocat omnes, iustos, et peccatores». Il demonio va sempre in giro, dice S. Pietro, cercando chi divorare: «Circuit quaerens quem devoret» (1 Petr. 5).3 Ma questa divina Madre, dice Bernardino4 da Bustis,5 va in giro cercando chi può salvare: «Ipsa semper circuit, quaerens quem salvet» (Marial. par. 3. Serm. 3). Maria è madre di misericordia, perché la misericordia, che ha ella di noi, fa che ci compatisca e cerchi sempre di salvarci; come una madre che non può vedere i suoi figli in pericolo di perdersi, e lasciar d’aiutarli. E chi mai, dice S. Germano,6 dopo Gesu-Cristo, ha più cura della nostra salute, che Voi, o Madre di misericordia? «Quis post Filium tuum curam gerit generis humani sicut tu?» (Serm. de Zona Virg.). Aggiunge S. Bonaventura7 che Maria è così sollecita in soccorrere

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    i miserabili, che sembra non avere maggior desiderio che questo: «Undique sollicita es de miseris; solum misereri videris appetere» (Super Salve Reg.).

Ella certamente ci soccorre, quando a lei ricorriamo, e niuno mai è da lei discacciato. «Tanta est eius benignitas», dice l’Idiota,8 «ut nemo ab ea repellatur» (Praefat. in Cantic.). Ma ciò non basta al cuore pietoso di Maria, soggiunge Riccardo di S. Vittore.9 Ella previene le nostre suppliche, e s’impiega ad aiutarci prima che noi la preghiamo: «Velocius occurrit eius pietas, quam invocetur, et causas miserorum anticipat» (In Cant. cap. 23). In oltre dice lo stesso autore che Maria é così piena di misericordia, che quando vede miserie, subito sovviene, e non sa vedere il bisogno d’alcuno, e non soccorrerlo: «Adeo replentur ubera tua misericordia, ut alterius miseriae notitia tacta, lac fundant misericordiae, nec possis miserias scire, et non subvenire». Così ella facea sin da che viveva in questa terra, come sappiamo dal fatto accaduto nelle nozze di Cana di Galilea, allorché mancando il vino ella non aspettò d’esser pregata, ma compatendo l’afflizione e ‘l rossore di quegli sposi, cercò al Figlio che l’avesse consolati, dicendo: «Vinum non habent»;10 e già ottenne che ‘l Figlio con un miracolo cangiasse l’acqua in vino. Or se, dice S. Bonaventura,11 era così grande la pietà di Maria verso gli afflitti, mentre ancora stava in questo mondo, molto più grande certamente è la sua pietà, con cui ci soccorre, ora che sta in cielo, donde meglio vede le nostre miserie e più ci compatisce: «Magna fuit erga miseros misericordia Mariae adhuc exsulantis in mundo, sed multo maior est regnantis in coelo» (In spec. B. V. cap. 8). E soggiunge il Novarino12 che se Maria ancorché non pregata si dimostrò così pronta a soccorrere, quanto sarà ella più attenta a consolar

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    chi la prega? «Si tam prompta ad auxilium currit non quaesita, quid quaesita praestitura est?»

Ah non lasciamo mai di ricorrere in tutti i nostri bisogni a questa divina Madre, la quale si fa trovare sempre apparecchiata ad aiutar chi la prega. «Invenies semper paratam auxiliari», dice Riccardo di S. Lorenzo.13 E soggiunge Bernardino da Bustis14 che più desidera ella di far grazie a noi, che noi non desideriamo di riceverle da Lei: «Plus vult illa bonum tibi facere, et gratiam largiri, quam tu accipere concupiscas» (Marial. 1. Serm. 5. de Nom. Mar.). E perciò dice che quando a lei ricorreremo, la troveremo sempre colle mani piene di grazie e di misericordie: «Invenies eam in manibus plenam misericordia et liberalitate».15 È tanto il desiderio, dice S. Bonaventura, che ha Maria di farci bene e di vederci salvi, ch’ella si chiama offesa non solo da chi le fa qualche ingiuria positiva, ma anche da coloro che non le cercano16 grazie: «In te Domina peccant, non solum qui tibi iniuriam irrogant, sed etiam qui te non rogant» (S. Bon. in Spec. Virg.). Ed all’incontro afferma il santo che chi ricorre a Maria (s’intende sempre con volontà di emendarsi) egli è già salvo; onde la chiama: «O salus te invocantium»:17 Salute di chi v’invoca. Ricorriamo dunque sempre a questa divina Madre, e diciamole sempre ciò che questo santo le diceva: «In te Domina speravi, non confundar in aeternum».18 O Signora, o Madre di Dio Maria, no che non mi dannerò, avendo posto in19 Voi le mie speranze.

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    Affetti e preghiere
    O Maria, ecco a’ piedi vostri un misero schiavo dell’inferno che vi cerca pietà. È vero ch’io non merito alcun bene, ma voi siete madre di misericordia, e la pietà si usa con chi non la merita. Tutto il mondo vi chiama il rifugio, e la speranza de’ peccatori; dunque voi siete il rifugio e la speranza mia. Son pecorella perduta, ma per salvare queste pecorelle perdute venne dal cielo il Verbo eterno, e si fece vostro Figlio; ed egli vuole ch’io ricorra a Voi, e Voi mi soccorriate colle vostre preghiere. «Sancta Maria Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus». O gran Madre di Dio, Voi pregate per tutti, pregate il vostro Figlio anche per me. Ditegli ch’io son vostro divoto, e che voi mi proteggete. Ditegli che in Voi ho poste io le mie speranze. Ditegli che mi perdoni, e ch’io mi pento di tutte le offese che gli ho fatte. Ditegli che mi doni per sua misericordia la santa perseveranza. Ditegli che mi conceda la grazia d amarlo con tutto il cuore. Ditegli in somma che mi volete salvo. Egli fa quanto Voi gli domandate.

O Maria speranza mia, in Voi confido, abbiate pietà di me.

CONSIDERAZIONE XXXIII – DELL’AMORE DI DIO

«Nos ergo diligamus Deum, quoniam Deus prior dilexit nos» (Io. 4. 19).1
PUNTO I

Considera primieramente che Iddio merita esser amato da te, perché ti ha amato prima che tu l’amassi; ed Egli è stato fra tutti il primo ad amarti. «In caritate perpetua dilexi te» (Ier. 31. 3). I primi ad amarti in questa terra sono stati i tuoi genitori, ma essi non ti hanno amato se non dopo che ti han conosciuto. Ma prima che tu avessi l’essere, Dio già ti amava. Non era ancora in questo mondo né tuo padre, né tua madre, e Dio già t’amava; anzi non era ancora creato il mondo, e Dio t’amava; e quanto tempo prima di crearsi il mondo t’amava Dio? forse mille anni, mille secoli prima? non occorre di numerare2 anni e secoli, sappi che Dio ti ha amato sin dall’eternità. «In caritate perpetua dilexi te, ideo attraxi te miserans tui» (ibid.).3 In somma Iddio da che è stato Dio, sempre t’ha amato; da che ha amato se stesso, ha amato ancora te. Avea ragione dunque quella santa verginella S. Agnese di dire:4 «Ab alio amatore praeventa sum». Allorché il mondo e le creature le richiedeano il5 suo amore, ella rispondea: No, mondo, creature, io non vi posso amare; il mio Dio è stato il primo ad amarmi; è giusto dunque ch’io solo a Dio consacri tutto il mio amore.

Sicché, fratello mio, da una eternità6 ti ha amato il tuo Dio, e solo per amore ti ha estratto dal numero di tanti uomini che potea creare, ed ha dato a te l’essere e ti ha posto nel mondo. Per amor tuo ancora ha fatte tante altre belle creature, acciocché ti servissero e ti ricordassero l’amore, ch’Egli t’ha portato e che tu gli dei. «Coelum et terra», dicea

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    S. Agostino,7 «et omnia mihi dicunt, ut amem te». Quand’il santo guardava il sole, la luna, le stelle, i monti, i fiumi, gli parea che tutti gli parlassero e gli dicessero: Agostino, ama Dio, perché egli8 ha creato noi per te, affinché tu l’amassi. L’Abbate Ransé9 fondatore della Trappa, quando mirava le colline, i fonti, i fiori, dicea che tutte queste creature gli ricordavano l’amore, che Dio gli avea portato. S. Teresa10 parimenti dicea che le creature le rinfacciavano la sua ingratitudine verso Dio. S. Maria Maddalena de’ Pazzi11 quando teneva in mano qualche bel fiore o frutto, si sentiva da quello ferire come da una saetta il cuore d’amore verso Dio, dicendo tra sé: Dunque il mio Dio ha pensato da un’eternità a crear questo fiore, questo frutto, acciocché io12 l’amassi!

Di più considera l’amore speciale, che Dio ti ha portato, in farti nascere in paese cristiano e in grembo della vera Chiesa. Quanti nascono tra gl’idolatri, tra’ Giudei, tra’ Maomettani,13 o tra gli eretici, i quali tutti si perdono! Pochi sono quelli che tra gli uomini hanno la sorte di nascere, dove regna la vera fede; e tra questi pochi il Signore ha eletto te. Oh che dono immenso è questo dono della Fede! Quanti milioni di persone sono prive de’ sagramenti,14 di prediche, degli esempi de’ buoni compagni, e di tutti gli altri aiuti che vi sono nella nostra vera Chiesa per salvarsi! E Dio ha voluto concedere a te tutti questi grandi aiuti senza alcuno15 tuo merito, anzi prevedendo i tuoi demeriti; mentre allorché egli pensava a crearti ed a farti queste grazie, già prevedea l’ingiurie che tu gli avevi da fare.

  • 332 –
    Affetti e preghiere
    O sovrano Signore del cielo e della terra, infinito bene, infinita maestà, voi che tanto avete amato gli uomini, come poi siete così disprezzato dagli uomini? Ma tra questi uomini Voi, mio Dio, particolarmente avete amato me, favorendomi con grazie così speciali, che non avete concedute a tanti; ed io vi ho disprezzato più degli altri. Mi butto a’ vostri piedi, o Gesù mio Salvatore, «ne proiicias me a facie tua».16 Meriterei che mi discacciaste, per l’ingratitudini che v’ho usate; ma Voi avete detto che non sapete discacciare un cuore pentito che a Voi ritorna: «Eum, qui venit ad me, non eiiciam foras» (Io. 6. 37). Gesù mio, mi pento di avervi offeso. Per lo passato vi ho sconosciuto, ora vi riconosco per mio Signore e mio Redentore, che siete morto per salvarmi e per essere amato da me. Quando finirò, Gesù mio, d’esservi ingrato? quando comincerò ad amarvi da vero? Ecco oggi risolvo di amarvi con tutto il cuore, e di non amare altro che Voi. O bontà infinita, io vi adoro per tutti coloro, che non vi adorano, e v’amo per tutti coloro che non v’amano. In Voi credo, in Voi spero, Voi amo, a Voi tutto mi offerisco; aiutatemi colla vostra grazia. Voi già sapete la mia debolezza. Ma se Voi mi avete così favorito, quando io non vi amava, né desiderava d’amarvi, quanto più debbo sperare nella vostra misericordia, ora che v’amo, né altro desidero che amarvi? Signor mio, datemi il vostro amore, ma un amore fervente, che mi faccia scordare di tutte le creature; un amore forte, che mi faccia superare tutte le difficoltà per darvi gusto: un amore perpetuo, che non si sciolga più tra me e Voi. Tutto spero a’17 meriti vostri, o Gesù mio; e tutto spero alla vostra intercessione, o Madre mia Maria.

PUNTO II

Ma non solamente Iddio ci1 ha donate tante belle creature, Egli non si è chiamato contento, se non giungeva a donarci anche se stesso. «Dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis» (Gal. 2. 20).2 Il peccato

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    maledetto aveaci fatta perdere la divina grazia e ‘l paradiso, e ci avea renduti3 schiavi dell’inferno; ma il Figlio di Dio facendo stupire il cielo e la natura, volle venire in terra a farsi uomo per riscattarci dalla morte eterna e farci ottenere la grazia e ‘l paradiso perduto. Che maraviglia sarebbe vedere un monarca fatto verme per amore de’ vermi? ma infinitamente maggiore dee essere in noi la maraviglia di vedere un Dio fatto uomo per amore degli uomini. «Exinanivit semetipsum, formam servi accipiens, et habitu inventus ut homo» (Phil. 2. 7). Un Dio vestito di carne! «Et Verbum caro factum est» (Io. 1. 14). Ma cresce la maraviglia in vedere quel che poi ha fatto e patito per nostro amore questo Figlio di Dio. Bastava per redimerci una sola goccia del suo sangue, una lagrima, una semplice sua preghiera, poiché questa preghiera essendo d’una persona divina, era d’infinito valore, ond’era sufficiente a salvare tutto il mondo ed infiniti mondi. Ma no, dice il Grisostomo,4 quel che bastava a redimerci,
  • 334 –
    non bastava all’amore immenso, che questo Dio ci portava: «Quod sufficiebat redemtioni, non sufficiebat amori».

Egli non solo volea salvarci, ma perché ci amava assai, voleva ancora essere amato assai da noi; e perciò volle scegliersi una vita tutta colma di pene, e di disprezzi, ed una morte la più amara fra tutte le morti, per farc’intendere l’amore infinito, del quale ardeva verso di noi. «Humiliavit semetipsum, factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis» (Phil. 2. 8). Oh eccesso dell’amore divino, che tutti gli uomini e tutti gli angeli non arriveranno mai a comprenderlo! Dico «eccesso», perché tale fu chiamato appunto da Mosè e da Elia sul Taborre, parlando essi della passione di Gesu-Cristo: «Dicebant excessum quem completurus erat in Ierusalem» (Luca 9. 31). «Excessus doloris, excessus amoris», dice S. Bonaventura.5 Se ‘l Redentore non fosse stato Dio, ma un semplice nostro amico e parente, qual maggior segno d’affetto avrebbe potuto dimostrarci che di morire per noi? «Maiorem hac dilectionem nemo habet, ut animam suam ponat quis pro amicis suis» (Io. 15. 13). Se Gesu-Cristo avesse avuto a salvare il suo medesimo Padre, che più avrebbe potuto fare per suo amore? Se, fratello mio, tu fossi stato Dio e ‘l creatore di Gesu-Cristo, che altro avrebbe potuto egli fare per te, che sagrificar la vita in mezzo ad un mare di disprezzi e di dolori? Se il più vile uomo della terra avesse fatto per voi quel che ha fatto Gesu-Cristo, potreste vivere senz’amarlo?

Ma che dite? Credete voi all’incarnazione ed alla morte di Gesu-Cristo? Lo credete e non l’amate? e potete pensare ad amare altra cosa fuori di Gesu-Cristo? Forse dubitate, se egli v’ami? Egli, dice S. Agostino,6 a questo fine è venuto in terra a patire e morire per voi,

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    per farvi sapere l’immenso amore che vi porta: «Propterea Christus advenit, ut cognosceret homo quantum eum diligat Deus». Prima dell’incarnazione potea dubitare l’uomo, se Dio l’amasse con tenerezza, ma dopo l’incarnazione e la morte di Gesu-Cristo, come può più dubitarne? E qual maggior tenerezza poteva egli dimostrarvi del suo affetto, che in sagrificar per voi la sua vita divina? Abbiam fatto l’orecchio a sentir nominare creazione, redenzione, un Dio in una mangiatoia, un Dio su d’una croce. Oh santa fede, illuminateci voi.

Affetti e preghiere
O Gesù mio, vedo che7 Voi non avete avuto più che fare per mettermi in necessità d’amarvi; vedo ch’io ho procurato colla mia ingratitudine di mettervi in obbligo di abbandonarmi. Sia sempre benedetta la vostra pazienza, che tanto mi ha sopportato. Io meriterei un inferno a posta per me, ma la morte vostra mi dà confidenza. Deh fatemi ben conoscere il merito che avete Voi, o immenso bene, d’essere amato, e l’obbligo che ho io d’amarvi. Io già sapeva che Voi, Gesù mio, siete morto per me, e poi come ho potuto, oh Dio, vivere per tanti anni scordato di Voi? Oh tornassi a vivere da principio gli anni che ho vivuti, vorrei, Signore8 mio, darli tutti a Voi. Ma gli anni non ritornano, deh fate che almeno questa vita che mi resta io la spenda tutta in amarvi e darvi gusto. Caro mio Redentore, io v’amo con tutto il cuore, deh9 accrescete Voi in me quest’amore; ricordatemi sempre quel che avete fatto per me e non permettete ch’io viva a Voi più ingrato. No, non voglio più resistere a’ lumi che mi avete dati. Voi volete essere amato da me, ed io vi voglio amare. E chi voglio amare se non amo un Dio, ch’è infinita bellezza, infinita bontà? un Dio ch’è morto per me? un Dio che con tanta pazienza m’ha sofferto, ed invece di castigarmi come io meritava, ha mutati i castighi in grazie e favori? Sì, che v’amo, o Dio degno d’infinito amore, ed altro non sospiro né cerco, che di vivere tutto occupato in amarvi, e scordato di tutto ciò che non siete Voi. O carità infinita del mio Signore, soccorrete voi un’anima che anela d’esser tutta vostra.

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    Soccorretemi Voi, o gran Madre di Dio Maria, colla vostra intercessione; pregate Gesù che mi faccia tutto suo.

PUNTO III

Cresce la maraviglia in vedere poi il desiderio, che avea Gesu-Cristo di patire e di morire per noi. «Baptismo autem habeo baptizari (così Egli andava dicendo, mentre viveva), et quomodo coarctor usquedum perficiatur» (Lucae 12. 50). Io debbo essere battezzato col battesimo del mio medesimo sangue, e mi sento morire di desiderio che venga presto la mia passione e morte, acciocché così l’uomo presto conosca l’amore ch’io gli porto. Ciò fu ancora che gli fe’ dire nella notte precedente alla sua passione: «Desiderio desideravi hoc pascha manducare vobiscum» (Lucae 22. 15).Dunque, dice S. Basilio di Seleucia,1 par che il nostro Dio non possa saziarsi di amare gli uomini: «Hominum amore nequit expleri Deus» (S. Bas. cap. 416).

Ah Gesù mio, gli uomini non v’amano, perché non pensano all’amore che voi avete loro portato. Oh Dio, un’anima che considera un Dio morto per suo amore e con tanto desiderio di morire per dimostrarle l’affetto che le portava, com’è possibile che possa vivere senz’amarlo? «Caritas Christi urget nos» (2. Cor. 5. 14). Dice S. Paolo che non tanto quel che ha fatto ed ha patito Gesu-Cristo, ma l’amore che ci ha dimostrato nel patire per noi, ci obbliga e quasi ci fa forza ad amarlo. Ciò considerando S. Lorenzo Giustiniani2 esclamava: «Vidimus sapientem prae nimietate amoris infatuatum!» Abbiam veduto un Dio, che per noi quasi è impazzito per lo troppo amore che ci porta. E chi mai potrebbe credere, se la fede non ce ne assicurasse, che il Creatore abbia voluto morire per le sue creature? S. Maria Maddalena de’ Pazzi3 in un’estasi ch’ebbe, portando tra le mani

  • 337 –
    un’immagine del Crocifisso, così appunto chiamava Gesu-Cristo: Pazzo d’amore. «Sì, Gesù mio, (diceva)4 che tu sei pazzo d’amore». E questo appunto ancora diceano i gentili, quando loro si predicava la morte di Gesu-Cristo, la stimavano una pazzia da non potersi mai credere: così attesta l’Apostolo: «Praedicamus Christum crucifixum, Iudaeis quidem scandalum, gentibus autem stultitiam» (1. Cor. 1. 23). E come mai, essi diceano, un Dio felicissimo in se stesso, che di niuno ha bisogno, ha potuto scendere in terra, farsi uomo e morire per amore degli uomini sue creature? Ciò sarebbe lo stesso che credere un Dio divenuto pazzo per amore degli uomini. Ma pure è di fede che Gesu-Cristo vero Figlio di Dio per amore di noi si è dato alla morte: «Dilexit nos et tradidit semetipsum pro nobis» (Eph. 5. 2).

E perché l’ha fatto? l’ha fatto, acciocché noi vivessimo non più al mondo, ma solamente a quel Signore che ha voluto per noi morire. «Pro omnibus mortuus est Christus, ut et qui vivunt, iam non sibi vivant, sed ei qui pro ipsis mortuus est» (2. Cor. 5. 15). L’ha fatto, acciocché coll’amore che ci ha dimostrato, Egli si guadagnasse tutti gli affetti de’ nostri cuori. «In hoc Christus mortuus est, et resurrexit, ut mortuorum et vivorum dominetur» (Rom. 14. 9). Quindi i santi, considerando la morte di Gesu-Cristo, hanno stimato far poco in dar5 la vita e tutto per amore d’un Dio così amante. Quanti nobili, quanti principi hanno lasciato i parenti, le ricchezze, le patrie ed anche i regni, per chiudersi in un chiostro a vivere al solo amore di Gesu-Cristo! Quanti martiri gli han sagrificata la vita! Quante verginelle, rinunziando alle nozze de’ grandi, se ne sono andate giubilando alla morte, per render così qualche ricompensa all’affetto d’un Dio morto per loro amore! E voi, fratello mio, che avete fatto sinora per amore di Gesu-Cristo? Egli siccome è morto per li santi, per S. Lorenzo, per S. Lucia, per S. Agnese, così è morto ancora per voi. Almeno che pensate di fare nella vita che vi resta, e che Dio vi concede a fine che l’amiate? Da oggi avanti rimirate spesso l’immagine del Crocifisso, e guardandola ricordatevi dell’amore ch’egli vi ha portato, e dite fra voi: Dunque Voi, mio Dio, siete morto per me? Fate almen questo (dico), e fatelo spesso, che facendo così, non potrete far di meno di sentirvi dolcemente costretto ad amare un Dio che vi ha tanto amato.

  • 338 –
    Affetti e preghiere
    Ah mio caro Redentore, è vero; perciò non v’ho amato, perché non ho pensato all’amore che mi avete portato. Ah Gesù mio, vi sono stato troppo ingrato; Voi avete data la vita per me con una morte la più amara di tutte le morti, ed io ho potuto esservi così sconoscente, che neppure ho voluto pensarvi? Perdonatemi; io vi prometto che da ogg’innanzi, amor mio crocifisso, Voi sarete l’unico oggetto de’ miei pensieri e di tutti gli affetti miei. Deh, quando il demonio o il mondo mi presenta qualche pomo vietato, ricordatemi Voi, amato mio Salvatore, le pene che avete sofferte per amor mio, acciocché io6 v’ami e non vi offenda più. Ah che se un servo mio avesse fatto per me quel che avete fatto Voi, non avrei animo di disgustarlo. Ed io ho avuto l’animo tante volte di voltare le spalle a Voi, che siete morto per me. O belle fiamme d’amore, voi che obbligaste un Dio a dare per me la vita, venite, infiammate, riempite tutto il mio cuore e distruggete tutti gli affetti miei alle cose create. Ah mio amato Redentore, com’è possibile che chi vi considera o nella mangiatoia di Betlemme, o sulla croce nel Calvario, o nel Sagramento sugli altari, non s’innamori di Voi? Gesù mio, io v’amo con tutta l’anima mia. Negli anni che mi restano di vita, Voi sarete l’unico mio bene, l’unico mio amore. Mi bastano gli anni infelici che miseramente ho vivuti scordato della vostra passione e del vostro affetto. Io tutto a Voi mi dono, e se non so donarmi come debbo, prendetemi Voi, e Voi regnate di tutto7 il mio cuore. «Adveniat regnum tuum».8 Non di altri9 egli sia servo che del vostro amore; d’altro non parli, d’altro non tratti, ad altro non pensi, altro non sospiri che amarvi, e darvi gusto. Assistetemi Voi sempre colla vostra grazia, acciocché io10 vi sia fedele. Ai vostri11 meriti io confido, o Gesù mio.

O Madre del bell’amore, fatemi amare assai questo vostro Figlio, ch’è così amabile e che mi ha tanto amato.

CONSIDERAZIONE XXXIV – DELLA SANTA COMUNIONE

«Accipite, et comedite: hoc est Corpus meum» (Matth. 26).1
PUNTO I

Vediamo 1.2 il gran dono, ch’è il SS. Sagramento: 2. il grande amore, che Gesù in tal dono ci ha dimostrato: 3.3 il gran desiderio di Gesù che noi riceviamo questo suo dono. Consideriamo in primo luogo il gran dono che ci ha fatto Gesu-Cristo, in darci tutto se stesso in cibo nella santa Comunione. Dice S. Agostino4 ch’essendo Gesù un Dio onnipotente, non ha più che darci: «Cum esset omnipotens plus dare non potuit». E qual tesoro più grande, soggiunge S. Bernardino da Siena,5 può ricevere o desiderare un’anima, che ‘l sagrosanto Corpo di Gesu-Cristo? «Quis melior thesaurus in corde hominis esse potest, quam Corpus Christi?» Gridava il profeta Isaia: «Notas facite adinventiones eius» (Is. 12).6 Pubblicate, o uomini, le invenzioni amorose del nostro buon Dio. E chi mai, se il nostro Redentore non ci avesse fatto questo dono, chi mai (dico) di noi avrebbe potuto domandarlo? Chi avrebbe mai avuto l’ardire di dirgli: Signore, se volete farci conoscere il vostro amore, mettetevi sotto le specie7 di pane, e permetteteci che possiamo cibarci di Voi? Sarebbe stata stimata pazzia anche il pensarlo. «Nonne insania videtur», dice S. Agostino,8 «dicere, manducate meam carnem, bibite meum sanguinem?» Quando Gesu-Cristo palesò a’ discepoli questo dono del SS. Sagramento che volea lasciarci, quelli non poterono arrivare a crederlo, e si partirono da Lui, dicendo: «Quomodo potest hic carnes suas dare ad manducandum? Durus est hic sermo, et quis potest eum audire» (Io. 6. 61).9 Ma ciò che gli uomini non poteano mai immaginarsi, l’ha pensato e l’ha eseguito il grande amore di Gesu-Cristo.

Dice S. Bernardino10 che ‘l Signore ci ha lasciato questo Sagramento per memoria dell’affetto, ch’Egli ci ha dimostrato nella sua passione: «Hoc Sacramentum est memoriale suae dilectionis». E ciò è conforme a quel che ci lasciò detto Gesù stesso per S. Luca: «Hoc facite in meam commemorationem» (Luc. 22. 19). Non fu contento, soggiunge S. Bernardino,11 l’amore del nostro Salvatore in sagrificar12 la vita per noi: prima di morire fu Egli costretto da questo suo stesso amore a farci il dono più grande di quanti mai ci ha fatti, con donarci se medesimo in cibo: «In illo fervoris excessu, quando paratus erat pro nobis mori, ab excessu amoris maius opus agere coactus est, quam unquam operatus fuerat, dare nobis Corpus in cibum» (S. Bern. Sen. to. 2. Serm. 54. a. 1. c. 1). Dice Guerrico Abbate13 che Gesù in questo Sagramento14 fe’ l’ultimo sforzo d’amore: «Omnem vim amoris effudit amicis» (Serm. 5. de Ascens.). E meglio l’espresse il Concilio di Trento,15 dicendo che Gesù nell’Eucaristia cacciò fuori tutte le ricchezze del suo amore verso degli uomini: «Divitias sui erga homines amoris velut effudit» (Sess. 13. cap. 2).

Qual finezza d’amore, dice S. Francesco di Sales,16 si stimerebbe quella, se un principe stando a mensa, mandasse ad un povero una porzione del suo piatto? Quale poi, se gli mandasse tutto il suo pranzo? quale finalmente, se gli mandasse un pezzo del suo braccio, acciocché se ne cibi? Gesù nella S. Comunione ci dona in cibo non solo una parte del suo pranzo, non solo una parte del suo corpo, ma tutto il suo corpo: «Accipite, et comedite; hoc est Corpus meum».17 Ed insieme col suo corpo, ci dona anche l’anima e la sua divinità. In somma (dice S. Gio. Grisostomo)18 dandoti Gesu-Cristo se stesso nella S. Comunione, ti dona tutto quello che ha e niente si riserva:19 «Totum tibi dedit, nihil sibi reliquit»; ed un altro autore20 scrive:21 «Deus in Eucharistia totum quod est et habet, dedit nobis». Ecco che quel gran Dio, che il mondo non può capire (ammira S. Bonaventura)22 si fa nel SS. Sagramento nostro prigioniero: «Ecce quem mundus capere non potest, captivus noster est». E se il Signore nell’Eucaristia ci dona tutto se stesso, come possiamo temer ch’Egli abbia poi a negarci alcuna grazia che gli domandiamo? «Quomodo non etiam cum illo omnia nobis donavit?» (Rom. 8. 32).

Affetti e preghiere
O Gesù mio, e chi mai v’ha indotto a donarci Voi stesso in cibo? E che mai vi resta più da darci dopo questo dono, per obbligarci ad amarvi? Ah Signore, dateci luce e fateci conoscere, qual’eccesso è stato mai questo, di ridurvi in cibo per unirvi con noi poveri peccatori. Ma se Voi tutto a noi vi donate, è ragione che noi ancora ci doniamo tutti a Voi. O mio Redentore, e com’io ho potuto offendere Voi, che tanto mi avete amato? e che non avete avuto più che fare per guadagnarvi il mio amore? Vi siete fatt’uomo per me, siete morto per me, vi siete fatto cibo mio; ditemi che più vi restava da fare? V’amo, bontà infinita; v’amo, amore infinito. Signore, venite spesso all’anima mia, infiammatemi tutto del vostro santo amore; e fate ch’io mi scordi di tutto, per non pensare e non amare altro che Voi.

Maria SS., pregate per me, e Voi colla vostra intercessione rendetemi degno di ricevere spesso il vostro Figlio sacramentato.

PUNTO II

Consideriamo in secondo luogo il grande amore, che Gesu-Cristo in tal dono ci ha dimostrato. Il SS. Sagramento è un dono fatto solamente dall’amore. Fu necessario già per salvarci, secondo il decreto divino che il Redentore morisse, e col sagrificio della sua vita soddisfacesse la divina giustizia per li nostri peccati; ma che necessità vi era che Gesu-Cristo dopo esser morto si lasciasse a noi in cibo? Ma così volle l’amore. Non per altro, dice S. Lorenzo Giustiniani,1 Egli istituì l’Eucaristia, se non «ob suae eximiae caritatis indicium», se non per farci intendere l’immenso amor2 che ci porta. E questo è appunto quel che scrisse S. Giovanni: «Sciens Iesus, quia venit hora eius, ut transeat ex hoc mundo ad Patrem, cum dilexisset suos, in finem dilexit eos» (Io. 13. 1). Sapendo Gesù esser giunto già il tempo di partirsi da questa terra, volle lasciarci il segno più grande del suo amore, che fu questo dono del SS. Sagramento; ciò appunto significano quelle parole, «in finem dilexit eos», cioè «extremo amore, summe dilexit eos», così3 spiega Teofilatto4 col Grisostomo.

E si noti quel che notò l’Apostolo che il tempo in cui volle Gesu-Cristo lasciarci questo dono, fu il tempo della sua morte. «In qua nocte tradebatur, accepit panem, et gratias agens fregit, et dixit: Accipite et manducate, hoc est Corpus meum» (1. Cor. 11).5 Allorché gli uomini gli apparecchiavano flagelli, spine e croce per farlo morire, allora voll’Egli l’amante Salvatore lasciarci quest’ultimo segno del suo affetto. E perché in morte, e non prima istituì questo Sagramento? Dice S. Bernardino6 che ciò lo fece, perché i segni d’amore che dimostransi dagli amici in morte, più facilmente restano a memoria, e si conservano più caramente: «Quae in fine in signum amicitiae celebrantur, firmius memoriae imprimuntur, et cariora tenentur».7 Gesu-Cristo, dice il santo, già prima in molti modi s’era a noi donato: s’era dato per compagno, per maestro, per padre, per luce, per esempio e per vittima; restava l’ultimo grado d’amore, ch’era il darsi a noi in cibo, per unirsi tutto con noi, come si unisce il cibo con chi lo prende; e questo fec’egli dandosi a noi nel SS. Sagramento: «Ultimus gradus amoris est, cum se dedit nobis in cibum, quia dedit se nobis ad omnimodam unionem, sicut cibus et cibans invicem uniuntur». Sicché non fu contento il nostro Redentore di unirsi solamente alla nostra natura umana, volle con questo Sagramento trovare il modo d’unirsi anche ad ognuno di noi in particolare.

Dicea S. Francesco di Sales:8 «In niun’altra azione può considerarsi il Salvatore né più tenero, né più amoroso, che in questa, nella quale si annichila, per così dire, e si riduce in cibo per penetrare l’anime nostre, ed unirsi al cuore de’ suoi fedeli». Sicché, dice S. Gio. Grisostomo,9 a quel Signore, a cui non ardiscono gli Angeli di fissare gli occhi, «Huic nos unimur, et facti sumus unum corpus, et una caro». Qual pastore mai (soggiunge il santo) pasce le sue pecorelle col proprio sangue? anche le madri danno i loro figli alle nutrici ad alimentarli, ma Gesù nel Sagramento ci alimenta col suo medesimo sangue e a Sé ci unisce: «Quis pastor oves proprio pascit cruore? Et quid dico pastor? Matres multae sunt, quae filios aliis tradunt nutricibus; hoc autem ipse non est passus, sed ipse nos proprio sanguine pascit» (Hom. 60). E perché farsi nostro cibo? perché (dice il santo) ardentemente ci amò, e così volle tutto unirsi e farsi una stessa cosa con noi: «Semetipsum nobis immiscuit, ut unum quid simus; ardenter enim amantium hoc est» (Hom. 61).10 Quindi Gesu-Cristo ha voluto fare il più grande di tutti i miracoli: «Memoriam fecit mirabilium suorum, escam dedit timentibus se» (Psal. 110),11 affin di soddisfare il desiderio che avea di star con noi e di unire in uno il nostro col suo SS. Cuore. «O mirabilis dilectio tua (esclama S. Lorenzo Giustiniani),12 Domine Iesu, qui tuo corpori taliter nos incorporari voluisti, ut tecum unum cor, et animam unam haberemus inseparabiliter colligatam!»

Quel gran servo di Dio, il P. della Colombière,13 dicea così: Se qualche cosa potesse smuovere la mia fede sul mistero dell’Eucaristia, io non dubiterei della potenza, ma dell’amore più presto che Dio ci dimostra in questo Sagramento. Come il pane diventi Corpo di Gesù, come Gesù si ritrovi in più luoghi, dico che Dio può tutto. Ma se mi chiedete14 come Dio ami a tal segno l’uomo, che voglia farsi cibo suo? altro non so rispondere che non l’intendo, e che l’amore di Gesù non può comprendersi. Ma, Signore, un tale eccesso d’affetto di ridurvi in cibo, par che non convenisse alla vostra maestà. Ma risponde S. Bernardo15 che l’amore fa scordare l’amante della propria dignità: «Amor dignitatis nescius». Risponde parimente il Grisostomo16 che l’amore non va cercando ragion di convenienza, quando tratta di farsi conoscere all’amato; egli non va dove conviene, ma dov’è condotto dal suo desiderio: «Amor ratione caret, et vadit quo ducitur, non quo debeat» (Serm. 147). Avea ragione dunque S. Tommaso l’Angelico17 di chiamar questo Sagramento, Sagramento d’amore, e pegno d’amore: «Sacramentum caritatis, caritatis pignus» (Opusc. 58). E S. Bernardo18 di chiamarlo, «Amor amorum». E S. M. Maddalena de’ Pazzi19 di chiamare il giorno di Giovedì santo, in cui fu istituito questo Sagramento, «il giorno dell’amore».

Affetti e preghiere
O amore infinito di Gesù, degno d’infinito amore! Deh quando, Gesù mio, io vi amerò, come Voi avete amato me? Voi non avete più che fare, per farvi da me amare; ed io ho avuto l’animo di lasciare Voi bene infinito, per rivolgermi a’ beni vili e miserabili! Deh illuminatemi, o mio Dio, scopritemi sempre più le grandezze della vostra bontà, acciocché io20 tutto m’innamori di Voi e mi affatichi a darvi gusto. Io v’amo, Gesù mio, mio amore, mio tutto, e voglio spesso unirmi con Voi in questo Sagramento, per distaccarmi da tutto, ed amare Voi solo, mia vita. Soccorretemi Voi, o mio Redentore, per li meriti della vostra passione.

Aiutatemi ancora Voi, o Madre di Gesù e madre mia; pregatelo che m’infiammi tutto del suo santo amore.

PUNTO III

Consideriamo in terzo luogo il gran desiderio di Gesu-Cristo che noi lo riceviamo nella santa Comunione: «Sciens Iesus quia venit hora eius» (Io. 13. 1). Ma come potea Gesù chiamare «ora sua» quella notte, in cui doveva darsi principio alla sua amara passione? Sì, Egli la chiama «ora sua», perché in quella notte dovea lasciarci questo divin Sagramento, per unirsi tutto coll’anime sue dilette. E questo desiderio gli fe’ dire allora: «Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum» (Luc. 22).1 Parole con cui volle il Redentore farc’intendere la brama, che avea di congiungersi con ognuno di noi in questo Sagramento. «Desiderio desideravi», così gli fa dire l’amore immenso ch’Egli ci porta, dice S. Lorenzo Giustiniani:2 «Flagrantissimae caritatis est vox haec». E volle lasciarsi sotto le specie di pane, acciocché ognuno potesse riceverlo; se si fosse posto sotto la specie di qualche cibo prezioso, i poveri non avrebbero avuta la facoltà di prenderlo; e se anche sotto le specie di altro cibo non prezioso, al meno quest’altro cibo forse non sarebbesi trovato in tutt’i luoghi della terra; ha voluto Gesù lasciarsi sotto le specie di pane, perché il pane costa poco, e si ritrova da per tutto, sicché tutti in ogni luogo posson trovarlo e riceverlo.

Per questo gran desiderio che ha il Redentore d’esser ricevuto da noi, non solo Egli ci esorta a riceverlo con tanti inviti: «Venite, comedite panem meum, et bibite vinum quod miscui vobis» (Prov. 9. 5): «Comedite amici, et bibite, et inebriamini carissimi» (Cant. 5. 1): ma ce l’impone per precetto: «Accipite, et comedite, hoc est Corpus meum» (Matth. 26).3 Di più affìnché noi andiamo a riceverlo, ci alletta colla promessa della vita eterna: «Qui manducat meam carnem, habet vitam aeternam» (Io. 6. 54). «Qui manducat hunc panem, vivet in aeternum» (Ibid. 58). E se no, ci minaccia l’esclusione dal paradiso: «Nisi manducaveritis carnem Filii hominis, non habebitis vitam in vobis» (Ib. 53). Questi inviti, promesse e minacce tutte nascono dal desiderio che ha Gesu-Cristo di unirsi con noi in questo sagramento. E questo desiderio, nasce dal grande amore ch’egli ci porta, poiché (come dice S. Francesco di Sales)4 il fine dell’amore altro non è che unirsi all’oggetto amato; e perché in questo sagramento Gesù tutto si unisce all’anima: «Qui manducat meam carnem, et bibit meum sanguinem, in me manet, et ego in illo» (Io. 6. 35): perciò, Egli tanto desidera che noi lo riceviamo. Non si trova ape (disse un giorno il Signore a S. Metilde)5 che con tanto impeto d’amore6 si gitta sopra de’ fiori per succhiarne il mele,7 con quanto io vengo a quest’anime che mi desiderano.

Oh se intendessero i fedeli il gran bene che porta all’anima la Comunione! Gesù è il Signore di tutte le ricchezze, mentre il Padre l’ha fatto padrone di tutto. «Sciens Iesus, quia omnia dedit ei Pater in manus» (Io. 13. 3). Onde quando viene Gesu-Cristo in un’anima nella santa Comunione, porta Egli seco tesori immensi di grazie. «Venerunt autem mihi omnia bona pariter cum illa», dice Salomone, parlando della Sapienza eterna (Sap. 7. 11).

Dicea S. Dionisio8 che il SS. Sagramento ha una somma virtù di santificare l’anima: «Eucharistia maximam vim habet perficiendae sanctitatis». E S. Vincenzo Ferrerio9 lasciò scritto che più profitta l’anima con una Comunione, che con una settimana di digiuni in pane ed acqua. La Comunione, come insegna il Concilio di Trento,10 è quel gran rimedio, che ci libera dalle colpe veniali, e ci preserva dalle mortali: «Antidotum quo a culpis quotidianis liberemur, et a mortalibus praeservemur» (Trid. Sess. 13. c. 2). Onde S. Ignazio martire11 chiamò il SS. Sagramento: «Pharmacum immortalitatis». Disse Innocenzo III12 che Gesu-Cristo colla passione ci liberò dalla pena del peccato, ma coll’Eucaristia ci libera dal peccare: «Per Crucis mysterium liberavit nos a potestate peccati, per Eucharistiae sacramentum liberat nos a potestate peccandi».

In oltre questo Sagramento accende il divino amore. «Introduxit me Rex in cellam vinariam, ordinavit in me caritatem. Fulcite me floribus, stipate me malis, quia amore langueo» (Cant. 2).13 Dice S. Gregorio Nisseno14 che appunto la Comunione è questa cella vinaria, dove l’anima è talmente inebriata dal divino amore, che si scorda della terra e di tutto il creato; e ciò è propriamente il languire di santa carità. Diceva anche il Ven. P. Francesco Olimpio Teatino,15 che niuna cosa val tanto ad infiammarci d’amore verso Dio, quanto la S. Comunione.

Iddio è amore, ed è fuoco d’amore. «Deus caritas est» (Io. 4. 8).16 «Ignis consumens est» (Deuter. 4. 24). E questo fuoco d’amore venne

CONSIDERAZIONE XXXV – DELLA DIMORA AMOROSA CHE FA GESU’ SUGLI ALTARI NEL SS. SAGRAMENTO

«Venite ad me omnes qui laboratis, et onerati estis, et ego reficiam vos» (Matth. 11. 28).

PUNTO I

Il nostro amante Salvatore, dovendo partire da questo mondo, dopo di aver1 colla sua morte compita l’opera della nostra redenzione, non volle lasciarci soli in questa valle di lagrime. «Niuna lingua è bastante (dicea2 S. Pietro d’Alcantara),3 a poter dichiarare la grandezza dell’amore, che Gesù porta ad ogni anima; e perciò volendo questo sposo partire da questa vita, acciocché questa sua assenza non le fosse cagione di scordarsi di lui, le lasciò per memoria questo SS. Sagramento, nel quale Egli stesso rimanea, non volendo che tra ambedue restasse altro pegno per tenere svegliata la memoria ch’Egli medesimo». Merita dunque da noi grande amore questo gran tratto d’amore di Gesu-Cristo; e perciò in questi ultimi nostri tempi Egli ha voluto che s’istituisse4 la festa in onore del suo SS. Cuore, come si porta5 rivelato alla sua serva suor Margherita Maria Alacoque,6 affinché noi rendessimo co’ nostri ossequi ed affetti qualche contraccambio alla sua amorosa dimora che fa sugli altari: e così insieme compensassimo i disprezzi che in questo Sagramento d’amore Egli ha ricevuti e riceve tuttavia dagli eretici e da’ mali cristiani.

Gesù si è lasciato nel SS. Sagramento, 1. per farsi trovare da tutti; 2. per dare7 udienza a tutti; 3. per far grazie a tutti. E per 1. Egli si fa trovare in tanti diversi altari, per farsi trovare da tutti che desiderano di trovarlo. In quella notte in cui il Redentore stavasi licenziando da’ discepoli per andar alla morte, addolorati quelli piangeano, pensando di doversi dividere dal loro caro maestro; ma Gesù li consolava dicendo (e lo stesso diceva allora anche a noi): Figli miei, io vado a morire per voi, per dimostrarvi l’amore che vi porto; ma anche morendo non voglio lasciarvi soli; finché voi sarete sulla terra, voglio con voi restarmi nel SS. Sagramento dell’altare. Io vi lascio il mio corpo, l’anima mia, la mia divinità e tutto me stesso. No, finché voi starete sulla terra, io non voglio separarmi da voi. «Ecce vobiscum sum usque ad consummationem saeculi» (Matth. 28. 20). «Volea lo sposo (scrisse S. Pietro d’Alcantara)8 lasciare alla sua sposa in questa sì lunga lontananza qualche compagnia, acciocché non rimanesse sola, e perciò lasciò questo Sagramento, in cui rimase esso stesso, ch’era la miglior compagnia che potesse lasciarle».9 I gentili si han finti tanti dei, ma non han saputo fingersi un Dio più amoroso del nostro, e che ci sta più vicino e ci assiste con tanto amore. «Non est alia natio tam grandis, quae habeat deos appropinquantes sibi, sicut Deus noster adest nobis».Così appunto la S. Chiesa applica questo passo del Deuteronomio (al cap. 4. v. 7)10 alla festa del SS. Sagramento (Resp. 2. Noct. 3).

Ecco dunque Gesu-Cristo, che se ne sta negli altari, come ristretto in tante prigioni d’amore. Lo cacciano i sacerdoti dalle custodie per esporlo, o per dar la comunione, e poi lo ritornano a chiudere. E Gesù se ne contenta di restarsene ivi il giorno e la notte. Ma che serviva, mio Redentore, a restarvi in tante chiese anche la notte, mentre le genti serrano le porte e vi lasciano solo? Bastava trattenervi solamente nelle ore del giorno. No, vuol Egli starsene anche la notte benché solo, aspettando che la mattina subito lo trovi chi lo cerca. Andava la sacra sposa cercando il suo diletto, e dimandava a chi incontrava: «Num quem diligit anima mea vidistis?» (Cant. 3. 3). E non trovandolo alzava la voce, dicendo: Sposo mio, fatemi sapere dove state: «Indica mihi ubi pascas, ubi cubes in meridie» (Cant. 1. 6). Allora la sposa non lo trovava, perché non vi era ancora il SS. Sagramento; ma al presente, se un’anima vuol trovare Gesu-Cristo, basta che vadi alla parrocchia, o a qualche monastero, ed ivi troverà il suo diletto che l’aspetta. Non vi è villaggio per misero che sia, non vi è monastero di religiosi, che non tenga il SS. Sagramento; ed in tutti quei luoghi il Re del cielo si contenta di starsene chiuso in una cassettina di legno, o in una pietra, dove spesso se ne resta solo, appena con una lampa11 d’olio, senza chi l’assista. Ma, Signore (dice S. Bernardo),12 ciò non conviene alla vostra maestà. Non importa, risponde Gesù, se ciò non conviene alla mia maestà, ben conviene al mio amore.

Or qual tenerezza sentono i pellegrini in visitare la santa casa di Loreto, o i luoghi di Terra santa, la stalla di Betlemme, il Calvario, il santo Sepolcro, dove Gesu-Cristo nacque, o abitò, o morì, o fu sepolto! Ma quanto maggiore dee esser la nostra tenerezza, in trovarci in una chiesa alla presenza di Gesù medesimo, che sta nel SS. Sagramento? Diceva il Ven. P. Giovanni d’Avila13 ch’egli non sapea trovare santuario di maggior divozione e consolazione, che una chiesa dove sta Gesù sagramentato. Ma piangeva all’incontro il P. Baltassarre14 Alvarez in vedere i palagi de’ principi pieni di gente, e le chiese dove sta Gesu-Cristo abbandonate e sole. Oh Dio, se il Signore si fosse lasciato in una sola chiesa della terra, v. gr. solo in S. Pietro in Roma, e si facesse ivi trovare solamente in16 un solo giorno dell’anno, oh quanti pellegrini, quanti nobili e quanti monarchi procurerebbero d’aver la sorte di trovarsi ivi in quel giorno, a corteggiare il Re del cielo ritornato in terra! Oh che nobil tabernacolo d’oro adornato di gemme gli sarebbe apprestato! Oh con qual apparato di lumi si solennizzerebbe in quel giorno questa dimora di Gesu-Cristo! Ma no, dice il Redentore, Io non voglio dimorare in una sola chiesa, né per un solo giorno; né ricerco tante ricchezze e tanti lumi, io voglio dimorar continuamente in tutti i giorni ed in tutti i luoghi, dove si ritrovano i miei fedeli, acciocché tutti mi ritrovino facilmente, e sempre17 ad ogni ora che vogliono.

Ah che se Gesu-Cristo non avesse pensato a questa finezza d’amore, chi mai avrebbe potuto pensarvi? Quando Egli se n’ascese al cielo, se alcuno gli avesse detto allora: Signore, se volete dimostrarci il vostro affetto, restatevi con noi sugli altari sotto le specie di pane, acciocché ivi possiamo trovarvi quando vogliamo; qual temerità sarebbe stata stimata questa domanda? Ma quello che non ha saputo neppure pensare alcuno degli uomini, l’ha pensato e l’ha fatto il nostro Salvatore. Ma oimè dov’è la nostra gratitudine ad un tanto favore? Se venisse un principe da lontano in un paese a posta per esser visitato da un villano, che ingratitudine sarebbe del villano, se non volesse vederlo, o vederlo sol di passaggio?

Affetti e preghiere
O Gesù mio Redentore, o amore dell’anima mia, a Voi quanto è costato il rimanervi con noi in questo Sagramento? Voi avete dovuto prima patir la morte, per potervi restare su i nostri altari; e poi avete dovuto soffrir tante ingiurie in questo Sagramento per assisterci colla vostra presenza. E noi possiamo esser così pigri, e trascurati in venire a visitarvi, sapendo che Voi tanto gradite le nostre visite, per colmarci di beni, allorché ci vedete alla vostra presenza? Signore, perdonatemi mentre fra questi ingrati vi sono stato ancor’io. Da ogg’innanzi,18 Gesù mio, voglio spesso visitarvi e trattenermi quanto più posso alla vostra presenza, a ringraziarvi, ad amarvi ed a cercarvi grazie, giacché a questo fine Voi vi siete restato in terra chiuso ne’ tabernacoli e fatto nostro prigioniero d’amore. V’amo, bontà infinita, v’amo, o Dio d’amore, v’amo, o sommo bene, amabile più d’ogni bene. Fate ch’io mi scordi di me e di tutto, per ricordarmi solo del vostro amore, e per vivere la vita, che mi resta, tutta occupata a darvi gusto. Fate ch’io da oggi avanti non trovi maggior delizia, che di trattenermi a’ piedi vostri. Infiammatemi tutto del vostro santo amore.

Maria madre mia, impetratemi un grande amore al SS. Sagramento, e quando mi vedete trascurato, ricordatemi Voi la promessa, che ora fo di andare a visitarlo ogni giorno.

PUNTO II

Per 2. Gesu-Cristo nel Sagramento dà udienza a tutti. Dicea S. Teresa1 che non tutti in questa terra possono parlare col principe. I poveri appena posson sperare di parlargli e fargli sentire le loro necessità per mezzo di qualche terza persona: ma col Re del cielo non vi vogliono terze persone, tutti, e nobili e poveri posson parlarci, stando egli nel Sagramento, da faccia a faccia. Perciò si chiama Gesù fiore de’ campi: «Ego flos campi, et lilium convallium» (Cantic. 2. 1). I fiori de’ giardini stan chiusi e riserbati,2 ma i fiori de’ campi stanno esposti a tutti. «Ego flos campi», commenta Ugon Cardinale,3 «quia omnibus me exhibeo ad inveniendum». Con Gesu-Cristo dunque nel Sagramento possono parlarci tutti, e ad ogni ora del giorno. S. Pier Grisologo4 (parlando della nascita del Redentore nella stalla di Betlemme) dice che i re non danno sempre udienza; spesso accade che andando taluno a parlare col principe, le guardie lo licenziano con dirgli che non è tempo allora di udienza, che venga appresso. Ma il Redentore volle nascere in una spelonca aperta, senza porte e senza guardie, per dare udienza a tutti, e ad ogni ora: «Non est satelles, qui dicat non est hora». Lo stesso avviene con Gesù nel SS. Sagramento. Stanno aperte continuamente le chiese, ognuno può andare a parlare col Re del cielo sempre che vuole. E vuole Gesu-Cristo che gli parliamo ivi con tutta la nostra confidenza, perciò si è posto sotto le specie di pane. Se Gesù comparisse sugli altari in un trono di luce, come comparirà nel giudizio finale, chi di noi avrebbe l’animo di accostarsegli vicino? Ma perché il Signore, dice S. Teresa,5 desidera che noi gli parliamo e gli cerchiamo le grazie con confidenza e senza timore, perciò ha coverta6 la sua maestà colle specie di pane. Egli desidera, come dice ancora Tommaso da Kempis,7 che noi ci trattiamo, come tratta un amico coll’altro amico,8 «ut amicus ad amicum». Quando l’anima si trattiene a piè d’un altare, par che Gesù le dica quelle parole de’ Cantici: «Surge, propera, amica mea, formosa mea, et veni» (Cant. 2. 10).9 «Surge», alzati, anima, le dice, non temere. «Propera», accostati a me vicino; «amica mea», non mi sei più nemica, mentre m’ami e sei pentita d’avermi offeso: «formosa mea», non sei più deforme agli occhi miei, la mia grazia ti ha fatta bella; «et veni», vieni su, dimmi quel che vuoi, a posta io sto in questo altare. Qual gaudio sentiresti, lettor mio, se ti chiamasse il re nel suo gabinetto e ti dicesse: Dimmi che vuoi? che ti bisogna? io t’amo e desidero di farti bene. Questo dice il Re del cielo Gesu-Cristo a tutti coloro che lo visitano: «Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis, et ego reficiam vos» (Matth. 11. 28). Venite poveri, infermi, afflitti, ch’io posso e voglio arricchirvi, sanarvi e consolarvi. A questo fine io mi trattengo sugli altari. «Clamabis, et dicet: Ecce adsum» (Isa. 58. 9).10
Affetti e preghiere
Giacché dunque, amato mio Gesù, Voi vi trattenete sugli altari, per sentire le suppliche de’ miserabili che a Voi ricorrono, sentite oggi la supplica che vi fo io misero peccatore. O Agnello di Dio, sagrificato e morto sulla croce, io sono un’anima redenta col vostro sangue; perdonatemi tutte l’ingiurie che v’ho fatte, e assistetemi colla vostra grazia, acciocché io11 non vi perda più. Fatemi parte, Gesù mio, di quel dolore, che voi aveste de’ peccati miei nell’orto di Getsemani. O mio Dio, non vi avessi mai offeso! Caro mio Signore, s’io moriva in peccato, non vi potrei più amare; ma Voi per questo mi avete aspettato, acciocché io v’ami. Vi ringrazio di questo tempo che mi concedete; e giacché ora posso amarvi, io voglio amarvi. Datemi la grazia Voi del vostro santo amore: ma di un tale amore, che mi faccia scordare di tutto, per pensare solamente a compiacere il vostro amantissimo Cuore. Ah Gesù mio, voi avete consumata tutta la vostra vita per me, fate ch’io consumi almeno per Voi la vita che mi resta. Tiratemi tutto al vostro amore; fatemi tutto vostro, prima ch’io muoia. Spero tutto ai12 meriti della vostra passione.

E spero ancora alla13 vostra intercessione, o Maria; Voi sapete ch’io v’amo, abbiate pietà di me.

PUNTO III

Gesù nel Sagramento dà udienza a tutti, per far grazie a tutti. Dice S. Agostino1 che ha più desiderio il Signore di dispensare le sue grazie a noi che noi di riceverle: «Plus vult ille tibi benefacere, quam tu accipere concupiscas». E la ragione è, perché Dio è bontà infinita, e la bontà di sua natura è diffusiva, sì che desidera di comunicare i suoi beni a tutti. Si lamenta Iddio, quando l’anime non vengono a cercargli le grazie: «Nunquid solitudo factus sum Israeli? aut terra serotina? Quare ergo dixit populus meus, non veniemus ultra ad te?» (Ier. 2. 31). Perché (dice il Signore) non volete più venire a me? che forse mi avete ritrovato come terra sterile o tardiva, quando mi avetecercate le grazie? S. Giovanni vide il Signore col petto pieno di latte, cioè di misericordia, e cinto da una fascia d’oro, cioè dall’amore, col quale egli desidera di dispensare a noi le sue grazie. «Vidi praecinctum ad mamillas zona aurea» (Apoc. 1. 13). Gesu-Cristo sempre sta pronto a beneficarci, ma dice il Discepolo,2 che specialmente nel SS. Sagramento egli dispensa le grazie con più abbondanza. E ‘l B. Errico Susone3 dicea che Gesù nel Sagramento esaudisce più volentieri le nostre preghiere. Siccome una madre che tiene il petto ripieno di latte, va trovando bambini che vengano a succhiare, acciocché la sgravino da quel peso, così appunto il Signore da questo Sagramento d’amore ci chiama tutti, e ci dice: «Ad ubera mea portabimini… quomodo si cui mater blandiatur, ita ego consolabor vos» (Is. 66. 13).4 Il P. Baltassarre5 Alvarez6 vide appunto Gesù nel SS. Sagramento colle mani piene di grazie, per donarle agli uomini; ma non trovava chi le volesse.

O beata quell’anima, che se ne sta a piè d’un altare a domandar grazie a Gesu-Cristo! La contessa di Feria, fatta monaca di S. Chiara,7 se ne stava sempre che poteva avanti il SS. Sagramento, ed ivi riceveva continuamente tesori di grazie. Dimandata un giorno che facesse tante ore innanzi al Venerabile? Rispose: «Io vi starei tutta l’eternità. Che si fa innanzi al SS. Sagramento? e che cosa non si fa? che fa un povero avanti un ricco? che fa un infermo avanti un medico? che si fa? si ringrazia, si ama, si domanda». Oh quanto vagliono queste ultime parole per trattenersi con frutto avanti il SS. Sagramento.

Si lamentò Gesu-Cristo colla mentovata serva di Dio suor Margherita Alacoque8 dell’ingratitudine che gli usano gli uomini in questo Sagramento d’amore, allorché fe’ vederle il suo Cuore circondato di spine, con una croce di sopra, in un trono di fiamme, dandole con ciò ad intendere l’amorosa dimora ch’Egli fa nel Sagramento, e poi le disse così: Ecco quel Cuore che tanto ha amato gli uomini, e che non ha risparmiato niente: è giunto a consumarsi per dimostrar loro il suo amore. Ma io per riconoscenza non ricevo che ingratitudini dalla maggior parte, per le irriverenze e disprezzi che mi fanno in questo Sagramento d’amore. E ciò che più m’è sensibile, è che sono cuori a me consagrati». Non vanno gli uomini a trattenersi con Gesu-Cristo, perché non l’amano. Piace loro star le ore intere9 a parlare con un amico, e poi loro dà tedio il trattenersi una mezz’ora con Gesu-Cristo! Dirà taluno: Ma perché Gesu-Cristo non mi concede il suo amore? Ma io rispondo: Se voi non discacciate dal cuore l’amore della terra, come vuol entrarvi l’amor divino? Ah che se voi poteste veramente dire col cuore quel che dicea S. Filippo Neri10 a vista del SS. Sagramento: «Ecco l’amor mio, ecco l’amor mio»; non avreste voi tedio a trattenervi le ore e le giornate intere11 avanti il SS. Sagramento.

Ad un’anima innamorata di Dio le ore avanti Gesù sagramentato sembrano momenti. S. Francesco Saverio12 tutto il giorno faticava per le anime, e nella notte poi quale era il suo riposo? era il trattenersi avanti il SS. Sagramento. S. Gio. Francesco Regis,13 quel gran missionario della Francia, dopo avere spesa tutta la giornata in confessare e predicare, se n’andava la notte alla chiesa, e trovandola qualche volta chiusa, restava a trattenersi fuori della porta al freddo e al vento, per corteggiare almeno così da lontano il suo amato Signore. S. Luigi Gonzaga14 desiderava di starsene sempre avanti il SS. Sagramento, ma perché gli era stato imposto da’ superiori a non trattenervisi; passando per l’altare, e sentendosi da Gesù tirato a trattenersi, era costretto a partire per far l’ubbidienza; onde poi il santo giovine amorosamente gli dicea: «Recede a me, Domine, recede»: Signore, non mi tirate, lasciatemi partire, così vuol l’ubbidienza. Ma se tu, fratello mio, non provi questo amore a Gesu-Cristo, procura tu di visitarlo ogni giorno, ch’egli ben t’infiammerà il cuore. Ti senti freddo? accostati al fuoco, dicea S. Caterina da Siena.15 Ed oh beato te, se Gesù ti fa la grazia d’infiammarti del suo amore. Allora certamente che più non amerai

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altro che Gesù, e disprezzerai tutte le cose della terra. Dice S. Francesco di Sales:16 «Quando va a fuoco la casa, si buttano tutte le robe dalla finestra».

Affetti e preghiere
Ah Gesù mio, fatevi conoscere, e fatevi amare. Voi siete così amabile; Voi non avete più che fare per farvi amare dagli uomini, e come poi tanti pochi fra gli uomini son quelli che v’amano? Ohimè che fra questi ingrati misero sono stato ancor io. Sono stato ben grato colle creature, se mi han fatto qualche dono o favore; solo con Voi che m’avete donato Voi stesso, sono stato un ingrato, sino a disgustarvi tante volte gravemente, e ad ingiuriarvi co’ miei peccati. Ma vedo che Voi in vece d’abbandonarmi, seguite a venirmi appresso e a chiedere il mio amore. Sento che seguite ad intimarmi l’amoroso precetto: «Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo».17 Giacché dunque Voi anche da me ingrato volete esser amato, sì che vi voglio amare. Voi desiderate il mio amore, ed io al presente favorito dalla vostra grazia altro non desidero che amarvi. V’amo, mio amore, mio tutto. Aiutatemi ad amarvi, per quel sangue che avete sparso per me. Amato mio Redentore, a questo18 sangue io metto tutte le mie speranze, ed all’intercessione19 della vostra SS. Madre, le preghiere della quale volete Voi che aiutino la nostra salute.

O Maria madre mia, pregate Gesù per me: Voi accendete nell’amor divino tutt’i vostri amanti, accendete ancor me che tanto v’amo.

CONSIDERAZIONE XXXVI – DELL’UNIFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO

«Et vita in voluntate eius» (Ps. 29. 6).

PUNTO I

Tutta la nostra salute, e tutta la perfezione consiste nell’amare Dio. «Qui non diligit manet in morte» (1. Io. 3. 14). «Caritas est vinculum perfectionis» (Colos. 3).1 Ma la perfezione dell’amore consiste poi nell’uniformare la nostra alla divina volontà; poiché questo è l’effetto principale dell’amore, come dice l’Areopagita,2 unire le volontà degli amanti, sicché non abbiano che un solo cuore ed un solo volere. Intanto dunque piacciono a Dio l’opere nostre, le penitenze, le comunioni, le limosine, in quanto sono secondo la divina volontà; poiché altrimenti non sono virtuose, ma difettose e degne di castigo.

Ciò venne principalmente ad insegnarci dal cielo col suo esempio il nostro Salvatore. Ecco quel ch’egli disse in entrare nel mondo, come scrive l’Apostolo: «Hostiam et oblationem noluisti, corpus autem aptasti mihi. Tunc dixi: Ecce venio, ut faciam, Deus, voluntatem tuam» (Heb. 10. 5).3 Voi, Padre mio, avete rifiutate le vittime degli uomini, volete ch’io vi sacrifichi colla morte questo corpo che m’avete dato, eccomi pronto a far la vostra volontà. E ciò più volte dichiarò, dicendo ch’egli non era venuto in terra, se non per fare la volontà del suo Padre: «Descendi de coelo, non ut faciam voluntatem meam, sed voluntatem eius qui misit me» (Io. 6. 38). Ed in ciò volle che conosciamo il suo grande amore al Padre, in vedere ch’Egli andava a morire, per ubbidire al di lui volere: «Ut cognoscat mundus, quia diligo Patrem, et sicut mandatum dedit mihi Pater, sic facio, surgite, eamus» (Io. 31. 14).4 Quindi poi disse ch’egli riconoscea per suoi solamente coloro che faceano la divina volontà: «Quicunque enim fecerit voluntatem Patris mei qui in coelis est, ipse meus frater, et soror, et mater est» (Matth. 12. 38). Questo poi è stato l’unico scopo e desiderio di tutt’i santi in tutte le loro opere, l’adempimento della divina volontà. Il B. Errico Susone5 diceva: «Io voglio esser più presto un verme più vile della terra colla volontà di Dio, che un Serafino colla mia». E S. Teresa:6 «Tutto ciò che dee procurare chi si esercita nell’orazione, è di conformare la sua volontà alla divina; e si assicuri (aggiungea) che in ciò consiste la più alta perfezione; chi più eccellentemente la praticherà, riceverà da Dio i più gran doni, e farà più progressi nella vita interiore». I beati del cielo per ciò amano perfettamente Dio, perché sono in tutto uniformati alla divina volontà. Quindi c’insegnò Gesu-Cristo a domandar la grazia di far la volontà di Dio in terra, come la fanno i santi in cielo: «Fiat voluntas tua, sicut in coelo et in terra».7 Chi fa la divina volontà, diventa uomo secondo il cuore di Dio, come appunto il Signore chiamava Davide:8 «Inveni virum secundum cor meum, qui faciet omnes voluntates meas» (1. Reg. 1. 14). E perché? perché Davide9 stava sempre apparecchiato ad eseguir ciò che volea Dio: «Paratum cor meum, Deus, paratum cor meum» (Ps. 56. 8 et Ps. 107. 2).10 Ed altro egli non cercava al Signore, che d’insegnargli a fare la sua volontà: «Doce me facere voluntatem tuam» (Ps. 142. 10).

Oh quanto vale un atto di perfetta rassegnazione alla volontà di Dio! basta a fare un santo. Mentre S. Paolo perseguitava la Chiesa, Gesù gli apparve, l’illuminò e lo convertì. Il santo allora altro non fece, che offerirsi a fare il voler divino: «Domine, quid me vis facere?» (Actor. 9. 6). Ed ecco che Gesu-Cristo subito lo dichiarò vaso d’elezione, e apostolo delle genti: «Vas electionis est mihi iste, ut portet nomen meum coram gentibus» (Act. 9. 15). Chi fa digiuni, chi fa limosine, chi si mortifica per Dio, dona a Dio parte di sé; ma chi gli dona la sua volontà gli dona tutto. E questo è quel tutto, che Dio ci dimanda, il cuore, cioè la volontà: «Fili mi, praebe cor tuum mihi» (Prov. 23).11 Questa insomma ha da essere la mira di tutt’i nostri desideri, delle nostre divozioni, meditazioni, comunioni ecc. l’adempire la divina volontà. Questo ha da esser lo scopo di tutte le nostre preghiere, l’impetrare la grazia di eseguire ciò che Dio vuole da noi. Ed in ciò abbiamo da domandare l’intercessione de’ nostri santi avvocati e specialmente di Maria SS., che c’impetrino luce e forza di uniformarci alla volontà di Dio in tutte le cose; ma specialmente in abbracciar quelle a cui ripugna il nostro amor proprio. Dicea il Ven. Giovanni d’Avila:12 «Vale più un benedetto sia Dio nelle cose avverse, che sei mila ringraziamenti nelle cose a noi dilettevoli». Affetti e preghiere
Ah mio Dio, tutta la mia ruina è stata per lo passato in non volermi uniformare alla vostra santa volontà. Detesto e maledico mille volte que’ giorni e quei momenti, in cui per fare la mia volontà ho contraddetto al vostro volere, o Dio dell’anima mia. Ora tutta a Voi la dono; ricevetela, o mio Signore, e legatela talmente al vostro amore, che da Voi non possa più ribellarsi. V’amo, bontà infinita, e per l’amore che vi porto, a voi tutto mi offerisco. Disponete Voi di me e di tutte le cose mie come vi piace, ch’io in tutto mi rassegno a’ vostri santi voleri. Liberatemi dalla disgrazia di far cosa contra la vostra volontà, e poi trattatemi come volete. Eterno Padre, esauditemi per amore di Gesu-Cristo. Gesù mio, esauditemi per li meriti della vostra passione.

E Voi Maria SS., aiutatemi; impetratemi questa grazia di eseguire in me la divina volontà, in cui consiste tutta la mia salute; e niente più vi domando.

PUNTO II

Bisogna uniformarci non solo in quelle cose avverse che ci vengono direttamente da Dio, come sono le infermità, le desolazioni di spirito, le perdite di robe o di parenti; ma anche in quelle che ci vengono anche da Dio, ma indirettamente, cioè per mezzo degli uomini, come le infamie, i dispregi, le ingiustizie e tutte l’altre sorte di persecuzioni. Ed avvertiamo che quando siamo offesi da taluno nella roba, o nell’onore, non vuole già Dio il peccato di colui che ci offende, ma ben vuole la nostra povertà e la nostra umiliazione. È certo che quanto succede, tutto avviene per divina volontà: «Ego Dominus formans lucem et tenebras, faciens pacem, et creans malum» (Is. 45. 7). E prima lo disse l’Ecclesiastico: «Bona et mala, vita et mors a Deo sunt» (Eccli. 11. 14). Tutti1 in somma vengono da Dio, così i beni, come i mali. Si chiamano mali, perché noi li chiamiamo così, e noi li facciamo mali; poiché se noi l’accettassimo, come dovressimo2 con rassegnazione dalle mani di Dio, diventerebbero per noi non mali, ma beni. Le gioie che rendono più ricca la corona de’ santi, sono le tribolazioni accettate per Dio, pensando che tutto viene dalle sue mani. Il santo Giobbe, quando fu avvisato che i Sabei si avevan prese le sue robe, che rispose? «Dominus dedit, Dominus abstulit» (Iob. 1. 21). Non disse già, il Signore mi ha dati questi beni, ed i Sabei me l’han tolti; ma il Signore me l’ha dati, e ‘l Signore me l’ha tolti. E perciò lo benediceva, pensando che tutto era avvenuto per suo volere: «Sicut Domino placuit, ita factum est, sit nomen Domini benedictum» (Ibid.). I santi martiri Epitetto ed Atone,3 quando erano tormentati con uncini di ferro e torce ardenti, altro non diceano: «Signore, si faccia in noi la vostra volontà!» E morendo, queste furono l’ultime parole che dissero: «Siate benedetto, o Dio eterno, poiché ci date la grazia di adempire in noi il vostro santo beneplacito». Narra Cesario4 (lib. 10. cap. 6) che un certo monaco, con tutto che non facesse vita più austera degli altri, nondimeno facea molti miracoli. Di ciò maravigliandosi l’Abbate, gli domandò un giorno, quali divozioni egli praticasse? Rispose che egli era più imperfetto degli altri, ma che solo a questo era tutto intento, ad uniformarsi in ogni cosa alla divina volontà. E di quel danno (ripigliò il superiore) che giorni sono ci fece quel nemico nel nostro podere, voi non ne aveste alcun dispiacere? No, padre mio, disse, anzi ne ringraziai il Signore, mentr’egli tutto fa o permette per nostro bene. E da ciò l’Abbate conobbe la santità di questo buon religioso.

Lo stesso dobbiamo far noi, quando ci accadono le cose avverse, accettiamole tutte dalle divine mani, non solo con pazienza, ma con allegrezza, ad esempio degli apostoli, che godeano nel vedersi maltrattati per amore di Gesu-Cristo: «Ibant gaudentes a conspectu concilii, quoniam digni habiti sunt pro nomine Iesu contumeliam pati» (Act. 5. 41). E che maggior contento che soffrire qualche croce e sapere che abbracciandola noi diamo gusto a Dio? Se vogliamo dunque vivere con una continua pace, procuriamo da ogg’innanzi5 di abbracciarci col divino volere, con dir sempre in tutto ciò che ci avviene: «Ita, Pater, quoniam sic fuit placitum ante te» (Matth. 11. 26). Signore, così è piaciuto a Voi, così sia fatto. A questo fine dobbiamo indrizzare tutte le nostre meditazioni, comunioni, visite e preghiere: pregando sempre Dio che ci faccia uniformare alla sua volontà. Ed offeriamoci sempre dicendo: Mio Dio, eccoci, fatene di noi quel che vi piace. S. Teresa6 almeno cinquanta volte il giorno si offeriva a Dio, acciocché avesse di lei disposto come volea.

Affetti e preghiere
Ah divino mio Re, amato mio Redentore, venite e regnate voi solo da oggi avanti nell’anima mia. Prendetevi tutta la mia volontà sicché ella non desideri, né voglia se non quello che volete Voi, Gesù mio. Per lo passato io v’ho tanto disgustato opponendomi a’ vostri santi voleri; ciò mi dà maggior pena, che se avessi patito ogni altro male: me ne pento, me ne dispiace con tutto il cuore. Merito il castigo, io non lo ricuso, l’accetto; liberatemi solo dal castigo di privarmi del vostro amore, e poi fate di me quel che vi piace. V’amo, caro mio Redentore, v’amo, mio Dio; e perché v’amo voglio fare tutto quello che volete Voi. O volontà di Dio, Voi siete l’amor mio. O sangue del mio Gesù, Voi siete la speranza mia; da Voi spero da ogg’innanzi7 di star sempre unito alla divina volontà: ella sarà la mia guida, il mio desiderio, il mio amore e la mia pace. In quella voglio sempre vivere, e riposare. «In pace in idipsum dormiam, et requiescam».8 Dirò sempre in tutto ciò che mi avverrà: Dio mio, così avete voluto Voi, così voglio io: Dio mio, voglio solo quel che volete Voi; si faccia in me sempre la vostra volontà, «fiat voluntas tua». Gesù mio, per li meriti vostri concedetemi la grazia ch’io vi replichi sempre questo bel detto d’amore: «Fiat voluntas tua, fiat voluntas tua». O Maria madre mia, beata Voi che adempiste sempre ed in tutto la divina volontà; impetratemi Voi, che da oggi avanti l’adempisca io ancora. Regina mia, per quanto amate Gesu-Cristo, impetratemi questa grazia: da Voi la spero.

PUNTO III

Chi sta unito alla divina volontà, gode anche in questa terra una perpetua pace: «Non contristabit iustum, quidquid ei acciderit» (Prov. 12. 21). Sì, perché un’anima non può avere maggior contento che di vedere adempirsi quant’ella vuole. Chi non vuole altro se non quello che vuole Dio, ha quanto vuole, perché già quanto succede, tutto avviene per volontà di Dio. L’anime rassegnate, dice Salviano,1 se sono umiliate, questo vogliono; se patiscono povertà, vogliono esser povere; in somma vogliono tutto ciò che accade, e perciò menano una vita beata: «Humiles sunt, hoc volunt: pauperes sunt, paupertate delectantur; itaque beati dicendi sunt». Viene il freddo, il caldo, la pioggia, il vento, e chi sta unito alla volontà di Dio, dice: Io voglio questo freddo, questo caldo ecc., perché così vuole Dio. Viene quella perdita, quella persecuzione, viene l’infermità, viene la morte, e quegli dice: Io voglio esser misero, perseguitato, infermo, voglio anche morire, perché così vuole Dio. Chi riposa nella divina volontà, e si compiace di tutto ciò che fa il Signore, è come stesse2 di sopra alle nubi, vede le tempeste che sotto di quelle infuriano, ma non resta da loro né leso, né perturbato. Questa è quella pace, come dice l’Apostolo, che «exsuperat omnem sensum» (Ephes. 3. 2),3 che avanza tutte le delizie del mondo, ed è una pace stabile, che non ammette vicende: «Stultus sicut luna mutatur, sapiens in sapientia manet sicut sol» (Eccli. 27. 12).4 Lo stolto (cioè il peccatore) si muta come la luna, che oggi cresce e domani manca: oggi si vede ridere, domani piangere, oggi allegro e tutto mansueto, domani afflitto e furibondo; in somma si muta, come si mutano le cose prospere o avverse che gli accadono. Ma il giusto è come il sole, sempre eguale ed uniforme nella sua tranquillità, in ogni cosa che avviene; poiché la sua pace sta nell’uniformarsi alla divina volontà. «Et in terra pax hominibus bonae voluntatis» (Luc. 2. 14). S. Maria Maddalena de Pazzi5 in sentir nominare «Volontà di Dio», sentiva talmente consolarsi, che usciva fuori di sé in estasi d’amore. Nella parte inferiore non manca di farsi sentire qualche puntura delle cose avverse, ma nella superiore regnerà sempre la pace, quando la volontà sta unita a quella di Dio. «Gaudium vestrum nemo tollet a vobis» (Io. 16. 22). Ma che pazzia è quella di coloro, che ripugnano al volere di Dio! Quel che vuole Iddio, si ha senza meno da adempire. «Voluntati eius quis resistit?» (Rom. 9. 19). Onde i miseri han da soffrir già la croce, ma senza frutto, e senza pace. «Quis restitit ei, et pacem habuit?» (Iob. 9. 4).

E che altro vuole Dio, se non il nostro bene? «Voluntas Dei sanctificatio vestra» (1. Thess. 4. 3). Vuol vederci santi, per vederci contenti in questa vita, e beati nell’altra. Intendiamo che le croci che ci vengono da Dio, «omnia cooperantur in bonum» (Rom. 8. 28). Anche i castighi in questa vita non vengono per nostra ruina, ma affinché ci emendiamo e ci acquistiamo la beatitudine eterna. «Ad emendationem non ad perditionem nostram evenisse credamus» (Iudt. 8. 27). Iddio ci ama tanto, che non solo brama, ma è sollecito della salute di ciascuno di noi. «Deus sollicitus est mei» (Psal. 39. 18). E che mai ci negherà quel Signore, che ci ha dato il medesimo suo Figlio? «Qui proprio Filio suo non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum, quomodo non etiam cum illo omnia nobis donavit?» (Rom. 8. 32). Abbandoniamoci dunque sempre nelle mani di quel Dio, il quale sempre ha premura del nostro bene, mentre siamo in questa vita. «Omnem sollicitudinem vestram proiicientes in eum, quoniam ipsi cura est de vobis» (1. Petr. 5. 7). Pensa tu a me (disse il Signore a S. Caterina6 di

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    Siena), ed io penserò sempre a te. Diciamo spesso colla sacra sposa: «Dilectus meus mihi, et ego illi» (Cant. 2. 16). L’amato mio pensa al mio bene, ed io non voglio pensare ad altro che a compiacerlo, e ad unirmi alla sua santa volontà. E non dobbiamo pregare, dicea il santo Abbate Nilo,7 che Dio faccia quel che vogliamo noi, ma che noi facciamo quel ch’egli vuole.

Chi fa sempre cosi farà una vita beata ed una morte santa. Chi muore tutto rassegnato nella divina volontà lascia agli altri una moral certezza della sua salvazione. Ma chi in vita non sarà unito al voler divino, non lo sarà neppure in morte, e non si salverà. Procuriamo dunque di renderci familiari alcuni detti della Scrittura, co’ quali ci terremo sempre uniti alla volontà di Dio. «Domine, quid me vis facere?»8 Signore, ditemi che volete da me, che tutto voglio farlo. «Ecce ancilla Domini»:9 Ecco l’anima mia è vostra serva, comandate, e sarete ubbidito. «Tuus sum ego, salvum me fac»:10 Salvatemi, Signore, e poi fatene di me quel che vi piace; io son vostro, non sono più mio. Quando accade qualche avversità più pesante, diciamo subito: «Ita, Pater, quoniam sic fuit placitum ante te» (Matth. 11. 26). Dio mio, così è piaciuto a Voi, così sia fatto. Sopra tutto siaci cara la terza petizione del Pater noster: «Fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra».11 Diciamola spesso con affetto e replichiamola più volte. Felici noi se viviamo e terminiamo la vita dicendo così: «Fiat, fiat voluntas tua!»

Affetti e preghiere
O Gesù mio Redentore, Voi avete consumata la vostra vita sulla croce a forza di dolori, per rendervi la causa della mia salute. Abbiate dunque pietà di me e salvatemi; e non permettete che un’anima redenta da Voi con tante pene e con tanto amore abbia da odiarvi eternamente nell’inferno. Voi non avete più che fare per obbligarmi ad amarvi. Ciò voleste darmi ad intendere, allorché prima di spirar sul Calvario diceste quelle amorose parole: «Consummatum est».12 Ma come io poi ho riconosciuto il vostro amore? per lo passato ben posso dire ch’io non ho avuto più che fare per disgustarvi ed obbligarvi a odiarmi. Vi ringrazio che mi avete sopportato con tanta pazienza, ed ora mi date tempo di rimediare alla mia sconoscenza, e di amarvi prima di morire. Sì, voglio amarvi, e voglio amarvi assai, mio Salvatore, mio Dio, mio amore e mio tutto; e voglio far tutto quel che piace a Voi; vi dono tutta la mia volontà, tutta la mia libertà e tutte le cose mie. Vi sagrifico da ora anche la mia vita, accettando quella morte che mi manderete, con tutte le pene e circostanze che l’accompagneranno. Unisco da ora questo mio sagrificio al gran sagrificio che Voi, Gesù mio, faceste per me della vostra vita sulla croce. Voglio morire per fare la vostra volontà. Deh per li meriti della vostra passione datemi la grazia di stare in vita sempre rassegnato alle vostre disposizioni; e quando verrà la morte, fate ch’io l’abbracci con una totale uniformità al vostro santo beneplacito. Voglio morire dicendo: «Fiat voluntas tua».

Maria madre mia, così moriste Voi; impetratemi ch’io ancora muoia così.

Apparecchio e ringraziamento per i sacerdoti nel celebrare la messa

Approccio alla lettura

Scheda

Edizioni contemporanee a S. Alfonso
1758, s. d., s. l., in 12°, pp. 78.

1758, Napoli, Di Domenico, insieme alla Novena del S. Natale.

Esercizi di preparazione e di ringraziamento per la messa secondo i diversi giorni della settimana, preceduti da una praefatio paraenetica sulla grandezza del S. Sacrificio.

Quest’opuscolo si ispira continuamente alle Considerazioni per ciascun giorno della settimana in preparazione al S. Sacrificio della Messa dell’Ecclesiastico santificato del Sarnelli. Il soggetto di ciascuna preparazione è lo stesso: molto spesso le idee del Sarnelli sono riprese o riassunte, ma gli affetti che seguono le considerazioni e quelli del ringraziamento sono più originali. In una lettera del 1767a Suor Brianna Carafa, religiosa benedettina di S. Marcellino in Napoli, S. Alfonso dichiara che egli si serve tutti i giorni di questi affetti e preghiere.
L’Apparecchio e ringraziamento appare la prima volta a Napoli nel 1758 come terza appendice alla Novena del santo Natale; fu anche pubblicato in opuscolo separato di 72 pagine in 12°. Il solo esemplare ritrovato non recava più la pagina con il titolo; e dunque non è possibile determinarne la data, ma sembra che la stampa sia stata fatta nel 1758, nello stesso periodo delle Meditazioni in onore di S. Giuseppe, anche esse in appendice alla Novena del S. Natale..

Nelle edizioni più recenti quest’esercizio di preparazione e di ringraziamento è spesso unito all’Apparecchio e ringraziamento che debbono usarsi da’ sacerdoti, presente nella seconda parte del libro Delle Ceremonie della Messa del 1769.

Durante la vita di S. Alfonso queste considerazioni e preghiere furono tradotte in latino da Andochius Danner, monaco cisterciense dell’abbazia di Salem- lez – Constance: qui esse appaiono per la prima volta nel 1771 con il titolo: Sacerdos per pias considerationes et affectus in singulos hebdomadae dies ad tremendum Missae sacrificium peragendum adductus et reductus.

P. Maurice De Meulemeester

Bibliographie générale des écrivains rédemptoristes,
Louvain 1933, pp. 102-103

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latvimmacolata

Ave Maria, padre Emmanuel al secolo D'Aulerio Roberto ex direttore e tecnico della trbc tele radio buon consiglio; emittente televisiva religiosa e cattolica senza fine di lucro, senza pubblicità con lo scopo di diffondere la devozione alla Madonna attraverso la Consacrazione illimitata all'Immacolata. Ora direttore e tecnico di La TV dell'Immacolata con la stessa finalità della trbc. Ave Maria|

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